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Autore: Nitrogen    07/06/2014    4 recensioni
Tornai a guardare la porta di fronte a me poggiando la testa alla mano e chiusi gli occhi: avevo la nausea e le vertigini, in aggiunta al bel quadretto c’era un mal di testa che si placava solo se smettevo di pensare. Non era facile sopportare tutti quei fastidi che avrebbero messo qualcun altro al tappeto e contemporaneamente risultare acida come se nulla mi causasse troppi problemi.
«Non sembra affatto spaventata.»
«Non ho motivo per esserlo.»
«Devo ricordarle che attualmente è detenuta in un ospedale psichiatrico?»

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Avvertenze: L'autrice di questa originale non è sana di mente, ragion per cui ha scritto una storia non adatta a stomaci deboli; violenza gratuita, linguaggio scurrile e sangue la fanno da padrone nella maggior parte dei capitoli. Siete stati avvisati.
Genere: Angst, Drammatico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo VII
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«Bugiarda.»
La sua replica mi sorprese, ma non lo diedi a vedere. Non era affatto turbato da quel che gli avevo detto, anzi, sembrava non importargli minimamente.
«Non conosci me e la mia storia, potrei essere davvero un’assassina. Dovresti credermi.»
«Non ho alcuna intenzione di farlo.»
«Il motivo?»
«Ho visto così tanti pazzi, criminali e quant’altro in questo posto che non ho bisogno di sapere il passato di ogni individuo per dire chi lo sia davvero o no.»
«Potresti sempre sbagliarti con me.»
Jonathan restò di nuovo in silenzio. Guardava il muro di fronte con gli occhi appena illuminati dalla luce proveniente dallo spioncino, la mascella contratta e l’espressione di chi non sapeva se credere a quel che sentivano le sue orecchie o a se stesso.
«Non prenderti gioco di me, Nebraska.», replicò poi, «Tu non hai ucciso nessuno.»
«Potrei averlo fatto.»
«Allora sentiamo: chi hai ucciso?»
«Degli amici di famiglia.»
«Come?»
«Con una pistola.»
«E perché avresti dovuto? Loro non ti hanno mai fatto niente, anzi, sono sempre stati molto gentili con te. Le vostre famiglie festeggiavano il Natale e il Capodanno assieme, avevi un buon rapporto con i figli dei Collins e spesso la domenica trascorrevi l’intero pomeriggio con loro. Ti piaceva stare in quella casa con Christopher e Lidia, non li avresti mai uccisi.»
Restai paralizzata osservando il suo profilo: come poteva sapere tutte quelle informazioni? Erano cose vere che non avevo detto a nessuno, e lui non aveva di certo potuto conoscermi prima di essere chiuso in manicomio; un elemento simile non si dimentica facilmente.
«Spiegami come sai i loro nomi e tutto il resto.», dissi cercando di non mostrarmi agitata.
Lui fece spallucce, con l’indifferenza tipica di chi stava per dire una cosa di poco conto. «Passo molto tempo in infermeria a causa delle ferite che riporto in seguito alle torture di Hijikata e qualcun altro: tra scartoffie varie lasciate incustodite e qualche chiacchiera con Joshua penso di aver sentito, saputo e capito più di quanto dovessi.»
Ed io che per voler sapere il tuo nome dal dottore ho quasi dovuto supplicarlo.
«E cos’altro sapresti sul mio conto?»
«Abbastanza da sapere a grandi linee perché sei rinchiusa qui dentro senza che tu me l’abbia detto. Vuoi io sia più preciso? Nessun problema: conosco il rapporto che hai con i tuoi genitori e quelle poche persone che frequenti, quel che si dice sul tuo conto sia tra i pazienti che tra gli inservienti, e come se non bastasse so perfettamente come e cosa pensi.» Si avvicinò al mio orecchio, facendomi provare un senso di déjà vu che mi irritò non poco. «Sono un osservatore eccellente, Nebraska, e ho capito che non riesci a mandar via i demoni che lentamente ti stanno divorando la testa.»
«Di che diavolo stai parlando?»
«Non di un diavolo qualunque, mia cara, ma del buon Lucifero in persona.»
L’allusione era così chiara per me che mi mancò un battito. Jonathan aveva deciso di parlare di un argomento che, solo a pensarci, mi mandava completamente fuori di testa e respirare a fatica. Dovevo cambiare argomento prima che ogni ricordo a Lui collegato riaffiorasse per farmi del male, ma il ragazzo seduto al mio fianco non me ne diede occasione.
«Joshua Mayer mi ha rivelato che, a detta tua, l’assassino sarebbe qualcun altro. E questo altro deve darti davvero molto fastidio mentre torna nei momenti peggiori per darti suggerimenti o semplicemente per fare quattro chiacchiere: magari in piena notte ti assale proprio quando non hai nessuno con cui piangere del tuo triste destino, quando sei sola e non puoi mandarlo via in alcun modo. Mi sbaglio?»
«Tu come…»
«E deve anche starti molto a cuore perché non hai ancora fatto il suo nome a nessuno; sembra quasi tu voglia proteggerlo, e questo direi che è molto insolito per una persona che probabilmente sta scontando l’ergastolo bianco del secolo.»
«Smettila, mi stai infastidendo.»
«Non so che tipo di legame ci sia tra voi. Eravate migliori amici? Fidanzati? Qualcos’altro che adesso mi sfugge? Perché davvero, non ho mai visto nessuno reagire in un modo tanto… assurdo. Stai proteggendo un assassino.»
«Sono sua complice.»
«Tu non hai premuto il grilletto.»
«E dunque? La pistola gliel’ho procurata io.», dissi senza nemmeno pensarci. Il che era vero, perché l’arma era di mio padre e io gliela diedi senza fare domande; non potevo dirgli di no.
«È stata una cosa molto stupida, ma non per questo meriti di vivere qui dentro per il resto dei tuoi giorni. E sei piccola, te ne mancano ancora parecchi, una sessantina come minimo.»
«Cosa puoi saperne tu di cosa merito o meno?! Tu non immagini come io mi senta, non sai quello che ho vissuto!»
Mi accarezzò il viso sorridendo, con le labbra ancora gonfie per quello che era accaduto: «Oh, come ti sbagli, piccolina. Io so cosa vuol dire sentire le grida disperate di chi ami, so cosa vuol dire vedere in faccia la morte e non sapere come scappare, so come ci si sente quando tenti invano di salvarli e le tue mani si macchiano di quel viscido liquido rosso che tanto hai temuto e che, per quanto tu possa lavare via con l’acqua, torni a vedere sotto forma di allucinazione.»
Mi allontanai di scatto. Faceva male ricordare quel momento ed io, pur essendo passati diversi giorni, non riuscivo ancora del tutto a capacitarmi della loro morte, più di tutte quella di Christopher. Non mi era stato concesso nemmeno sapere quando si sarebbero tenuti i funerali, non avevo potuto piangere sulla loro tomba o portar loro un fiore. I Collins erano stati come una seconda famiglia per me, forse li avevo voluti bene più di quanto ne abbia mai voluto ai miei veri genitori. E Christopher era un perno essenziale della mia vita, molto più che un semplice fratello: era l’unico che mi avesse fatto sentire amata davvero, voluta e desiderata. L’unico oltre il suo assassino.
«Io so cosa vuol dire sentirsi responsabili per la morte di qualcuno, ma non è colpa tua, Nebraska: l’unica cosa per cui potresti essere condannata è solo il tuo essere stata troppo ingenua.»
«Ti prego, sta’ zitto.»
Non volevo sentirlo, non volevo continuasse a parlare.
«No, ascoltami. Smettila di darti colpe che non hai!»
«Lasciami in pace.»
La sua insistenza mi ricordava troppo quella del mostro che mi aveva rinchiuso qui dentro al suo posto.
«Non ti lascerò in pace fino a quando non–»
«Jonathan, basta!»
Lui tacque, e il silenzio tornò quasi a farla da sovrano nella cella piccola e poco piacevole in cui eravamo. Il sangue era ancora attaccato ai nostri vestiti e sulla nostra pelle, sparso anche sul pavimento e a tratti anche sul letto a cui Jonathan si era aggrappato; era buio, faceva freddo, ero affamata, mi sentivo sporca e incapace di perdonarmi per aver detto alla persona sbagliata dove si trovasse la pistola di mio padre. Avrei voluto piangere, dare sfogo a quel che provavo, ma non ci riuscivo: ero come bloccata da qualcosa o come se avessi finito tutte le lacrime a mia disposizione e mi toccasse soffrire in silenzio. Come se tutto questo non bastasse, la spalla faceva male, ancora, e non riuscivo a farle smettere di pulsare in nessun modo.
Jonathan ripeteva che stare svegli era una tortura aggiuntiva a quello che avevamo appena passato, e dormirci ci avrebbe permesso di sopportare meglio il dolore delle ferite e il tempo che sembrava non voler scorrere. Eppure nemmeno lui riusciva perfettamente a prendere sonno: al minimo rumore alzava la testa, e se ne era il caso apriva gli occhi; era come se restasse in dormiveglia perenne, con la mente il più rilassata possibile ma l’attenzione al massimo anche a distanza di molto tempo.
«Voglio uscire da qui.», biascicai, «Sono stanca di non sapere che ore siano.»
«È più o meno pomeriggio inoltrato.», disse trascinandosi fino al letto. Dalla scarsa imbottitura del cuscino tirò fuori qualcosa che mi lasciò cadere in grembo poco dopo. «Esattamente le sei e mezza.»
Era quel che restava di un orologio da polso vecchio e malridotto, con il vetro danneggiato da graffi significativi e la lancetta dei secondi spezzata verso la metà; il quadrante di un intesto blu acceso spiccava tra i ricchi inserti argento che lo circondavano così come i numeri e le lancette del medesimo colore. Pur non essendo della sua iniziale bellezza, riuscivo comunque a distinguerne la marca che rimandava a un manufatto che, a giudicare dalle complicazioni che aveva, era non solo di ottima qualità ma anche eccessivamente costoso: giorno, mese ed anno a finestrella facevano compagnia ad una piccola sezione creata per le fasi lunari e sul retro vi era un altro quadrante che segnava la mappa celeste e la relativa orbita della luna.
Non era di certo quel tipo di orologio che avrei pensato di vedergli indossare.
«Questo non è un manufatto da quattro soldi.»
«Complimenti, non sapevo ti intendessi di orologi.»
Sorrisi con l’amaro in bocca. Brutto argomento, quello, davvero pessimo. «Mio padre era un fanatico di questi affari e mi ha insegnato qualcosa. Dove l’hai preso?»
«Me lo regalò mia sorella per non ricordo quale occasione. È l’unico oggetto personale che mi è concesso tenere. Sai, con questo pensano io non possa uccidere nessuno…»
Pensai che dovevano reputarlo davvero pericoloso se quella era la sola cosa che gli era concessa avere. Tenni ancora un po’ l’orologio con me, studiandolo e distraendomi per quanto possibile dai dolori alle articolazioni, poi tentai di restituirglielo: lui mi chiuse le dita sull’oggetto, stringendomi la mano per avvolgerlo completamente.
«Tienilo.»
«Ma è un regalo di…»
«È morta, Nebraska, non saprà mai che l’ho dato a te. E non ha senso tenere conto del tempo quando sai che resterai in un manicomio per il resto dei tuoi giorni, ma tu sei ancora legata al tuo passato e non sarò certo io a farti cambiare idea.»
La mia mente fece qualche collegamento di troppo e la domanda che sussurrai ne fu una conseguenza: «Hai ucciso tua sorella, Jonathan?»
«Così dicono.»
Non ebbi il tempo di replicare o chiedergli di più poiché si alzò di scatto interrompendo la nostra conversazione: si era avvicinato di nuovo allo spioncino, ma questa volta sorridendo.
«Quel che hai sentito qui dentro resta qui dentro, intesi? Ah, e hai capito quel che ti ho detto prima?»
«Mi hai detto un sacco di cose, Jonathan.»
«Broox. Non fidarti di lei, per nessuna ragione.»
«Questo non me l’avevi detto. Perché non...»
«Fa’ la brava e fidati. Non posso spiegartelo adesso, sono arrivati i soccorsi.»
E interrompendomi sporse un braccio fuori dallo spioncino e qualcuno si avvicinò alla cella, a passo non troppo svelto. Quel qualcuno girò una chiave nella serratura e la porta si aprì: l’inserviente fermo sulla soglia della cella mostrava un sorriso compiaciuto, evidentemente divertito dalla situazione spiacevole in cui ci trovavamo.
«Non hai una bellissima cera, ragazzo mio.»
«Molto spiritoso. Chi ti ha detto che eravamo qui, Aiden?»
«Voci di corridoio. Ma non sapevo ci fosse anche lei.» E mi indicò con la testa, portandosi poco di più all’interno della cella. «Chi ho l’onore di conoscere?»
Non risposi. Non ero mai stata molto propense a fidarmi degli sconosciuti, meno che mai in un posto del genere; ma Jonathan sembrava così rilassato…
«Si chiama Nebraska Herstal. Sicuramente avrai sentito parlare anche di lei in questi giorni.»
L’inserviente annuì, sorridendo. «Dicono che non la fai passare liscia ad Hijikata.»
«Faccio quel che posso per non morire.», risposi tentando di alzarmi. Barcollavo, non ero di certo nel pieno delle mie forze, ma grazie al sostegno del muro riuscii a stare per lo meno in equilibrio; a giudicare dalle mie condizioni, mi meravigliai anche solo di aver fatto un’azione tanto semplice. «Comunque, piacere di conoscerti, Aiden.»
L’uomo mi osservò con attenzione, scrutando ogni lembo di pelle scoperto che avevo. Non mi piaceva avere i suoi occhi puntati su di me e Jonathan parve capirlo quasi subito.
«Ti prego di non guardarla troppo, Aiden. La infastidisci.»
«Oh, scusami.», disse portando la sua attenzione all'altro nella stanza, «Ad ogni modo, tu dovresti smetterla di prendere a pugni il vetro delle infermiere. Ripararlo di volta in volta costa, sai?»
Jonathan sorrise, come se il rimprovero di Aiden gli facesse quasi piacere. Non che fosse una cosa da escludere completamente e del tutto impossibile, in effetti; era così strano quel ragazzo che non ne sarei rimasta sorpresa.
«Vorrei tornare nella mia stanza, sono già stata troppo tempo in questa cella.»
Aiden tornò a puntare i suoi occhi su di me, come se non potesse fare altrimenti: osservava le gambe instabili, i pantaloni sgualciti, le macchie di sangue sulla felpa, i lividi sparsi in punti più o meno visibili della mia pelle. E mentre mi avvicinavo alla porta mi ripetevo che prima o poi sarei uscita da quell'inferno, anche se le fitte che ormai erano di casa nel mio corpo me ne facevano perdere la speranza.
«Non capisco che ruolo tu abbia in questa faccenda, Nebraska.»
«Che intendi?»
«Perché Hijikata ti fa tutto questo? Per quanto possa essere una persona orrenda, non gli ho mai visto far del male una ragazza o una donna… Fisicamente, intendo.»
«Nebraska non è fuori di testa, Aiden, e questo è un problema.», intervenne Jonathan. «Inoltre, è anche abbastanza intelligente, resiste alle pressioni di questa detenzione forzata e ormai è sotto l'ala protettrice di Joshua Mayer. Vuole probabilmente farle tenere la bocca chiusa su quanto accaduto fuori da questo posto, e "semplici" torture psicologiche non servono con lei. Non mi sorprenderei se un giorno o l'altro la ritrovassi senza lingua o con un orecchio mozzato.»
Rabbrividii immaginando la scena. L'indelicatezza di quel ragazzo nel parlare di sua sorella defunta e adesso di future mutilazioni per la sottoscritta era sconfinata.
«E io dovrei anche lasciarglielo fare?», chiese retorico Aiden, «Dovrei continuare a vedere te e altri pazienti essere maltrattati per chissà quale motivo?»
«Eticamente parlando no, dovresti aiutarci. Ma se posso darti un consiglio, è meglio se resti fuori da questa situazione: Hijikata non te la farebbe passare liscia, e non credo sia una buona idea andare contro di lui. Sappiamo tutti cosa accade a chi dà troppo fastidio, no? E tu hai una famiglia a carico, non puoi permetterti il lusso di perdere il lavoro per due inutili scarti della società come noi.»
Aiden strinse i pugni, a un passo dal non poter più reprimere la sua rabbia. «Come puoi parlare in questo modo di voi?»
«Ah, non lo so. Forse Hijikata è riuscito a farmi dubitare dell’utilità della mia esistenza dopo quattro anni di violenze.»
Bugiardo.
Ascoltavo le parole di Jonathan con l’espressione di chi non credeva a nessuna di esse. Non lo conoscevo abbastanza da essere certa lui stesse mentendo, ma istintivamente sapevo che non era convinto di quel che diceva, o almeno non per quanto riguardava me: non avrebbe mai perso tempo tentando di salvarmi da quell’inferno se non l’avesse reputato essenziale, e su questo dubbi non ne avevo. Ma prima che potessi dire quel che pensavo Aiden mi trascinò via dalla stanza prendendomi per un braccio e camminando a passo svelto per una destinazione a me ignota, con Jonathan che ci seguiva a ruota.
«Dove mi sta portando?!»
«Perdonami, ma sono davvero stanco di tenere a bada le mie buone intenzioni.»
Iniziai a fare supposizioni sulle sue parole per il breve tragitto fino alla nostra meta e nessuna di queste sembrava portare a buon fine; non appena l’inserviente aprì di scatto la porta della stanza, poi, ne ebbi solo conferma.
«Guarda come li hai ridotti! Che senso ha fare tutto questo? Perché devi rendere la loro vita un inferno?»
Hijikata sollevò appena gli occhi dal portatile sul quale stava digitando chissà cosa e li fece scorrere distrattamente sulla figura che aveva appena parlato: lo scrutò con poca attenzione, interessato più che altro a me e Jonathan, probabilmente a fare un resoconto delle nostre condizioni fisiche.
«Buongiorno, dottor Hemmerick. Le rammento che sarebbe buona educazione bussare prima di entrare in una stanza e salutare cordialmente chi vi è all’interno.»
«Al diavolo i convenevoli!», sbraitò Aiden avvicinandosi a Hijikata, «Spiegami perché, Kashim. Che senso ha ridurli in questo stato?»
«Se lo meritano, non basta?»
«No che non lo meritano!», replicò Aiden battendo i pugni sulla scrivania dello psichiatra, «Sono pazienti, i nostri pazienti, e sono qui per essere curati, per tornare ad essere delle persone che un giorno potranno reintegrarsi nella società. Le famiglie di questi due ragazzi si sono affidate a noi per permettere loro di avere una seconda possibilità. Tutti sbagliano, tutti, e noi siamo l'unica speranza che hanno per tornare a vivere come delle persone qualunque. Dovremmo rieducarli, e le tue azioni non aiutano a realizzare lo scopo primario per cui ci hanno assunti in questo ospedale!»
Ma per quanto fossero giuste e nobili le parole di Aiden, Hijikata parve non interessarsene più del necessario: continuava imperturbabile a sorridere, questa volta sfogliando un fascicolo su cui era segnato il nome di un suo paziente. Il mio nome.
«Nebraska Herstal ha ucciso un uomo, una donna e i loro due figli. Non ha mai mostrato segni di pentimento, proclamandosi per di più innumerevoli volte innocente durante gli interrogatori. Se la paziente non è disposta ad accettare le sue colpe, come posso rieducarla? Sai anche tu che quello è il primo passo per andare avanti, Hemmerick.»
«Non è un buon motivo per maltrattarla fino a questo punto, dannazione!»
«Sono d'accordo con te, infatti picchiarla è solo un passatempo. È una ragazza così testarda che sembra quasi mi inciti alla violenza.»
Lo ammise con una disinvoltura disarmante, gettando malamente il fascicolo sulla scrivania e divorandomi con gli occhi. È un mostro, mi ripetevo, e trae piacere nel vedermi sofferente. E prima che andassi nel panico Jonathan mi strinse un polso, come se in qualche modo volesse rassicurarmi.
«Chi l'ha pagata per far vivere questo incubo a Nebraska, dottor Hijikata?»
Io e Aiden ci voltammo a guardarlo: non capivo cosa intendesse, e probabilmente nemmeno l’altro inserviente. L'unico che rimase impassibile fu Hijikata, che aveva smesso di sorridere e lo puntava con sguardo truce; ma non durò molto quel suo viso colmo d'ira poiché nel giro di qualche istante tornò a sorridere sornione, prendendo il fascicolo di Jonathan tra le mani.
«Non dovresti preoccuparti dei maltrattamenti altrui, ragazzo. I tuoi problemi sono ben peggiori dei suoi.»
«Le ho fatto una domanda, dottore. Chi l'ha pagata per riservarle un trattamento del genere?»
«Non chiederlo a me, Zedd. Forse ne sa qualcosa la signorina che cerchi tanto di salvare.» E mi indicò, mostrando un’aria di finta innocenza che gli calzava ben poco.
Non ne avevo alcuna certezza, eppure temevo si riferisse a Lui, il mio mostro e il mio angelo. E probabilmente Hijikata me l’avrebbe anche confermato se solo Joshua Mayer non fosse entrato nell’ufficio e avesse ordinato ad Aiden di smetterla con quel teatrino.
«Ma lui non può–»
«Vattene.»
«Joshua, ascolta–»
«Ho detto vattene, Aiden. E porta Nebraska Herstal e Zedd nelle loro rispettive stanze.»
Il tono di voce e lo sguardo di Mayer mi sorpresero perché non capivo per quale ragione stesse impedendo ad Aiden di fare quello che diversi giorni prima aveva fatto anche lui, ovvero farlo ragionare. Teneva i suoi occhi fissi sull’altro inserviente, quasi come se potesse ucciderlo solo con gli occhi. Mi era parso di vedere nel mio salvatore l’ombra di Hijikata, e questo non fece altro che alimentare le mie paure; nemmeno Jonathan sembrava tranquillo alla scena a cui stava assistendo.
Aiden cedette, allontanandosi dalla scrivania e puntando l’attenzione su Mayer. «Allora permettimi almeno di dire un’ultima cosa a quel verme.» Si voltò verso lo psichiatra, con lo sguardo colmo d’ira e l’evidente voglia di prenderlo a pugni. «Sappi che farò tutto ciò che è in mio potere per fermarti, Hjikata. E non mi importa se questo mi costerà il lavoro o qualunque altra cosa: non ti permetterò di continuare in eterno questo scempio.»
Hijikata si trattenne a stento dal ridere: «Temo non ci riuscirai.»
 
 
Quella discussione tra Aiden e Hijikata parve non portare alcun cambiamento all’interno dell’ospedale: anche a distanza di poco più di una settimana dall’accaduto, ogni cosa continuava a seguire il suo regolare corso degli eventi quasi come se la sfuriata dell’inserviente non fosse mai avvenuta; ogni paziente proseguiva la propria routine senza mutamenti, e a questo disegno io non facevo eccezione.
Ancora una volta ero stata svegliata da Broox e il baccano di Candice che frugava nell’armadio, mi era stata servita la colazione e insieme ci eravamo dirette nella sala grande, dove tutti i pazienti trascorrevano la maggior parte del loro tempo nel vano tentativo di rendere meno grigie le proprie giornate.
Broox aveva come di consueto tentato di farmi parlare un po’ ma le parole di Jonathan sul non fidarmi di lei mi impedivano di avere una conversazione che andasse oltre a pochi monosillabi o comunque nulla di troppo articolato. Le sorridevo quando serviva, le rispondevo solo se necessario, pesando con attenzione ogni parola, proprio come mi era stato spiegato da quel ragazzo.
Stavo lentamente imparando i meccanismi per non farmi ingoiare da quell’esistenza, quelle piccole cose che servivano per starsene in pace e non avere problemi; ero anche riuscita diverse volte a non ingerire quelle pillole –un po’ per fortuna e un po’ per aiuto di alcune infermiere– anche se quelle volte che non era andato tutto a buon fine avevo iniziato a star male, a sentire il sonno prendermi, la concentrazione mancare. E costantemente al mio fianco era rimasto Jonathan, che mi aveva spiegato come sopravvivere, come comportarmi con la maggior parte dei pazienti, come farmi amiche le guardie e alcuni degli inservienti; quando poteva mi parlava sottovoce della sua vita, mentre accarezzava i capelli di Cadice che altro non era se non la sua ombra; loro due erano le uniche persone che riuscivano a tenermi compagnia e cercavo la loro presenza ogni volta che potevo.
E anche quel giorno mi avvicinai al tavolo della grande sala dove era solito trovarsi Jonathan, preceduta da Candice che si era praticamente lanciata tra le sue braccia: quel giorno non era legato, e per tale ragione la strinse in un affettuoso abbraccio che mi fece pensare a quanto bene si volessero.
Feci per sedermi di fronte a Jonathan, ma lui mi fece cenno di mettermi sulla sedia alla sua sinistra; un gesto insolito considerato che da quando ero lì il mio posto non era mai cambiato.
«Non vuoi giocare a scacchi, oggi?»
«Lo faremo tra poco, tranquilla. Prima dobbiamo parlare di una cosa.»
Iniziò a guardarsi intorno, lasciando Candice e sussurrandole qualcosa che io non sentii; lei si allontanò, andando vicino a una vecchia signora malata di Alzheimer e chissà cos’altro che dondolava nervosamente su una sedia. Non capivo che bisogno ci fosse di allontanarla, Jonathan aveva sempre parlato apertamente anche davanti a lei.
«Perché Candice non può sapere quel che stai per dirmi?»
«Faresti mai vedere una scena violenta o una di un film porno ad una bambina di meno di quattordici anni? È lo stesso discorso.»
«Ma lei non è una bambina, è mia coetanea.»
«C’è una grossa differenza tra te e lei, purtroppo: tu mentalmente hai esattamente l’età che dovresti avere, lei su certe cose non proprio. Inoltre ha già sofferto abbastanza per essere tanto piccola e ingenua, se posso evitarle un dispiacere non mi faccio troppi problemi. Adesso puoi cortesemente starmi a sentire? Ho una cosa molto importante da dirti, quindi ti chiedo di fare attenzione. Ci vorrà poco, ma preferirei evitare di ripetermi.»
Canalizzai l’attenzione su di lui, o meglio sulla sua mano destra che giocava con lo scacco bianco della Regina; aveva le nocche ancora violacee per l’aver preso a pugni Hijikata nella cella di isolamento.
«Non so come si dicano queste cose, Nebraska, ma cercherò di essere il più chiaro e conciso possibile.», disse quasi bisbigliando, «Ti ricordi di Aiden Hemmerick, vero?»
Annuii piuttosto confusa. Perché parlarmi di un uomo che avevo incontrato solo una volta?
«Tu non ci avrai nemmeno fatto caso, ma è da un paio di giorni che non si vede da queste parti. Mi sono insospettito, ho cercato informazioni convinto si fosse dimesso a seguito di quanto accaduto diversi giorni fa, ma voci di corridoio –anche piuttosto affidabili, a dire il vero– mi hanno riferito tutt’altro, e non è nulla di piacevole: Aiden è morto.»
«Morto? Come? Perché? Non…»
Mi morirono le parole in gola, temevo di dire quello che il mio cervello aveva elaborato nel giro di pochi istanti. Non era possibile.
«Lo so a cosa stai pensando e onestamente anche io credo sia assurdo. Ma accontentarsi della convinzione sia morto in un banalissimo incidente stradale mi risulta davvero poco razionale, soprattutto sapendo quanto accaduto nell’ufficio di Hijikata.» Si fermò un attimo per inumidirsi le labbra ancora leggermente gonfie e tornò a parlare, prendendo il mio viso per il mento e portandolo a girarsi per far incrociare i nostri sguardi; non amavo guardarlo negli occhi, temevo sempre potesse leggermi dentro, troppo affondo. «Nebraska, se non ti è chiaro quello è un avvertimento per tutti noi.»
«E cosa vuol dire?»
«Che Hijikata non ha più voglia di giocare con noi.»


 




──Note dell'autore──
Dopo il bel capitolo precedente, che è uscito una meraviglia quasi fosse preso da un vero libro, questo avrà deluso più che lasciato effettivamente qualcosa. Uno sconosciuto muore, Hijikata è più stronzo di sempre e Jonathan sembra essere diventato un pappamolle. E io non ho nemmeno voglia di scrivere le note d'autore. Niente di eccezionale o di nuovo, e come al solito non voglio scusarmi per nessuna di queste cose.
Io l'avevo detto che man mano saremmo andati peggiorando, dunque non datemene una colpa.
Ah, già che ci sono vi informo di una cosa: dal 17 Giugno (per quelli meno intuitivi sappiate che è questo mese) al 2 Luglio (sempre per quelli poco intuitivi: il mese prossimo) la sottoscritta sarà in Inghilterra per uno stage scolastico a seguito di un colloquio con il preside e altre tre sue sottoposte andato -evidentemente- più che bene.
Non merito assolutamente questo viaggio completamente spesato in Inghilterra, ho una media che non supera quella del sette e non ho saputo dire chi è Giovanni per Foscolo (adesso lo so); ma mi hanno presa per non so quale motivo, dunque anche se non lo merito come gli altri potrei mai rifiutare?
Se non pubblico un altro capitolo entro la scadenza, auguratemi un buon viaggio.


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「Nitrogen」
   
 
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