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Autore: Francine    05/06/2014    2 recensioni
«Una sorta di super soldato?», chiese un giovane, dai capelli biondi e dall'accento sguaiato, con una cravatta da vaccaio al collo. «Come nei fumetti?»
«Esatto, mister Griffith», intervenne Volonskij, «solo che, questa volta, potreste ottenere dei dati concreti, invece che pagine disegnate per bambini delle elementari.»

Prima Pubblicazione: Settembre 2004
Genere: Avventura, Drammatico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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13.

 
Il tam tam di Natsumi si rivelò una provvidenziale manna dal cielo: nel giro di quaranta minuti i telefoni della Glitter Records furono messi a dura prova dalle fan dei Bloody Roses, alla disperata ricerca di conferme sull’esibizione del gruppo durante la serata di beneficienza indetta dalla Fondazione Grado.
E adesso?, si chiedeva l’Uomo Grasso asciugandosi il sudore. Davanti a sé aveva il nucleo dei Bloody Roses: Shiro era sul punto di schizzare via come una molla, tenuto solo a freno da una mano di Susumu, saldamente ancorata sul suo ginocchio. Shun era stato accompagnato da Kanetsuki ad effettuare delle visite mediche presso una riservatissima clinica privata, ma questo fatto, e la frequenza stessa con cui quelle visite si andavano ripetendo, non sembrava sfiorare le menti degli altri due ragazzi.
«Alla fine è riuscita a mettercelo in quel posto!»
Shiro continuava a ringhiare quelle parole come un cane idrofobo, fissando il pavimento ai suoi piedi.
«Possiamo volgere questa cosa a nostro vantaggio?», chiese Susumu cercando di usare il cervello. «Vorrei far assaggiare a quei due stronzi la loro stessa medicina…»
L’Uomo Grasso gettò l’ennesimo fazzolettino di carta sulla scrivania di rovere e si accese un sigaro: aspirò distrattamente una boccata di fumo e trattenne i pensieri.
«Abbiamo diramato un comunicato stampa per smentire sia la notizia dell’incisione di un’altra cover, sia una vostra partecipazione a quella serata», disse l’uomo, schietto. «Non so cos’altro fare…»
Shiro saltò su come morso da una tarantola. «Quella troia! Alla fine la principessina ha ottenuto quello che voleva! Susumu, dimmi che possiamo fare qualcosa per fotterla! Dimmelo, ti prego!», e aveva proseguito inanellando una lunga giaculatoria sui poco casti costumi dell’erede della famiglia Kido. 
Susumu, sapendo che fermarlo adesso era come pretendere di arginare una diga che trabocca, lo lasciò sfogare: Shiro detestava le imposizioni, era sempre stato così sin da quando andavano al liceo. Aveva avuto la stessa, identica reazione anche quando il preside aveva negato loro il permesso di fondare un club musicale.
«Vogliamo scherzare? Io dovrei darvi il permesso di strimpellare nei locali della scuola e pagare anche gli strumenti?»
Ricordava ancora non solo le parole, ma anche il tono astioso con cui quel vecchio ammuffito le aveva pronunciate; e ricordava ancora la fatica fatta per trattenere Shiro dal tempestarlo di pugni, evitandogli una denuncia a soli sedici anni.
«Io la distruggo...», ruggì basso il più alto dei due, gli occhi quasi fuori dalle orbite.
«Adesso basta!», tuonò Susumu senza scomporsi. «Berciare come oche isteriche non ci porterà da nessuna parte!»
«E dovrei stare qui a vedere quella ragazzina giocare con me come fossi un pupazzo?!», ribatté Shiro inviperito, dando un pugno sulla scrivania di rovere.
«No. Non sto dicendo questo…», puntualizzò Susumu. Non se la sentiva di biasimarlo. Fosse stato per lui avrebbe recapitato un pacco bomba a casa Kido, tanto per far capire loro chi era a comandare sulla musica dei Bloody Roses. Ma non si può. Se nuoti in mezzo ai pescecani, devi agire come un pescecane. Per non essere azzannato.
«E allora?», chiese l’altro, sempre più esasperato.
L’Uomo Grasso si diresse verso la grande finestra e rimase a guardare il panorama con le mani dietro la schiena.
«Forse un modo per portare acqua al nostro mulino esiste…», disse, dopo averci pensato un po’ su.
«Sarebbe?», chiese Shiro sedendosi meccanicamente: doveva essere il più concentrato possibile e non voleva perdersi una sola parola.
«Prima ci hanno chiesto di cantare una canzone, e al nostro rifiuto hanno diffuso una falsa notizia. Tutto questo non fa che portarci pubblicità. I telefoni sono quasi impazziti, tra fan e giornalisti che chiedono di parlare con voi.»
«Ma le nostre fan si aspettano la cover. Se non gliela daremo…»
«Ma noi gliela daremo», disse l’Uomo Grasso. «Ascoltatemi bene. Faremo quel pezzo. E lo faremo uscire quel pezzo prima dell’evento.»
«Si spieghi meglio, per favore…»
«Allora…», fece l’Uomo Grasso fregandosi le mani dalla contentezza. «Vogliono Reality? Benissimo. Pubblicheremo la vostra versione prima di quella serata, senza legarla all’evento di beneficienza dei Kido.»
«Ma così, i Kido potranno usarla lo stesso!», protesto Shiro.
«Certo. Ma a quel punto dovrebbero pagarci i diritti per lo sfruttamento della canzone. E potete stare certi che saranno molto, molto più alti di quelli che pensa quel cicisbeo di Jabu Kido.»
«A quel punto…»
«… sarebbero loro ad appoggiarsi a noi. E non viceversa…»
«Esatto, ragazzi miei… Allora, ci state a volerlo mettere in quel posto al signor Jabu Kido?»
«Però, dobbiamo far attenzione che non trapeli nulla del nostro progetto, né con la stampa, né tantomeno con i Kido…», aggiunse Susumu incrociando le braccia.
«Sarebbe?», chiese Shiro, un sopracciglio alzato.
«Sarebbe che non voglio semplicemente evitare di stare agli ordini di Saori Kido. Io voglio sputtanarli davanti a tutti! Incideremo il pezzo e ci esibiremo, in più!», spiegò l’altro, con un sorriso sadico.
«Così da far passare ad altri stronzi la fantasia di giocarci un simile tiro…», concluse l’Uomo Grasso che aveva capito dove andasse a parare il ragionamento del suo pupillo.
«Sì, faremo quella cover del cazzo, ci esibiremo, usciremo con un’edizione a tiratura limitata dell’album e li fotteremo senza colpo ferire!», concluse Shiro.  Raggiante.
L’Uomo Grasso, con indosso un completo gessato grigio fumo, sorrise gongolando dell’astuzia della gallinella dalle uova d’oro che aveva davanti a sé. «Al lavoro ragazzi! Abbiamo un coglione da silurare!»


Il neon illuminava con la sua luce fioca i laboratori deserti ed il corridoio di un bianco asettico. Il solo rumore, oltre a quello dei macchinari e delle attrezzature di monitoraggio, erano i passi dell’uomo che si aggirava per il terzo piano come fosse un fantasma. Diede uno sguardo alle cavie attraverso una fessura della porta d’acciaio verde: Tony e Teena, i due scimpanzé, dormivano come ghiri, mentre Oswald, l’orangutan arrivato un mese prima dalla foresta amazzonica si guardava la zampa destra muovendo lentamente le dita.
Il Pharexen sta facendo effetto, pensò annotando le risposte dell’organismo della bestia su di un taccuino che ricacciò all’interno di una tasca. Richiuse la fessura e riprese il giro serale delle visite, le mani nelle tasche e il sigaro in bocca. Trovò tutti e sedici i cani beagle addormentati della grossa, l’ara giacinto Pedrito che andava avanti e indietro sul trespolo usando il becco per spostarsi al posto delle zampe atrofizzate, mentre Susy, la pecora, si stava strappando con i denti gli ultimi residui di quello che una volta era stato il suo candido vello. 
E ora andiamo a trovare i miei polli, si disse chiamando l’ascensore e scendendo nelle viscere dell’edificio: alla fine della corsa, le porte d’acciaio si affacciarono su un corridoio ancora più buio e ancora più spettrale. Proseguì il suo giro ignorando quattro, cinque porte zincate, tutte ugualmente verdi, prima di fermarsi davanti ad una con una sorta di cartella clinica attaccata sopra.
E così il signorino si rifiuta ancora di mangiare, pensò scorrendo le note dei suoi colleghi. Poco male, la soluzione fisiologica lo terrà in piedi! Tanto, manca poco, per quanto ancora riuscirà a resistere?, decise scribacchiando la terapia sulla cartella. Aprì lo sportelletto sulla porta e vide il paziente disteso sulla sua brandina, con spesse cinghie d’acciaio che l’ancoravano al materasso, ed una flebo che correva dall’ampolla al candido braccio del ragazzo. Aveva gli occhi spalancati, poteva vedere il blu intenso delle sue iridi risplendere al buio, mentre il cerchio che gli ornava la fronte riluceva di bagliori argentei. 
Fai il duro, eh, mammoletta? Bene, vedremo chi dei due si stancherà per primo di questo gioco, se io o te…
Richiuse la fessura con uno scatto e tornò verso l’ascensore. Appena le porte i richiusero alle sue spalle, sentì di colpo tutta la stanchezza della giornata cadergli addosso. Gli esperimenti della mattina. Irina che lo chiamava e gli diceva come Saori Kido non si fosse arresa e avesse tentato un colpo di coda.
«Yametomo è fuori di sé dalla rabbia e non sa che fare…»
Lui che si chiudeva nello studio all’attico ed elaborava una strategia per schiacciare quella formica che gli stava impedendo di arrivare ad un solo passo dalla meta che aveva rincorso da più di vent’anni.
«Il supersoldato…», mormorò tra sé e sé alzando la testa verso il neon.
No, Saori Kido… No! Non ho alcuna intenzione di permetterti di mettermi i bastoni tra le ruote proprio adesso! Non dopo tutto quello che ho dovuto sopportare e dopo tutti i culi che ho dovuto leccare per arrivare dove sono adesso!, pensò mentre le porte automatiche si aprirono all’interno del suo studio privato all’ultimo piano: uno studio grigio, anonimo, con tutte le ultime tecnologie disponibili sul mercato e quelle che dovevano ancora uscire, un’ampia scrivania subissata di carte impilate distrattamente l'una sull'altra e una vetrata che correva lungo tutta la parete est regalandogli una vista mozzafiato sulla città sottostante. 
Il sole era ormai sparito da un pezzo dietro la curva dell’orizzonte e le strade, piccole arterie luminose, erano attraversate da poche automobili che sfrecciavano silenziose in direzione di Ropponji.

Chi su, su, su precipitosamente sale, giù, giù, giù precipitevolissimevolmente scende, 

Diede un pugno al vetro antiproiettile. «Stronzate!», gli sfuggì senza che se ne accorgesse: non sapeva perché gli fosse venuta in mente proprio quella filastrocca, ma non era certo tipo da credere ai presagi, figuriamoci a quelli grami. La sua fortuna era dietro l’angolo, doveva solo svoltarlo e acciuffarla.
Cadere adesso, dopo tutta una vita passata a studiare la fisiologia umana e il modo di incanalare l’energia latente degli esseri umani, era impossibile. Ed ingiusto. 
Profondamente ingiusto.
Allungò all’indietro il collo, portandosi una mano a massaggiarsi le vertebre. Aprì un mobile accanto a sé e ne estrasse una bottiglia ed un bicchiere panciuto: si versò del liquido ambrato, lo scaldò tra le mani e se lo portò alle labbra.
Saori Kido… Sarai tu, a cadere dalla tua torre d’avorio!, pensò leccandosi le labbra dopo aver bevuto una corposa sorsata. Rimase a guardare il panorama e la macchia nera in fondo dove sapeva essere il mare. E tornò con il pensiero al suo passato. Gli studi nel collegio di Mosca, lontano dalla sua Ucraina. La borsa di studio vinta portandosi a letto la Compagna Segretaria dell’apposito Ufficio del Soviet per l’assegnazione delle Borse di Studio all’estero a studenti meritevoli. Le ricerche gomito a gomito con il professor Asamori. La richiesta folle di Mitsumasa Kido. La scoperta dell’esistenza dei Santi e della dea Athena, e il successivo modo per approfittare di queste conoscenze. La scoperta del Fattore C, che avrebbe garantito sia a lui che ad Asamori la vincita del Nobel per la Chimica. La feroce litigata fatta con il professore poco prima del suo rientro immediato e definitivo nella Santa Russia.

«Ci pensa, professore? Potremmo creare delle armi rivoluzionarie! Manderemmo in malora fucili e armi convenzionali, contro le nostre armature servirebbero a ben poco!»
«No!»
«Ma professore! La prego! Ragioni! Le guerre tornerebbero ad essere una questione tra uomo e uomo!»
«Ho detto di no! Queste armature serviranno a scongiurare una guerra, non a vincere con maggiore facilità!»


Deluso per la poca sagacità di Asamori, era partito in gran segreto, portandosi dietro i primitivi progetti delle armature d’acciaio, rallentando così di molto il lavoro di Asamori. 
Il ritorno in Russia. Gli studi effettuati in Siberia, sui prigionieri dei gulag. L’accordo con l’Organizzazione, tramite Irina, e la fuga precipitosa poco prima del Golpe d’Agosto. La bellezza bionda che si stava avvicinando alle sue spalle con due bicchieri e una bottiglia scura nelle mani.
«Lavori fino a tardi?», le chiese senza girarsi, fissando la sua figura attraverso il riflesso sul vetro: il camice ricadeva distratto sul vestito di velluto blu notte che delineava la sua figura ed esaltava il suo décolleté morbido e i capelli, di solito repressi in un austero chignon, vagavano in morbide onde sulle sue spalle. 
«Non sono la sola a fermarmi fino a quest’ora in ufficio, mi pare…», rispose posando bicchieri e bottiglia su un angolo sgombro della scrivania. Tirò fuori dalla tasca del camice un cavatappi e cercò il tagliacarte per rompere la chiusura esterna della bottiglia.
«Che cos’è?», chiese lui togliendogliela di mano e armeggiando con il cavatappi.
«Nero d’Avola. Sembra sia un vino molto rinomato…» rispose porgendogli i bicchieri a calice.
«Festeggiamo qualcosa?»
Lei fece spallucce. «Nulla di particolare; l’ho visto in una vetrina e mi sono chiesta che sapore potesse avere.»
Lui lesse velocemente l’etichetta sulla bottiglia scura.
«1973…ottima annata!»


«Posso parlarti un attimo?»
Miho abbassò lo sguardo ai suoi piedi.
«Riguarda lei, vero?»
Seiya annuì.
«Senti, se non vuoi lo capisco perfettamente, anzi sono un idiota insensibile a chiederti di…»
«Non è questo il punto!»
Miho lo superò e si diresse verso il cancello dell’orfanotrofio Star Child. Lui la raggiunse, restando indietro di qualche passo.
Mi fa una rabbia. Rabbia, capisci? Io sono stata letteralmente cancellata dalla tua esistenza, da lei… Sinceramente, speravo fosse una cosa seria. Tossì per dissimulare il groppo che le si era formato in gola. 
«Aspettami qui, prendo una giacca e torno.»
Sparì dietro l’angolo, la gonna gonfiata dal vento. Ormai la sera faceva freddo e anche lui fu costretto ad accostare al collo il bavero della giacca. Miho tornò dopo una decina di minuti: adesso aveva un paio di jeans scuri, una giacca rossa con ampie spalle imbottite e un basco in tartan ben calato sui capelli sciolti.
«Tutto ok?», le chiese sentendosi un po’ in colpa a strapparla così alla sua vita.
«Sì, padre Ranmaru ha detto che se vuoi parlargli sarà ben disposto ad ascoltare… Da uomo a uomo», aggiunse Miho sistemandosi i polsini della giacca. «Dove mi porti? Spero non a casa tua.»
«No, non ho certe intenzioni. Che ne diresti della spiaggia?»
«Mmm, meglio di no, oggi c’è vento e a quest’ora farà freddo. Il molo sotto casa tua andrà benissimo», decise prendendolo sotto braccio e uscendo nella sera d’ottobre.
L’aria frizzante del porto si sentiva già dalla strada: lo iodio e la salsedine investirono in pieno Miho, costringendola ad infilare le mani nelle tasche della giacca. Amava il mare, anche d’inverno, ma da dietro i vetri appannati di un’automobile, con la musica dolce a tutto volume e l’odore speziato di muschio della sua pelle. Si voltò verso Seiya e scacciò risolutamente l’immagine di Hitoshi dalla sua mente. Domani, domani avrebbe pensato al suo Toshi, ma questa sera, per l’ultima volta, Seiya doveva essere al primo posto. Gli aveva promesso di ascoltarlo e di lasciarlo sfogare e doveva dedicargli tutta la sua attenzione.
«Spero per te che sia davvero importante», gli disse non appena guadagnarono una panchina. Lui abbassò la testa e si tenne le mani sprofondate sotto le ginocchia: Miho gli lasciò tutto il tempo di cui aveva bisogno per cercare di far chiarezza nel caos rutilante che era la sua testa. E per evitare di farle male, il minor male possibile.
«Shaina mi ha lasciato.»
Lo disse così, come se si stesse liberando di un macigno sullo stomaco.
«Avanti, raccontami tutto…» sospirò accoccolandosi contro lo schienale di pietra smaltata della panchina.
«Vuoi salire da me? È una storia lunga, non so quanto potrei metterci. Lì farà più caldo», le propose. «Senza nessun doppio fine.»
Lei gli sorrise. «Lo so. Ma no. Non potrei. Per ripetto ad Hitoshi.»
Seiya annuì. E vuotò il sacco, come un fiume in piena. Il loro rapporto, la loro vita, gli ultimi screzi, il licenziamento di lei, la rottura, la scoperta di lei tra le braccia di un altro.
«Quello che non capisco», disse con i pugni chiusi e la voce macchiata di rabbia, «è dove io abbia sbagliato. Dove. Se solo avessi saputo, se solo me ne fossi accorto! Però, anche lei ha le sue colpe a non avermi detto nulla…»
«Cosa sarebbe cambiato? Un’azione fatta è fatta, e se la gente deve dirti necessariamente dove, come e quando sbagli, hai bisogno della balia e non di una donna accanto. Capisci?»
«Avanti, Miho, lo sai anche tu che io sono fatto così, che sono un impetuoso, un sanguigno, che…»
«Questi li consideri dei pregi o dei difetti?», gli chiese stiracchiando le gambe, il naso all’insù a guardare le stelle.
«Non lo so… Se per lei sono pregi…»
«Santa pazienza!», sbottò lei saltando in piedi. «Ma ti senti? Senti le fesserie che dici? Eh? Cosa sei? Un uomo o un pupazzo?»
«Ma, Miho…»
«Ma Miho un accidente! Ma che cosa sei diventato, eh? Non hai un briciolo d’amor proprio? Non sei in grado di decidere se un tuo comportamento sia un pregio o un difetto! Ma ti senti? Senza di lei ti manca l’aria, adesso?»
«Sì…», soffiò fuori. Arreso.
«È più grave di quel che pensassi…», disse lei lasciandosi cadere sulla panchina. «Credi ti abbia … beh, sì, che l’abbia fatto per quell’altro?»
«Avanti, su!», rispose Seiya sconsolato. «Mi lascia e la sera stessa la trovo abbracciata a lui in riva al mare a guardare le stelle… Mi hai preso per un idiota, forse? Sono stupido, lo so, ma l’evidenza…» Troncò la frase per non farle sentire la voce tremolante.
Miho rimase pensierosa. «Lui che tipo è?»
«Come?»
«Sì, se analizzi il tuo rivale, capirai che cos’è che può averla attratta…»
«Beh, è alto, ha gli occhi blu, i capelli lunghi…»
«Non intendevo in senso fisico!», disse Miho cercando di ricordare se avesse mai visto un ragazzo corrispondente alla descrizione fattale da Seiya. «Intendevo in senso caratteriale.»
«Tz… È un esaltato, uno convinto di essere una specie di dio in terra solo perché è un Santo d'Oro!»
«E tu, allora? Non lo sei anche tu?»
«No, io sono Pegaso. Non ho mai accettato l’Armatura del Sagittario, essenzialmente perché lo spirito del precedente custode aleggia ancora su quella corazza, e per me sarebbe un compito troppo gravoso.»
«Quindi, pensi che ti abbia lasciato per un tuo superiore? Mi sembra poco plausibile, non è che per caso questo tizio ha un carattere più deciso e maturo del tuo?»
Seiya ci pensò su un poco e poi ammise: «Credo di sì…»
«Bene, allora c’è una sola cosa da fare», disse lei alzandosi e facendo per tornare indietro. «Devi parlare con Shaina.»
«Cosa? Ma mi hai ascoltato?»
«Sì, l’ho fatto. Hai parlato con cani e porci, ma non con Shaina. Tu devi mettere Shaina con le spalle al muro e parlarle. Per davvero. Anche solo per avere la conferma sui tuoi sospetti, che credo siano in parte errati.»
«Tu dici?»
«Io ho un punto d’osservazione esterno, privilegiato rispetto a te, che invece sei invischiato fino al collo», sussurrò Miho alzando la testa al cielo per poi riportarla sul ragazzo.«Quando la conobbi, Shaina mi fulminò con lo sguardo, come a voler dire lui è mio. Una simile determinazione non può sparire così, dall’oggi al domani. Lei vuole un uomo? Diventa uomo, allora, ma non permetterle di cambiarti, chiaro?»
Seiya annuì sollevato. «Grazie, Miho.»
«E adesso ti dispiacerebbe accompagnarmi a casa che qui si gela?»
Le porse il braccio con fare galante e si diressero all’orfanotrofio, il ticchettio dei tacchi di lei sull’asfalto.
Ma tu guarda se adesso mi tocca difendere la mia ex rivale, si disse camminando nella notte al braccio di Seiya.


L’automobile si fermò davanti alla casetta a due piani che era già buio. Tatsumi aprì la portiera a Saori che scese e fissò la costruzione prima di procedere. 
Ikki, ogni volta che tu mi fai una sorpresa ho paura, pensò avvicinandosi al muro di cinta in cotto, sormontato da piccole tegole verdi. La casa era completamente bianca, eccettuate le tegole e gli infissi verdi e la porta d’ingresso, sormontata da una piccola vetrata ad arco, sempre in verde. Un camminatoio di pietre grigie irregolari, disposte in maniera finto casuale, conduceva alla porta attraversando il prato all’inglese.
Casa graziosa, analizzò mentre Hyoga e June si avvicinavano a lei. «Andiamo», quasi sussurrò suonando il campanello. 
Un rumore metallico fece scattare all’indietro il piccolo cancello mentre la porta d’ingresso si apriva. Avanti, Ikki, sono pronta alla tua sorpresa, si disse pensando alla telefonata ricevuta solo mezz’ora prima.
«Sia la benvenuta in questa umile casa, dea Athena…»
Saori fissò la ragazza vestita dell’Armatura d’Oro del Capricorno che, elmo tra le mani e capo chino, li stava ricevendo nel genkan della casa, mentre un altro Saint, della casta d’argento, era inginocchiato dietro di lei.
Eccola, la sorpresa…
Saori entrò, seguita a ruota da Hyoga e June che guardarono i loro ospiti con occhi spalancati.
«Alzati, adesso, Capricorno», le disse Athena con dolcezza avvicinandosi a lei. «E alzati anche tu, Perseo.»
«Un Santo d’Argento e uno d’Oro? Ma che significa?», chiese Hyoga stupefatto chiudendo la porta.
«Accomodatevi in salotto, abbiamo molte cose di cui parlare», rispose  il Capricorno porgendo loro delle pantofole e guidandoli attraverso uno scarno corridoio in un salotto piuttosto spartano. Nella stanza c'erano una coppia di poltrone di pelle bianca e un divano a tre posti, anch’esso in pelle bianca, un tavolino con il piano di cristallo e un impianto stereo che torreggiava su di un mobile d’acero, accanto al grande televisore nero. Il ragazzo in armatura era teso come una corda di violino, e attese all'impiedi accanto al divano su cui si accomodarono Saori e June; Hyoga occupò una poltrona e la ragazza, più compassata, sedette in quella accanto, l’elmo tra le mani, senza dar alcun segno d’impazienza.
Chi stava per sbottare era June. 
La ragazza sentì distrattamente i nomi e le cariche dei loro ospiti, ripetendosi le parole dette da Saori quasi un’ora prima, dopo aver messo giù la cornetta d’onice dello studio.
«Ragazzi, era Ikki», aveva detto mentre si voltava e li guardava, felice e sbigottita al tempo stesso: tutti si erano fermati, pendendo dalle sue labbra confetto, e lei stava per soffocare dalla tensione. «È a Nerima, ci sta aspettando e ha detto che ha una sorpresa per noi…»
Era scattata avanti, bruciando sul tempo gli altri. «Andiamo o no?», aveva chiesto includendosi nel gruppetto di scorta che avrebbe accompagnato Saori. 
La bagarre per la divisione dei ruoli era durata meno di venti minuti: miracolosamente, Milo e Jabu avevano accettato solo alla terza replica di restarsene a guardare buoni buoni a casa, e loro tre erano partiti alla volta del desaparecido numero due. Aveva maledetto ogni semaforo rosso, ogni ritardo, ogni prudenza dell’autista che manteneva un’andatura nei limiti del codice stradale. E adesso che si trovava lì, in quella casa spudoratamente ammobiliata, dove lo tenevano nascosto Ikki? 
Quando tornò al presente udì solo la voce della ragazza in armatura dire: «Questo è tutto…».
Si era persa la spiegazione da romanzetto d’appendice; poco male, avrebbe chiesto a Hyoga uno dei suoi riassunti illuminanti.
«Ikki dov’è?» Lo domandò direttamente a quella strana ragazza sbucata da chissà dove.
«Adesso sta riposando, come ho detto poco fa», rispose facendole notare la sua distrazione. «Fiona si sta occupando di lui, ci raggiungerà subito.»
«È così grave da aver bisogno di un’infermiera?», chiese Hyoga mentre June sentiva il sangue ribollente di due secondi prima cristallizzare in ghiaccio nelle sue vene. 
«No, no, assolutamente», si affrettò a chiarire Perseo, «è che dovrebbe riposare e restare a letto, ma non ne vuole assolutamente sapere…»
«Tipico di lui», commentò Hyoga quando un tonfo sul soffitto costrinse tutti ad alzare la testa.
«Forse Fiona non riesce a trattenerlo», fece Andrew perplesso.
June scattò in piedi e raggiunse senza tante cerimonie l’ingresso in pochi passi e salì le scale che portavano al piano superiore, ignorando la voce di Andrew che le diceva: «Wait, please!», invano. 
Il primo piano era formato da un corridoio, gemello di quello che aveva appena lasciato su cui si affacciavano tre porte. Scelse quella della stanza che avrebbe dovuto trovarsi sopra al salotto e l’aprì.



  Note: oggi niente note; aggiornamento doppio, questa settimana. Tutti Qui si prende un'altra pausa, ma siccome domani non sarò a casa, eccovi un altro capitolo, fresco fresco. E poi, è oggi che ce n'è bisogno. Sen, un abbraccio. E grazie a chi passa da queste parti.
   
 
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