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Autore: ___Ace    03/06/2014    4 recensioni
Non c’è mai nulla di sicuro. Un giorno sei vivo e quello dopo sei morto. Niente è certo, niente è scritto, niente è indelebile. E allora, cosa ti rimane? Perché vivere fuori se si muore dentro?
La vita apparentemente perfetta di Eustass Kidd cambia in un istante. Il suo cuore l’attimo prima funziona e l’attimo dopo si blocca. Quando riprende a battere, la sua esistenza si trasforma e la sua strada incrocerà quelle di altre persone con problemi e punti di vista differenti. Speranze, sogni, ideali, tutto verrà condiviso, giudicato e, forse, esaudito.
Oltre a questo, però, si scontrerà anche con la vita apparentemente pacata di Trafalgar Law e, se prima Kidd era convinto di non aver bisogno di nessuno aiuto per andare avanti, si dovrà ricredere. Perché potrebbe scoprirsi bisognoso di un cuore nuovo per sopportare quel saccente e malefico bastardo se non vuole finire all’obitorio prima del previsto.
Kidd/Law.
Ace/Marco.
Penguin/Killer.
See ya.
Genere: Commedia, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eustass Kidd, Marco, Penguin, Portuguese D. Ace, Trafalgar Law | Coppie: Eustass Kidd/Trafalgar Law
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 8.

 

(Il pomeriggio seguente).

Fissai il vuoto per una buona decina di minuti, elaborando la spiegazione che mi era stata data e cercando di connettere bene tutti i dati per non fraintendere nulla.
«Quindi è vivo?» domandai, forse per l’ennesima volta nel giro di un’ora. Qualcuno avrebbe dovuto dare un premio a Trafalgar per l’immensa pazienza che aveva portato quel pomeriggio, dopo che avevano appena trasferito Kidd in osservazione a operazione finita e che era durata la bellezza di una notte intera, mattina compresa.
Law assentì, massaggiandosi le palpebre pesanti per il sonno perso. Da quello che avevo capito non si era mai allontanato dalla sala d’attesa mentre il nostro amico era sotto ai ferri. «Si, se la caverà».
A qualsiasi altro il tono di voce che usò sarebbe parso piatto e senza il minimo sentimento, ma avevo passato abbastanza mesi in sua compagnia per capire che era sollevato. Semplicemente faceva di tutto per non darlo a vedere e mascherava le sue emozioni con la spossatezza che il nervosismo accumulato gli aveva lasciato addosso. Era un miracolo che non avesse ancora avuto un crollo di nervi o del fisico.
«Ce l’ha fatta davvero» mormorai, tornando ad osservare la porta chiusa in fondo al corridoio dove Kidd riposava in quel momento, ancora sotto anestesia e sedativi. Ma, nonostante tutte quelle difficoltà, si sarebbe svegliato. Dovevo aggrapparmi a quella consapevolezza e tenermi stretto ad essa perché, se solo l’idea di perdere anche il mio migliore amico oltre che a Penguin mi sfiorava, il mondo sembrava crollarmi addosso. Invece dovevo stare tranquillo e concentrarmi sui giorni a venire. Sicuramente Kidd avrebbe avuto bisogno di compagnia e di qualche goccio di alcool per mandare giù la nottataccia che aveva passato. Non sapevo spiegarmi come, ma avevo la netta sensazione che il rosso sarebbe stato piuttosto irascibile e intrattabile dopo aver saputo ciò che gli era successo.
Feci un respiro profondo, schioccandomi le nocche e prendendo a tamburellare le dita sul ginocchio. La riabilitazione stava andando bene, il fisioterapista sembrava un tipo abbastanza sveglio da capire che non doveva urtarmi i nervi con troppe domande o incitamenti e aveva pure imparato a sue spese che, quando non mi riusciva di compiere bene un movimento, non doveva compatirmi e dirmi che sarebbe andata meglio una delle prossime volte. Ad ogni modo, me la stavo cavando e le stampelle non le usavo quasi più. Certo, mi sentivo ancora un po’ instabile se provavo a correre, ma la buona notizia era che avevo superato bene il primo ciclo di sedute e presto mi avrebbero dimesso, a patto che continuassi a farmi visitare almeno una volta a settimana fino a che non fossi guarito del tutto.
La verità era che le ferite peggiori non erano quelle fisiche, non erano le ossa rotte, quelle potevano riaggiustarsi; non erano i graffi e le cicatrici, quelli scomparivano con disinfettante e punti di sutura; non era nemmeno il trauma dell’incidente, quello lo avevo superato; no, era qualcosa di peggiore, una perdita che non si poteva recuperare, un vuoto impossibile da colmare. Di dimenticare non se ne parlava, tutto tra quella pareti mi ricordava quel ragazzo disabile, ma iperattivo. Forse uscire dall’ospedale mi ci voleva, sarebbe servito ad alleviare almeno un po’ la sofferenza.
Quando Kidd ci aveva provato, convincendomi ad andare al mare, durante il tragitto verso il porto mi ero sentito quasi rinnovare. Respiravo aria diversa che non sapeva di chiuso, di dolore e di morte, e potevo percepire chiaramente la forza scorrermi nel sangue, rianimandomi.
Non mi sarei lasciato Penguin alle spalle, quello mai, sarebbe sempre rimasto con me, nel cuore, ma sentivo che dovevo andarmene, ormai era giunto il momento. Dovevo andare avanti e riprendere in mano le redini della mia esistenza e decidere di farne qualcosa di costruttivo, di soddisfacente e di bello.
Dovevo farlo, dopotutto l’avevo promesso a Penguin.
«Ragazzi!» chiamò qualcuno con il fiatone. Mi voltai dalla parte opposta e vidi Ace avanzare verso di noi, le mani tra i capelli corvini scompigliati, più simili ad un nido di uccelli che ad altro, dei pantaloni da tuta grigi, troppo larghi per lui dato che gli ricadevano sui fianchi e doveva continuamente tirarli su per evitare di perderli e una maglia arancione un po’ sbiadita. Sembrava essersi appena svegliato.
«L’ho appena saputo. Quegli stronzi dei dottori in reparto hanno preferito lasciarmi dormire invece che svegliarmi per avvisarmi. Come se non avessi dormito abbastanza!» spiegò stizzito, sedendosi scompostamente accanto a Law e mettendosi una mano sul petto per calmare il respiro ansante e affaticato.
«Non esagerare» lo ammonì il moro con un’occhiataccia storta, «Ti ricordo che tu sei il miracolo del decimo piano che si è svegliato da un coma irreversibile. Vedi di non farti venire un infarto per lo sforzo».
Ace alzò gli occhi al cielo. «Che palle! Non fate altro che ripetermelo».
Il riferimento al plurale che fece e il tono irritato che usò mi diedero ad intendere che doveva essere successo qualcosa a causa di quel discorso che Trafalgar aveva appena fatto sulla sua condizione di salute, ma non era il momento migliore per fare domande. Infatti, pochi istanti dopo, il ragazzino volle subito essere informato nei minimi particolari sulle condizioni di Kidd, costringendo così Law a dover raccontare la storia del salvataggio in ascensore daccapo, sotto lo sguardo ammirato del moccioso. Venne poi definito un eroe, ma liquidò il suo gesto come un nonnulla, sminuendo l’importanza e non volendosi prendere nessun merito.
«Ho fatto solo quello che dovevo» disse serio, non staccando gli occhi dall’ultima stanza infondo al corridoio.
Avrei voluto dirgli grazie in quel momento, grazie per non aver permesso che anche Kidd ci abbandonasse. Lo aveva salvato e non sarei mai stato in grado di sdebitarmi, anche se non voleva sentir parlare di gratitudine, complimenti e altro. Non voleva il merito di nulla, come se la cosa non gli importasse, ma avevo chiaramente capito che anche a lui bastava solo sapere che Eustass Kidd presto sarebbe tornato a riempire l’ospedale di bestemmie e insulti coloriti. Senza di lui sarebbe stato davvero un mortorio.
Passammo le ore successive del pomeriggio in quel modo, dandoci il turno per andare alle macchinette per prendere qualcosa: un caffè per Law; una barretta di cioccolato per Ace e una bottiglietta d’acqua per me. Quando fu il turno del Bello Addormentato Miracolato, il soprannome era passato di grado al suo risveglio, lo vidi fare ritorno con qualcosa in più che riconobbi come la merenda preferita del rosso.
«Così quando si sveglia trova qualcosa di buono, no?» fece Ace con fare innocente, sembrando un bambino contento per aver avuto una trovata geniale.
Law represse uno sbadiglio e si stiracchiò come un gatto, lasciando che le ossa della schiena scricchiolassero come assi di legno. Quel suono mi fece venire la pelle d’oca.
«Perché non vai a dormire un po’?» gli proposi, «Se ci sono novità sarai il primo a saperlo» gli assicurai subito dopo, conscio di quanto ci tenesse ad essere presente al risveglio del suo…
A proposito, suo cosa? Escono ufficialmente assieme o scopano e basta? mi domandai, attendendo una risposta che arrivò glaciale e irremovibile.
«No».
Non cercai più di suggerirgli di fare il suo bene e lasciai perdere. Fin dall’inizio era stato chiaro che Trafalgar non avrebbe mosso nemmeno un muscolo per allontanarsi da lì, piuttosto si sarebbe fatto trascinare via a forza, non senza prima aver combattuto, urlato e lottato.
Ace intanto, il quale aveva preso a sgranocchiare cioccolata rumorosamente guardandosi attorno alla ricerca di qualcosa da fare per passare il tempo, quasi rischiò di strozzarsi per le risate alla vista di qualcosa che per lui doveva essere molto buffo.
«Ehi, guardate lì» disse, tossendo e indicando qualcuno al banco informazioni, «Mai vista una roba del genere!».
Si riferiva senza ombra di dubbio all’unica cosa assurda, appariscente ed eccentrica, ovvero una giacca di piume rosa, indossata da un uomo piuttosto alto e biondo che gesticolava tentando di spiegare qualcosa ad una delle infermiere di turno. Accanto a lui, un altro uomo, vestito con pantaloni, camicia con le maniche arrotolate fino ai gomiti e le bretelle, restava impassibile, guardando ovunque tranne che verso i due vicino a lui, quasi come se volesse scomparire dalla scena.
Inarcai un sopracciglio in modo curioso. «Sono piuttosto particolari, si».
«Quella roba» si fece sentire Law, «Sono gente che conosco».
Mi voltai a guardarlo con sorpresa. In quell’arco di tempo non lo avevo mai visto in compagnia di nessun adulto, genitore, amico o tutore che fosse. «Sul serio?» domandai stupito. E chi se ne fregava del mio commento di prima. Nemmeno lui poteva dire che non fossero almeno un po’ strani.
«Certo» affermò con calma, sospirando stancamente e alzandosi dalla sedia per andare incontro ai due sconosciuti che lo notarono solo in quell’istante. Quello con la giacca rosa alzò una mano in un gesto di saluto, affrettando il passo e dirigendosi sparato verso il ragazzo davanti a me che, chiudendo gli occhi, si preparava mentalmente ad affrontare quel momento.
«Sono i miei papà» dichiarò, prima di incamminarsi lungo il corridoio e facendo si che Ace sputasse nelle mani quello che stava mangiando, mentre io sbiancavo.
«Ah» dissi, dopo attimi di silenzio, guardando come Law scompariva, sommerso dal piumaggio dell’abito e sovrastato dalla mole del primo genitore. «Buona a sapersi».
«Quanto vorrei che Marco potesse vedere tutto questo» sentii borbottare da Ace che, quasi con fastidio, si puliva le mani con un fazzoletto, scagliandolo malamente nel cestino e facendo centro. Ma che diamine avevano combinato quei due?
Sono stato troppo tempo chiuso in camera, pensai malinconico, decidendo di alzarmi e andare a prendermi qualcosa da mangiare, lasciando così a Trafalgar un po’ di tempo da solo con i suoi parenti, i quali sembravano davvero felici di vederlo, dato il modo amorevole con cui lo riempivano di attenzioni e la reazione non del tutto affettuosa con cui il figlio li respingeva, insistendo nel dire che stava bene e che non era più un bambino.
Raggiunsi le macchinette con tutta calma, scegliendo cosa prendere e optando per un sacchetto misero di patatine che avrei finito nel giro di qualche secondo. Pazienza, avevo già deciso che ne avrei preso un altro per sicurezza.
Fu mentre inserivo gli spiccioli che mi accorsi di che qualcuno mi stava osservando dal punto in cui due corridoi facevano angolo, unendosi e dando su un’altra ala dell’ospedale.
Fissai quel ragazzino imbottito dal giaccone e con una tracolla marrone che fungeva da borsa improvvisata; i ciuffi castano ramati gli ricoprivano la fronte scomposti, mentre gli occhiali da sole dalle lenti nere gli ricadevano sul naso. Reggeva tra le mani un cappellino verde e lo stringeva in modo nervoso mentre si mordicchiava le labbra, abbozzando un sorriso timido e indeciso su cosa dire.
Lo riconobbi subito, sentendo le pareti che avevo innalzato nel mio animo per combattere la tristezza e la mancanza di Penguin cedere inevitabilmente alla vista di quel piccoletto.
«Tu sei Killer» mormorò. Non era una domanda.
Feci un respiro profondo, ricambiando lo sguardo abbattuto e scostandomi un poco la frangia.
«Ciao Shachi».
 
*

 

(Nello stesso momento, in sala d’attesa).

«Appena l’abbiamo saputo siamo saltati in macchina e siamo corsi qui».
«Non oso immaginare il calcolo dei rilevatori di velocità al vostro passaggio» risposi sarcastico, scostandomi di dosso la mano di mio padre che si era immersa nei miei capelli per carezzarli. Detestavo quando facevano così, per la precisione sempre, riempiendomi di attenzioni che non volevo davanti a chiunque. Non erano capaci di trattenersi almeno un poco?
«Suvvia, non potevamo certo restare indifferenti» si difese l’uomo, accomodandosi sulla sedia dove fino a pochi secondi prima era stato seduto Ace, il quale se l’era data a gambe levate per non venire immischiato in una riunione di famiglia. Per quanto ne sapevo, ne aveva già una abbastanza numerosa da bastargli per tutta la vita ed ero certo che nessuno volesse avere a che fare con un rompi coglioni come Donquixote Doflamingo.
Mio padre per disgrazia.
Lui e papà Vergo erano le persone più strane che avessi mai incontrato, quell’aspetto un po’ spiegava anche i miei comportamenti scostanti, ma ciò lo sapevo soltanto io e alle altre persone la cosa poteva risultare difficile da capire. Mi avevano adottato quando ero ancora in fasce, un minuscolo cosino rosa appena nato che aveva la meravigliosa caratteristica di non piangere durante la notte. Ogni volta che mi obbligavano ad ascoltare tutta la storia, che per me era un supplizio di nervi, mi spiegavano come fosse stato per loro amore a prima vista davanti al mio faccino dolce e ai miei occhioni glaciali. Reprimevo conati di vomito ogni santa volta.
Mi avevano così portato a casa loro, una villa lussuosa in uno dei quartieri più privilegiati della città, e mi avevano cresciuto con tanto amore paterno per tutti quegli anni. Ad anima viva, o a loro stessi, non l’avrei mai detto, ma erano stati dei bravi genitori.
Nonostante gli impegni lavorativi trovavano sempre il tempo di passare con me i momenti principali della giornata, come la colazione, il pranzo e la cena. La sera, poi, mi tenevano compagnia in salone, si interessavano della scuola, dei miei amici, dello sport, insomma, si tenevano aggiornati su tutta la mia vita. Le feste le passavamo assieme e mai avevano provato a scambiare l’affetto con regali o altre sciocchezze per compensare la loro assenza. Non era mai successo e, per quanto odiassi ammetterlo persino a me stesso, non avevo nulla di che lamentarmi. L’unica cosa che, a ventiquattro anni compiuti, stonava in tutto quel quadretto, era il fatto che continuassero ad essere così ruffiani e attaccati a me, tanto da mettermi sempre in imbarazzo tentando di stritolarmi, invece che abbracciarmi.
«Il nostro bambino ormai è cresciuto, Doffy».
«Già, ha eseguito il suo primo intervento e per giunta in un ascensore!» si inorgoglì il biondo, guardandomi fiero.
Strinsi i denti e sospirai pesantemente. «Non era un intervento» tentai di spiegare, ma fu tutto inutile. Quei due idioti continuarono a blaterare sciocchezze per una buona mezz’ora, ripetendo quanto fossero orgogliosi, contenti e felici di sapermi in forma e in buona salute. Erano, inoltre, stati informati dei miei progressi e del mio ormai insperato aumento di peso, tanto che sentirono il bisogno di saltarmi di nuovo addosso. Fortunatamente per me, riuscii ad evitare la cosa.
«E’ gratificante vedere come l’amore riesca a sistemare tutto, non trovi Vergo?» fece papà Doffy ad un tratto, incuriosendomi. A cosa diavolo si stava riferendo?
«Sono d’accordo» disse l’altro, concentrandosi poi su di me e guardandomi attraverso le lenti scure degli occhiali, «Devi essere proprio innamorato di quel ragazzo, Law».
Mi ghiacciai all’istante e li guardai entrambi allibito, chiedendomi se per caso non si fossero fermati a casa del loro collega di lavoro, Kaido, per fumarsi qualcosa di illegale in allegra compagnia. Più volte era capitato che tornassero a casa sfatti come melanzane e che iniziassero a parlare di discorsi assurdi, arrivando persino ad insultarsi in ricordo degli anni passati al liceo, durante i quali si erano fatti un sacco di dispetti prima di arrivare a concludere qualcosa di più soddisfacente per loro. Che poi, dopo aver sbraitato per qualche ora, prendessero a scambiarsi effusioni amorose in qualsiasi stanza capitassero, a me poco importava, purché stessero lontani dalla mia camera. Certo, se avessero iniziato a farlo in ospedale sarebbe stato complicato da spiegare ai presenti.
«Datemi un motivo per non richiedere l’intervento degli assistenti sociali» li minacciai, fulminandoli con lo sguardo. Quello sembrò calmarli e rimetterli in riga, così, dopo qualche altra risata a cui non mi unii, mi fecero sazio tra di loro e mi invitarono a sedergli accanto, come ai vecchi tempi.
Sbuffando decisi di assecondarli solo per evitare altri fastidi e, dopo averli accontentati, iniziai a spiegare come erano andate le cose, partendo dall’inizio e arrivando, passo dopo passo, a raccontare di tutta la gente che avevo conosciuto in quell’anno, delle loro stranezze, dei molteplici difetti e dei pochissimi pregi che avevano. La questione di Penguin fu parecchio difficile da rispolverare, ma la affrontai a testa alta e fui grato per le pacche confortevoli che ricevetti come sostegno. Vollero poi sapere tutto sul cretino che aveva sbandato con la moto rompendosi tutte le ossa, di quello con la stanza dipinta e di come avesse ricevuto il miracolo, dell’altro tizio con l’aria da pollo e dell’irascibile rosso.
«Eustass-ya è un completo deficiente, papà» affermai convinto, sfoggiando la mia solita espressione di sufficienza mentre Doflamingo rideva sotto i baffi. Vergo, intanto, sorseggiava un caffè, ascoltando attento ogni parola.
«Come avete fatto ad andare d’accordo?» chiese Doffy curioso.
«Non andiamo d’accordo, semplice» dissi con un’alzata di spalle.
«Deve per forza essere un selvaggio a letto» concluse lui per me, intuendo benissimo quello che non volevo dire.
«Doffy, così imbarazzi il ragazzo» lo riprese Vergo, che tra i due era sempre stato quello più delicato e calmo, anche se a natale, davanti alle mie espressioni felici, si scioglieva come un pupazzo di neve al sole.
Alzai gli occhi al cielo e mi passai una mano sul viso con fare esasperato. Ancora mi domandavo come avevo fatto a sopportarli durante tutto quel tempo.
Trascorremmo il resto della giornata a chiacchierare della mia permanenza all’ospedale, passando poi al loro lavoro. Li ascoltai volentieri mentre mi rendevano partecipe delle ultime novità, dei contratti firmati, dell’espansione dell’azienda di famiglia che stavano progettando e di un nuovo tipo di erba che un loro compare gli aveva promesso di fargli provare.
I miei papà avevano un lavoro che rendeva abbastanza bene nel mondo del commercio ed erano ben lontani dall’avere problemi con la legge di qualsiasi tipo, solamente, di tanto in tanto, si toglievano qualche sfizio e andavano a fare baldoria con amici di vecchia data immischiati in chissà quali affari. E, fino a che non creavano problemi, a me andava bene.
«Tornando alla tua stabilità riacquistata, figliolo» iniziò a dire Vergo, mettendo fine a quella tranquillità famigliare che si era creata con le chiacchiere, «I medici hanno detto che sono disposti a concederti di tornare a casa. Perché non ce lo hai detto?».
Non risposi. Era ovvio che prima o poi sarebbero venuti a scoprirlo, tenendoglielo nascosto, però avevo guadagnato qualche mese. Ma, da quel momento, capii subito che il mio soggiorno all’ospedale stava per volgere al termine.
«Touché» sussurrai, volgendo lo sguardo alla porta dell’ultima stanza del corridoio, dando in quel modo a intendere l’unica vera risposta che potevo dare ai miei genitori, i quali capirono all’istante il motivo esatto.
«Devi riprendere gli studi, lo sai» mi ricordò Vergo, sospirando dispiaciuto e giocherellando con il bicchierino di plastica per il caffè vuoto.
«L’università è lontana» mormorai, sapendo benissimo che quella era solo una scusa inutile. Non mi ero mai lamentato di dover soggiornare fuori città per studiare, tornando a casa i week-end, o restando via anche un paio di settimane per non dover sempre fare avanti e indietro per la strada.
Doflamingo mi passò un braccio attorno alle spalle con fare paterno e, per una volta, non smielato. «Law, siamo stati tanto in pena per te ed è stato una prova difficile da superare, ma tu ce l’hai fatta. Ora vogliamo solo il tuo bene e sappiamo quanto tu ci tenga a fare medicina, l’hai dimostrato anche salvando la vita a quel ragazzo. Potrai venire a trovarlo ogni volta che vorrai, non deve per forza essere un addio».
Annuii silenzioso, mordendomi un labbro e abbassando il capo. Loro rimasero a coccolarmi, non in modo esagerato si intende, per un po’, lasciandomi poi il tempo di assimilare la notizia e assicurandomi che sarebbero tornati dopo cena per salutarmi prima di tornare a casa.
Rimasto solo ebbi modo di rendermi conto quanto poco desiderassi andarmene e lasciare soli quei poveri idioti. Chi avrebbe detto loro cosa fare e come non rischiare di morire ogni giorno? Chi li avrebbe ripresi quando cercavano di combinare guai, minando alla loro salute? I medici e gli infermieri non avevano nessun controllo su di loro e ascoltavano solo me. Come si sarebbero ridotti?
No, la domanda giusta da pormi era: che avrei fatto io? Come sarei riuscito a tornare alla mia solita routine dopo quasi un anno rinchiuso all’ospedale? Con che faccia avrei detto a quel montato di Eustass-ya che lo avrei lasciato a combattere da solo?
«Trafalgar Law?» mi chiamò qualcuno e, quando alzai gli occhi sull’infermiera che teneva aperta una porta, invitandomi a raggiungerla, mi sentii mancare.
«Si è svegliato».
 
*

 

(Nello stesso momento, sul tetto dell’ospedale).

Ero seduto sul cornicione da ore ormai, fissando prima il vuoto, poi il giardino sul retro, poi le figure delle persone che, da quell’altezza, sembravano formiche e, infine, il panorama. Il sole stava tramontando all’orizzonte e potevo benissimo vederlo scompare come se fosse inghiottito dal mare con il quale la città confinava. Faceva un po’ freddo e l’inverno era alle porte, così mi strinsi nella felpa per riscaldarmi un poco, sentendo le braccia intirizzite e azzardandomi allora a muovere le gambe. Le trovai indolenzite, essendo rimaste costrette in una posizione rannicchiata per quasi tutto il pomeriggio, così le allungai davanti a me per stirarle quel tanto che bastava per mettere fine al formicolio fastidioso che provavo.
Per tutta la notte passata avevo cercato di darmi delle risposte, di trovare le parole adatte che sembravo aver perso da tempo, sperando di poterle trovare per non perdere un rapporto durato anni, un fratello e me stesso compreso.
Avevo combinato un casino dopo l’altro. Mi ero comportato come uno stupido quando Ace mi aveva baciato la prima e ultima volta, ed ero certo che, chi mi conosceva, se l’avesse saputo sarebbe rimasto stupito dalla mia reazione esagerata. Forse nessuno, però, mi conosceva così bene, o nemmeno io sapevo bene com’ero realmente, ma ciò, ormai, non aveva più importanza. Come se non fosse stato abbastanza lo avevo lasciato solo, voltandogli le spalle e uscendo dall’orfanotrofio. Non ero andato via per cercare di calmarmi, la verità era che ero scappato come un codardo, preferendo lasciare tutto sulle sue spalle, invece che affrontare la cosa con il buon senso come avevo sempre fatto davanti ai problemi che mi si erano presentati nel corso degli anni. Lo avevo abbandonato, quello avevo fatto, e non potevo fare a meno di sentirmi in colpa.
Mi avvolsi le braccia attorno al petto, un vano tentativo di sentirmi meno solo. Quella sensazione portò a galla ricordi dell’infanzia, più precisamente quando Ace era capitato alle porte dell’orfanotrofio, dove poi era cresciuto con me e tutti gli altri. Quando eravamo diventati amici ci eravamo promessi che lo saremo stati per sempre e che ci saremo sempre sostenuti, non lasciando mai che uno dei due rimanesse senza una spalla su cui appoggiarsi e fare riferimento.
«Dimmi che sarà per sempre» aveva detto Ace quel giorno di tanti anni fa, guardandomi con un espressione speranzosa e felice, mentre io, più grande di età, ma affezionato a quella piccola peste, gli davo la mia parola. Poi, a distanza di tempo, ero riuscito ad infrangerla.
Sussultai e feci un respiro profondo per calmarmi, sentendomi sempre più uno schifo e convinto di meritarmelo. Ace aveva ragione ad avercela con me, dopotutto. Mi ero reso conto di cosa gli avevo fatto passare solo la sera precedente, quando mi aveva sbattuto in faccia tutto quello che aveva provato, tutta la verità e tutti i tormenti che gli avevo causato credendo di fare del bene. Sarebbe stato meglio per lui se non gli avessi mai tenuto compagnia, si sarebbe sentito più a suo agio e, probabilmente, si sarebbe anche risvegliato prima.
Invece avevo dovuto rovesciargli addosso tutti i miei sensi di colpa, le mie preoccupazioni e i miei problemi, non preoccupandomi dei suoi. Ero stato un vero egoista e non avevo scuse. Credevo di essere stato l’unico ad aver perso qualcosa, l’unico che non sorrideva più, l’unico ferito in tutta quella faccenda. Mi sentivo vuoto, incapace di esprimermi, circondato da pareti troppo strette. Per un momento avevo perso la speranza. Credevo di aver perso tutto, invece c’era chi stava peggio e quella persona altri non era che Ace, il mio migliore amico, mio fratello, la prima cosa che mi veniva in mente quando ricordavo l’infanzia, l’adolescenza, gli anni all’orfanotrofio. Se dovevo raccontare un avvenimento particolare, lui c’era; se parlavo dei corsi a scuola, lui c’era; se descrivevo un’esperienza assurda o una rissa, lui c’era; se parlavo della mia famiglia, lui c’era. Ace c’era sempre stato e continuava ad esserci, sempre, ogni giorno, ogni ora, ogni respiro.
Guardai il cielo, notando come le nuvole si muovessero veloci, portate dal vento. Erano le stesse che vedevo da bambino, anche se ormai ero cresciuto.
Non ero più un ragazzo immaturo, i tempi dei giochi erano terminati quando Ace mi aveva baciato, ma non era un male perché, in quel modo, si era chiuso un capitolo e ne era iniziato un altro, forse persino migliore, solo che non l’avevo capito subito. Avevo rischiato di uccidere tutti i miei sogni scappando dalla verità e non avevo nessuna intenzione di rischiare di perdere tutto un’altra volta.
Me ne ero andato perché la sorpresa era stata davvero grande e inaspettata. Prima Ace ed io stavamo litigando e l’attimo dopo mi ritrovavo con le sue labbra sulle mie. E il gesto era stato così spontaneo, così naturale e dannatamente giusto che non ero stato capace di accettarlo, troppo preso dal fare le cose per bene senza uscire dalle regole. Pensandoci con il senno di poi: chi se ne fregava se eravamo fratelli? Cosa cambiava? Il giudizio degli altri?
In quel momento, seduto fuori a parecchi metri di altezza come se fossi stato sul tetto del mondo, mi resi conto che avevo perso un sacco di tempo a farmi domande e a pormi problemi che non esistevano. Non potevo nemmeno immaginare di vivere un giorno in più lontano da mio fratello, avevo fatto a meno delle sue stronzate troppo a lungo ed era arrivato il momento di chiarire le cose a recuperare il tempo perso una volta per tutte.
Era ora di crescere.
Saltai in piedi, respirando profondamente e lasciando che un piccolo sorriso deciso affiorasse sulla bocca. Iniziai a camminare verso la porta, affrettando sempre di più il passo fino a che non mi ritrovai a correre giù per le scale, ogni passo tre gradini e buttando fuori tutto il male, deciso a raggiungere il piano dove avevano spostato Ace per non dover sprecare altri minuti preziosi.
Doveva sapere che ero stanco di scusarmi, stanco di parlare, stanco di rigirare il dito nella piaga e stanco di fargli male, facendone anche a me stesso. Volevo dirgli, anzi, volevo dimostrargli che era finita, che avevo capito, che non c’era più bisogno di preoccuparsi perché niente era tanto importante per impedirci di iniziare qualcosa di più dell’amicizia e della fratellanza. Volevo che sapesse che aveva ragione, che ce l’aveva sempre avuta e che io ero stato un emerito coglione a non accorgermene prima. Ma non mi sarei scusato, no, l’avrei solo obbligato a sopportare la mia presenza per il resto della vita e non me ne sarei andato per nessuna ragione al mondo. Non l’avrei più abbandonato.
Raggiunsi la sua stanza ed entrai senza bussare, richiudendomi la porta alle spalle e lasciandola sbattere. Questo fece si che il ragazzo stravaccato sul letto con il viso rivolto verso il soffitto e i piedi adagiati in modo scomposto sul cuscino sobbalzasse per lo spavento, rovesciando la testa all’indietro stupito e scattando a sedere come una molla non appena mi riconobbe.
L’occhiata torva e infastidita che mi rivolse non fu piacevole, ma non bastò per scalfire la mia decisione e le mie intenzioni, così sostenni il suo sguardo, riempiendomi la vista di quegli occhi scuri e profondi che mi erano stati celati troppo a lungo. Mi era sempre stato facile leggere le sue emozioni e capire cosa c’era dietro, perciò sapevo bene che la sua espressione severa nascondeva uno stato d’animo triste e ferito.
«Che vuoi?» sbottò, trattenendosi a stendo dallo sbattermi fuori dalla stanza personalmente.
Non mi intimidì minimamente; ero fuggito per tutto quel tempo e non lo avrei rifatto ancora, non mi avrebbe più visto dargli le spalle e mai più lo avrei lasciato ad affrontare la fine da solo.
Feci un passo verso di lui, poi un altro e un altro ancora, arrivando al bordo del letto e chinandomi per appoggiare le mani sul materasso, esattamente ai lati dei suoi fianchi per essere faccia a faccia con lui.
Non si mosse e non si allontanò, forse smise persino di respirare, ma non importava, avevo ben altro a cui prestare attenzione, anche se il lieve rossore che apparse sulle sue guance mi distrasse per qualche secondo dal mio intento.
«Dimmi che sarà per sempre» mormorai, sentendomi scoppiare il petto a causa del battito accelerato, forse per la corsa o per la tensione che mi causava l’attesa di una risposta.
Ace sembrava essersi perso totalmente: sbatteva le palpebre come a volersi accertare che fossi realmente lì, gli occhi fissi nei miei e il respiro corto. Probabilmente stava pensando che avrebbe voluto ricadere in coma in quell’esatto istante.
Fui io a baciarlo, quel giorno. Era l’unica cosa da fare, l’unica giusta che potesse compensare le parole che avrei voluto dire, ma che sarebbero solo risultate superflue e forzate. Così baciai Ace, esattamente come aveva fatto lui con me, all’improvviso e senza aspettare altro tempo.
E quando mi allontanai, imprecando per la fitta al labbro che mi aveva morso, mi ritrovai di fronte il suo solito ghigno divertito, quello che gli compariva quando sapeva di averne combinata una delle sue, andandone fiero.
Mi passai il pollice sulla bocca, fissandolo dall’alto e meditando vendetta.
«Felice di vedere che sei sempre il solito, Ace» ironizzai, scompigliandogli i capelli già disastrati.
«Volevo solo farti capire chi comanda» ammiccò.
 
*

 

(Quella stessa sera).

«Mi hanno operato d’urgenza e non me ne sono nemmeno reso conto?».
«Eri incosciente, Eustass-ya, ovvio che tu non te ne sia accorto».
«E non c’è stato nemmeno un imprevisto? Nessuna complicazione?» domandai, inarcando un sopracciglio e guardandolo dubbioso. Sapevo la verità, ma vedere come quel saccente tentasse di infinocchiarmi senza esporsi e ammettere che mi aveva strappato alla Morte era troppo divertente. Già immaginavo la sua faccia stupita quando lo avrei smascherato.
«Che vuoi dire?» domandò perplesso con una perfetta faccia innocente. Quella volta, però, non mi avrebbe fregato.
«Oh, non lo so. Sai, di solito capita che qualcosa vada storto».
«Tu sei stato fortunato» mormorò con un’alzata di spalle, non cogliendo le mie allusioni e ignorando il mio ghigno sprezzante.
«Trafalgar».
«Mhm?».
«So dell’ascensore. So che se sono vivo lo devo solo al tuo intervento».
Non rispose e lasciò che il silenzio riempisse la stanza. Avrei dovuto iniziare a sghignazzare per essere riuscito a fregarlo e a metterlo nel sacco, ma mi accorsi solo in quel momento che qualcosa non andava. Quelle parole non dette stridevano nell’aria, rendendola pesante e irrespirabile.
Non si trattava del mio cuore, non era solo una reazione postoperatoria, ma altro di spiacevole. Si trattava di un qualcosa non detto e che, ne ero certo, lui stava cercando di evitare.
Se ne stava seduto sulla sedia accanto al letto, i gomiti appoggiati sulle gambe e le mani incrociate. Fissava il pavimento e, a parte quando era entrato, non aveva più alzato lo sguardo per lanciarmi occhiatacce come al solito.
«Cos’hai combinato?» chiesi, anche se non ero certo di volerlo sapere perché temevo una risposta spiacevole.
Alla fine quella arrivò come uno schiaffo e, per quanto provai ad ignorarla e a dirmi che non aveva alcuna importanza, fece male.
«Mi dimettono» disse in un sussurro, quasi si rifiutasse pure lui di volerlo ammettere, «Me ne vado tra qualche giorno».
 
 
 
 
 
Angolo Autrice.
Questo è spuntato oggi dal nulla. Ho messo mano alla tastiera e si è creato da solo. Spero non ci siano troppi errori perché ho un po’ sonno sinceramente e ho paura di aver dimenticato qualcosa o non essermi accorta magari di alcuni intoppi. Ad ogni modo spero che lo gradiate perché, rullo di tamburi, il prossimo sarà l’ultimo capitolo. Si, avete capito bene.
Dio, questa ff doveva durare poco invece, causa problemi e mancanza di ispirazione (detta anche pigrizia) l’ho tirata per le lunghe. Sono felice però di aver visto che molti l’hanno apprezzata nonostante le brutte notizie, come la fine del povero Penguin ;______; per la quale mi sto ancora odiando, e le novità in quest’ultimo.
Oggi abbiamo quattro protagonisti. Il primo è Killer che, povera anima, era sparito per un po’, ma eccolo che ritorna con i suoi pensieri e il sollievo di non aver perso pure Kidd. Cioè, che sfiga sarebbe stata D: ad ogni modo anche lui aspetta il risveglio del rosso, ma qualcosa sembra andare diversamente, dato che all’ospedale fa la sua comparsa qualcuno che era finito nel dimenticatoio (?) Buongiorno a te adorabile Shachi, come staaai? ** Se qualcuno si stesse domandando se tra i due verrà fuori una specie di crack-pairing, beh, ammetto che non lo so. Lo vedremo nella prossima puntata. Magari fatemi sapere che ne pensate, così vedo come regolarmi.
E poi c’è Law. Law con papà Doffy e papà Vergo. No, non uccidetemi, dovevo farlo. Ho letto alcune fiction con loro due come genitori adorabili e visto alcune immagini che se riesco a trovare vi propino la prossima volta ed erano dolcissime. E poi, dai, non ve li immaginate tutti coccolosi nei confronti del dolce bebé-Law? ** Awwwwww!
Comunque, ecco che arriva la mazzata: Trafalgar deve tornare a studiare perché ormai sta bene, anche se l’ha tenuto nascosto per allungare la sua permanenza all’ospedale SOLO per una cerca persona che noi conosciamo bene.
E poi c’è anche Marco. Oggi vediamo un po’ la panoramica dei suoi pensieri e del suo complesso e a volte insulso cervello. Si, lui è quello delle pare mentali, ma ci sta perché mi sembra un tipo riflessivo e attento a ciò che fa. Nonostante tutto, alla fine, capisce che deve smetterla di stare la a pensare e a chiedere scusa, così decide di agire. FINALMENTE, DIO GRAZIE. Il resto viene da sé ^^ inoltre Ace ha pensato bene di fargli capire chi comanda perché il ragazzino non è uno che si fa tanto comandare, intendiamoci. Ma non è figo quando ammicca? LOL ;D
La parte con Kidd l’ho fatta corta di proposito. Non mi andava di girarci troppo attorno e Trafalgar, poi, non era dell’umore per chiacchierare come si è visto. Cosa dite? Un brutto colpo per Kidd, vero? Chissà cosa salterà fuori nel prossimo e ultimo capitolo ;D
Vi lascio due immagini giusto per farvi contenti ^^
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Ma caro Shachi ** e Vergo con le bretelle l’ho amato ^^
Siamo alla fine anche oggi, gente, colgo l’occasione per ringraziare tutti e, come ho già detto, questo periodo è un casino, ma spero di riuscire a rimettermi in pari con tutto, recensioni comprese, molto presto. Sappiate comunque che leggo tutto e che non smetterò ma di amarvi perché siete fantastici, davvero. E non vi merito, ma grazie di cuore.
 
Informazioni:
-Capitolo 8 di Portuguese D. Ace in produzione. Tempo qualche giorno e arriverà;
-One-shot What the Hell pubblicata, per chi volesse farci un salto.
 
Un abbraccio infinito a tutti.
See ya,
Ace.
  
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