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Autore: Darkrama    09/08/2008    2 recensioni
Cosa può spingere un uomo che ha perso tutto a tornare a vivere? Vendetta? O sete di giustizia? Forse questo e molto altro.
Genere: Romantico, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il cavallo avanzava lento. Sceglieva la strada come se sapesse che il suo cavaliere non poteva farlo. Nessuno ciondolava sulla sella. Un paio di volte rischiò di cadere e solo per un soffio riuscì a tenersi in sella. Alzando il capo vide il fumo di una fattoria. Non riuscì a pensare che con l’armatura che aveva indosso lo avrebbero probabilmente ucciso. Il cavallo sentendo l’odore di suoi simili accelerò il passo.
Nell’aia si fermò aspettando che il suo cavaliere scendesse per liberarlo della sella e dargli da mangiare. Nessuno rovesciò al suolo.
Il rumore che fece l’armatura cadendo attirò l’attenzione di quelli della casa.
Due donne uscirono.
“E’ un soldato” disse la più giovane.
“Dell’esercito dell’usurpatore” rispose piano la più anziana.
“Proprio qui doveva finire mezzo morto?!” disse con rabbia.
“Cosa facciamo madre?”.
“Dovremmo tagliargli la gola e buttare il corpo nel bosco”.
“Mamma!” esclamò scandalizzata la figlia.
“Lo so, lo so. Troppo rischioso. Va a chiamare tuo padre, decideremo con lui”.
La ragazza corse via senza farselo ripetere.
Nessuno alzò un braccio e afferrò la caviglia della donna. Questa fece un salto indietro per lo spavento. Lui disegnò col dito per terra.
La donna si avvicinò e si chinò per vedere. Riconosciuto lo stemma del re urlò a gran voce per richiamare la figlia.
La ragazza tornò indietro senza capire.
“Aiutami a portarlo dentro” disse senza perdere tempo.
“Ma se fino ad un istante fa non volevate”.
“Ho cambiato idea. Aiutami”.
Ognuna lo afferrò per un braccio. Sbuffando per la fatica lo trascinarono in casa fino alla porta dell’unica stanza oltre il focolare. Lo adagiarono a terra.
“Vai a nascondere il suo cavallo nella stalla e pulisci le tracce nell’aia” disse la madre alla figlia “Poi metti due pentole d’acqua a bollire e portamele”.
La ragazza uscì a svolgere i compiti che le erano stati assegnati.
La madre tornò nella stanza col focolare. Da una cesta tirò fuori alcuni sacchi per il grano e li strappò facendone strisce. Quando la figlia tornò la madre li mise in una pentola.
La donna era intenta a togliergli l’armatura e i vestiti.
Quando tagliò la casacca e vide le ferite e le cicatrici che devastavano il corpo di quel poveretto si voltò e vomitò.
Urlò alla figlia di andare a chiamare il padre.
La ragazza uscì senza protestare. Con l’acqua calda la donna iniziò a lavare le ferite e a quelle che ne avevano bisogno mise dei punti con un grosso ago e del filo che usava per ricucire i sacchi del frumento.
Aveva quasi finito quanto sentì il marito bussare.
“Entra da solo” disse perentoria.
La figlia sbuffò ma restò fuori.
“Perché lo stai curando? Tua figlia ha detto che indossava un’armatura dell’usurpatore” disse con disappunto.
“Lo so ma ha fatto un disegno sulla sabbia prima di svenire”.
Lo fece nell’aria con la mano e l’uomo impallidì.
“Dobbiamo spostarlo da qui. Se lo vengono a cercare non devono trovarlo”.
“Aiutami allora, lo metteremo in soffitta. Da sola non ci riesco”.
Misero la scala vicino alla botola. L’uomo salì per aprirla e con l’aiuto della moglie si caricò il ferito sulle spalle. Lo adagiarono in mezzo ai sacchi delle provviste. Chiusa la botola la nascosero con un armadio e una pila di stracci.
“Vado a portare il cavallo nel bosco. Non devono trovarlo nella stalla”disse l’uomo.
“Fa attenzione” disse la moglie dandogli un bacio sulla guancia.
Il contadino tornò a mezzogiorno. La donna lo guardò e capì che il problema del cavallo era stato risolto.
Nei giorni seguenti tornarono alla loro solita routine. La donna una volta al giorno saliva a dare da mangiare al ferito e a cambiargli le fasciature verificando che non facessero infezione. La figlia non chiese perché non le permettesse di aiutarla e non fece commenti. L’aiuto ancor più nelle faccende domestiche perché il tempo speso dietro il ferito non le permetteva la sua solita efficienza.
Una settimana dopo Nessuno guardò la donna:
“Devo andare. Non so come sdebitarmi con te e la tua famiglia”.
“Abbiamo fatto quello che ci sentivamo in dovere di fare. Devo ammettere che se tu non avessi fatto quel disegno per terra probabilmente ora saresti cibo per vermi”.
Sorrise a quell’affermazione sincera.
“Se posso disturbarti ancora, hai degli abiti per me?”.
Il viso della donna si oscurò.
“Si. Ho quelli di mio figlio, dovrebbero andarti bene”.
Nessuno percepì il dolore nella voce della donna.
“Com’è successo?”.
Lei alzò il capo di scatto a guardarlo.
“Tre cavalieri vennero a requisire il bestiame per ordine del re. Lui chiese loro che ci lasciassero almeno una mucca o saremmo morti di fame. Quello che aveva parlato si avvicinò e lo trafisse con la spada”.
Nessuno fremette di rabbia.
“Ho visto mio figlio morire davanti ai miei occhi e non ho potuto fare nulla. Si sono messi a ridere e si sono allontanati con le nostre mucche”.
“Devo andare” disse con voce sepolcrale.
La donna lo lasciò per tornare poco dopo con calzoni, casacca e stivali da contadino ma robusti e caldi.
Li indossò e chiese alla donna dov’era la sua spada.
La donna indicò il giaciglio.
Lui sollevò gli strati di sacchi su cui aveva dormito e si legò il fodero della spada sulla schiena.
“Donna non potrò mai ringraziarti abbastanza ma una cosa potrò dartela”.
Allungò la spada con l’elsa verso di lei. Alla base della lama lei poté leggere:
“Giustizia”.
“Te ne sono grato. Non lo riporterà in vita ma te ne sono grato”.
Scesero dalla scaletta nella camera. La ragazza gli diede un involto.
“Vi ho messo carne e pane” disse timidamente.
“Vi ringrazio. So che facendo questo vi siete privati di cibo per voi importante e ve ne sono riconoscente”.
Il contadino si schernì. La donna più pratica:
“Abbiamo macellato il vostro cavallo per nasconderlo e una parte di carne l’abbiamo tenuta. Come vedete siamo stati fortunati.
Nessuno sorrise. Varcò la soglia della casa e si stava allontanando quando la donna gli gridò dietro:
“Come vi chiamate?”.
Si voltò, e per la prima volta da molto tempo, con un sorriso sulle labbra rispose:
“Gli amici mi chiamano Nessuno”.
La famiglia rimase interdetta e lui si allontanò.
Aveva chiesto quanto distava la città fortificata e il contadino gli aveva risposto tre giorni a piedi. Doveva marciare per un bel po’ e doveva evitare di attirare l’attenzione.
Si tenne lontano dalle piste battute e tornò a percorrere i sentieri dei boschi. Mangiò quando ebbe fame e bevve l’acqua da alcuni ruscelli. All’alba del terzo giorno era in vista della città ma con disappunto notò che fra lui e le mura si stendeva l’accampamento nemico. Doveva attraversarlo, aggirarlo era praticamente impossibile tanto era esteso.
Si avvicinò e scorte le sentinelle si incamminò verso una di loro.
“Chi va la?” disse questa vedendolo.
“Calma amico. Cerco ingaggio” disse alzando le mani per dimostrare che non c’era nulla di cui preoccuparsi.
L’uomo lo scrutò attento ma non trovando nulla di particolarmente sospetto lanciò un lungo fischio.
Un altro guerriero arrivò dietro di lui.
“Che vuoi? Non è ancora l’ora del cambio” disse abbastanza irritato.
“C’è qui un mercenario. Portalo dal guercio”.
L’uomo lo guardò poi disse:
“Seguimi”.
Nessuno gli andò dietro. Superarono alcune tende davanti cui i soldati giocavano a dadi e bevevano.
Davanti una tenda un po’ più grande delle altre il soldato si fermò, mise dentro la testa e parlò con qualcuno.
Lo scricchiolio di un’armatura, alcuni passi e un uomo uscì dalla tenda.
Dire perché il guercio si chiamava così era fin troppo semplice. Una parte del viso gli mancava, portata via da una spada o da una scure.
Con l’unico occhio che gli era rimasto osservò il nuovo venuto.
“Da dove vieni” latrò.
“Da ovest” rispose Nessuno laconicamente.
Il guercio lo osservò attentamente.
“Dove hai preso quei vestiti?” chiese sospettoso.
“Li ho rubati a dei contadini”rispose forzando il viso in un ghigno.
“E la spada?” chiese sospettoso.
“Ho spezzato la mia. Venendo qui ho trovato un cadavere nel bosco, dieci, dodici chilometri a sud est. La spada era sua”.
“Fammela vedere” ordinò il guercio.
“Non se ne parla” rispose sprezzante Nessuno “ora è mia”.
La guardia stava per dirgli di obbedire quando il guercio parlò:
“Una moneta al giorno, due pasti al giorno e una parte del bottino”.
Nessuno finse di pensarci un attimo poi disse:
“Va bene, ci sto”.
Il guercio tornò dentro e riemerse con un pezzo di carta e una penna.
“Come ti chiami?”
“Brahir” rispose Nessuno.
L’uomo sollevò gli occhi un istante, osservo il guerriero, ma non disse nulla. Scrisse il suo nome sul foglio e gli lanciò una moneta.
Nessuno la prese al volo e se ne andò.
“I mercenari dormono in quella tenda blu” gli disse dietro la sentinella.
Non le diede peso e prese ad aggirarsi con calma per l’accampamento.
Si tenne lontano dalle tende dorate. In quelle doveva trovarsi l’usurpatore e il suo consiglio di guerra. Raggiunse la tenda dei mercenari e si sedette con loro. Parlò con chi gli chiese da dove venisse attenendosi per quanto gli era possibile alla verità.
Sondò il terreno per capire lo stato d’animo delle truppe e vide che era alto.
Sapevano di essere in maggioranza e molti pregustavano il bottino e le ricompense dopo la guerra. Quando fu servito il rancio prese la sua razione e giudicò dalla consistenza che non vi erano problemi di rifornimenti.
Mentre mangiava un altro mercenario si sedette di fianco a lui.
Era di qualche anno più grande, i capelli biondi, il viso aquilino.
Una cicatrice gli solcava una guancia deturpando un viso altrimenti bello.
“Non ti ho mai visto”.
“Sono appena arrivato” rispose asciutto Nessuno.
Stettero in silenzio ancora un po’.
“Un guerriero con una spada simile non passa inosservato” insistette ancora.
“L’ho rubata, non so chi fosse quello a cui l’ho presa”.
“Ho sentito che vieni dall’ovest” chiese ancora.
Nessuno lo ignorò alzandosi e andando a riportare la ciotola con la cena.
Quando tornò l’altro era ancora li. Si diresse al fuoco. Slacciò la spada, si sedette e la poggiò, con la punta a terra, contro la spalla.
Il biondo lo guardò sedersi, andò a posare la ciotola e quando tornò si sedette di fianco a lui.
“Domani attaccheremo. Le trattative non hanno dato nessun esito”.
Nessuno non rispose nemmeno.
“Se quello che vanno cianciando i generali è vero con un paio di assalti riusciremo a sbaragliare l’esercito nemico”.
“Tu credi a quello che i generali dicono alla truppa?” chiese Nessuno ironico.
“Finalmente” rise l’uomo.
“No, non ci credo ma che cosa possiamo farci? Io spero solo di tornare a casa sano e ricco. Queste guerre di re non mi interessano per nessun’altro motivo”.
Nessuno sorrise.
“Allora ti auguro di tornare a casa vivo e ricco”disse alzandosi.
Si allontanò dal fuoco e si sedette su un’altura. Da li prese a osservare la piana che l’indomani si sarebbe arrossata del sangue delle due fazioni.
L’alba lo trovò addormentato. I corni echeggiarono per l’accampamento. I mercenari si radunarono.
Venne loro spiegato cosa avrebbero dovuto fare e come Nessuno aveva sperato erano davanti a tutti, praticamente carne da macello. Venne loro dato uno scudo per difendersi dagli arcieri nemici. Stupendo i suoi nuovi compagni prese anche lo scudo nonostante le dimensioni della sua spada. Chi poteva immaginare che un uomo potesse maneggiare quello spadone con una sola mano? Si schierarono. Dietro di loro la fanteria, ai lati di questa la cavalleria. Di fronte a loro la fanteria nemica. Nessuno si tenne a margine dello schieramento. Non aveva alcuna intenzione di affrontare la fanteria del re.
Ad uno squillo di tromba iniziarono a marciare. Mentre la distanza tra i due eserciti diminuiva ogni comandante urlava per dire di mantenere la calma.
Quando furono ad un centinaio di metri il fronte dei mercenari si ruppe, gli uomini si sparpagliarono. Le grida dei generali che cercavano di riformare i ranghi si persero nel rumore dei combattimenti. Colpito da quell’inaspettata fortuna Nessuno corse a lato tenendosi a fianco della cavalleria. Gli arcieri delle due fazioni scoccarono. Riparandosi con lo scudo si tenne al sicuro. Quando le due fanterie si scontrarono la cavalleria partì al galoppo. Montò il primo cavallo che vide tornare indietro senza cavaliere. Lo lanciò al galoppo tenendosi alla larga, per quanto possibile, dalle forze del re. Alcuni arcieri lo videro e lo presero di mira. Alcuni cavalieri lo intercettarono ma furono messi fuori combattimento dal piatto della sua spada e dal suo maggiore allungo. Raggiunte le retrovie trovò la strada sbarrata da una fila di lance. Arrestò bruscamente il cavallo. Dietro quelle lance vide il volto deciso dei soldati. Per farsi sentire sopra il frastuono dei combattimenti urlò a pieni polmoni:
“Dite al re che giustizia è tornata”.
Gli uomini lo guardarono perplessi. Alcuni si avvicinarono con le lance. Il cavallo sbuffò alla vista dei pali dalla punta d’acciaio e Nessuno strattono le redini per impedirgli di scalciare. Un porta dispacci corse via. Dopo pochi minuti una delle guardie reali arrivò di corsa. Appena lo vide lo riconobbe.
“Abbassate le armi è dei nostri”.
Gli uomini obbedirono e si scostarono quel tanto da permettergli di passare. Nessuno scese da cavallo e lo guidò per le briglie.
La guardia reale gli strinse la mano.
“Eravamo certi che ormai foste morto. Venite, racconterete tutto direttamente al re”.
Lo seguì. Uno stalliere prese le redini del cavallo, quando furono davanti alla tenda con l’insegna reale. Entrò. Il re era seduto ad un tavolo da campo circondato di carte. Alcuni dei suoi generali erano in piedi. Al rumore dei passi alzò gli occhi e lo guardò meravigliato:
“Sono felice di rivederti” disse semplicemente. Nessuno fece un inchino.
“Da dove sbuchi così all’improvviso?”
“Dall’accampamento nemico” disse ironico Nessuno.
“Mi sono fatto assoldare come mercenario per attraversarlo”.
Detto questo lanciò la moneta al re.
Il re afferrò la moneta al volo.
“Le vostre sono più belle” disse semplicemente.
Da una parte c’era lo stemma reale, dall’altra la faccia di suo fratello abbellita da una sfarzosa corona.
“Ha sempre esagerato”disse lanciandola sul tavolo.
“Cosa puoi dirci del suo esercito?” chiese ansioso.
“Hanno forze fresche e motivate. Sono superiori di numero e mezzi, e lo sanno, e i loro rifornimenti sono abbondanti. Non credo che in questo esercito la truppa mangi così bene”.
Alcuni generali brontolarono.
“Lo so, lui ha alle spalle le più fertili vallate del paese, io le più gelide. Ho visto il grano marcire sotto una gelata tardiva”.
Il re si alzò pensieroso e prese a camminare per la tenda.
“Se riuscite a resistere all’attacco per un paio di giorni senza ripiegare posso fare qualcosa” disse Nessuno.
Il re lo guardò colpito.
“Spiegati”disse fermandosi e dedicandogli tutta la sua attenzione. Il silenzio cadde nella tenda.
I generali si avvicinarono e Nessuno spiegò a loro e al re il suo piano.
“Sperò funzionerà. Prendi gli uomini che ti servono e fai in fretta”disse tornando a fissare le carte con sopra figurine in legno che rappresentavano le forze in campo.
Nessuno si congedò.
Uscito dalla tenda si fece portare il cavallo e galoppò verso le mura. Qui cercò quante più contadine potesse, gli uomini erano nella fanteria, e fece radunare una decina di muli. Dopo averle aiutate a sistemare le ceste sui muli le guidò nella pianura dietro la città.
Scese da cavallo e fece vedere loro le pietre che dovevano raccogliere. A mezzogiorno i muli erano carichi.
Tornò in città e si fece indicare il mulino più grande. Discusse quasi dieci minuti col mugnaio che non voleva saperne di fare il lavoro che gli chiedeva. Quando sentì che lo avrebbe fatto il guerriero sbattendolo fuori cedette. Spensero tutte le torce e iniziarono a macinare le pietre. Nessuno andò coi muli nelle osterie e requisì le botti di vino e con sommo stupore degli osti le vuotò tutte a terra. Poi andò in armeria e prese l’olio per le torce e un rotolo di corda.
Mentre il mugnaio macinava, lui riempiva i barili con quella strana polvere nera inserendovi una cima di corda imbevuta d’olio. Chiudeva ogni barile col tappo e lo metteva da parte.
Le donne, capito quello che si doveva fare, iniziarono ad aiutarlo. Alcune tornarono coi muli a raccogliere pietre, altre mettevano le pietre nelle macine. Alcuni mugnai visto il lavoro che veniva svolto presero parte delle pietre e le macinarono nei loro mulini.
Nessuno si aggirava ovunque. Febbrilmente incitava tutti a fare in fretta e aiutava chi era nei guai.
Calò il sole e una guardia reale venne a comunicargli che il re voleva sapere a che punto era.
Lo seguì dopo aver detto a tutti di lavorare fuori ma di non usare torce o lampade.
Mentre saliva le scale che portavano al castello si rese conto di essere stanchissimo. Le ferite non erano del tutto rimarginate e lui era ancora debole.
Entrò nella stanza del re e fece un inchino, era in compagnia dei due figli.
Parmide indossava l’armatura. Probabilmente aveva il comando di uno squadrone. Lo salutò con affetto stringendogli la mano con forza. Era un uomo ormai, la guerra lo aveva fatto crescere in fretta.
Isabella lo salutò con distaccata cortesia. Nessuno la osservò ma non vide ne il suo vestito ne l’acconciatura dei suoi capelli: aveva gli occhi pieni di lacrime. Il re la guardava attentamente.
Rispose al suo saluto formalmente e lei spalancò gli occhi come se l’avesse schiaffeggiata. Poi abbassò il capo, conosceva il perché della sua freddezza.
“Come procede il lavoro?” chiese il re.
“Bene maestà. Entro domattina dovremo averne prodotta abbastanza per il nostro scopo”.
“Non potremo usarla però”.
“No, dovremo aspettare il calare delle tenebre” disse sconsolato Nessuno.
“Dovreste riposare” aggiunse il re osservando il pallore del suo viso.
“Gli uomini che ho mandato a cercarvi al forte hanno trovato altri venti cadaveri, siete stato voi?” chiese incredulo.
“Mentre aspettavo per far allontanare i carri è arrivato il cambio della guarnigione. Ho preso tempo e ho appiccato il fuoco. Quando li ho fatti entrare ho chiuso il portone dietro di me e li ho affrontati. Il fumo è diventato talmente denso da non permettermi di vedere ma mi ha dato un vantaggio sui miei nemici. Io sapevo di non avere alleati la dentro. Mi sono diretto verso le mura e ho riaperto il portone. L’ho bloccato da fuori e gli ho dato fuoco”.
“Ma dovevate essere ferito. Dopo aver affrontato un numero simile di avversari non potevate uscirne indenne”.
Parmide annuì alle parole del padre. Aveva pensato la stessa cosa.
“E’ vero, mi hanno ferito. Ho recuperato il cavallo che avevo legato nel bosco e lui si è diretto verso una fattoria. Sono stato curato per una settimana poi sono tornato qui e ho trovato la città circondata dal nemico” ondeggiò lievemente.
“Vi sono grato per tutto quello che avete fatto per la mia causa e per tutto quello che ancora state facendo”disse il re con calore.
“Ma il vostro stato mi obbliga a farvi riposare. Parmide chiama il capitano delle guardie e digli che si assicuri che raggiunga gli alloggi, mangi abbondantemente e vada a dormire”.
I due uscirono, Isabella fece per seguirli ma il padre la bloccò.
“Resta Isabella”.
Quando la fanciulla tornò verso di lui continuò:
“Ne abbiamo parlato. Gli devo molto ma questo non cambia lo stato delle cose” disse guardandola dritto negli occhi.
“Avete ragione padre, ne abbiamo parlato! Non c’è bisogno che vi ripetiate. Sono una principessa e devo fare quello che ci si aspetta da me” terminò pronunciando le ultime parole con sprezzo .
“Va allora”disse dolcemente il padre. Non poteva fare nulla per lei.
La ragazza uscì e tornò nelle sue stanze. Il fratello la raggiunse poco dopo.
“Ti rendi conto? Ha combattuto contro più di venti guerrieri e li ha sterminati. E’ un guerriero incredibile”disse ammirato.
La sorella lo guardò adirata:
“Sei uno stupido!”
Il fratello rimase sbalordito. Mai la sorella si era rivolto a lui in quel modo.
“Tu vedi le sue gesta. Dovresti vedere i segni che lasciano sul suo corpo o sul suo spirito prima di parlare” disse con rabbia.
Parmide la guardò incredulo poi capì finalmente quello che era sotto i suoi occhi ma di cui non si era curato.
“Tu lo ami vero?” le urlò dietro il fratello pieno di risentimento per quelle dure parole.
Lei gli si avvicinò furiosa: “Io sono una principessa” gli rispose gelida “e devo comportarmi come ci si aspetta da una principessa. Si volto:“Ora vai, devo dormire”.Il ragazzo era a bocca aperta. Mai aveva sentito tanta desolazione nella voce della sorella. Chinò il capo, si voltò e lasciò la stanza chiudendo delicatamente la porta. Rimasta sola Isabella si sedette sul bordo del letto. Si prese il viso tra le mani e pianse.
La sua governante sentendo i singhiozzi entrò nella stanza e le si avvicinò. Si sedette di fianco a lei e l’abbracciò. Con parole dolci cercò di consolarla. La ragazza si mise a piangere sulla sua spalla. All’alba, dopo una notte insonne chiamò la sua cameriera più fidata. Le diede il ciondolo che portava sin da bambina, l’unico ricordo della madre, e le disse a chi portarlo.
La ragazza la guardò sbarrando gli occhi e indietreggiando di un passo, ma guardandola in viso le promise che lo avrebbe fatto. Isabella cadde finalmente in un sonno privo di sogni. La cameriera si coprì con un mantello e con circospezione uscì dal palazzo.
Raggiunse gli alloggi della guardia reale ma li le dissero che il Mendicante era già uscito diretto forse al mulino.
Seguì le indicazioni della guardia e lo vide. Completamente vestito di nero era intento a riempire con altre donne dei barili con una strana polvere nera.
Si avvicinò e a un passo da lui lo chiamò:
“Mendicante devo parlarvi”.
Lui si volto e alzò lo sguardo, lei indietreggiò.
Gli occhi cerchiati di rosso, la barba lunga e sporca. I capelli scompigliati. Cosa ci vedeva la sua signora in quell’uomo? Ma aveva promesso.
“Dimmi” disse lui con voce roca.
“Non qui” quasi lo supplicò lei.
Lui tornò a guardarla. La tristezza che la ragazza lesse nei suoi occhi la commosse.
Nessuno si alzò.
“Venite” disse perentorio.
Aggirarono il mulino e si portarono dietro l’edificio.
La ragazza si guardò intorno per assicurarsi che non ci fossero persone in vista.
“La mia signora vi prega di accettare questo”.
Aprì un involto che teneva tra le mani e tra le pieghe di un fazzoletto brillò la luce dorata di un medaglione appeso ad una catenella.
Nessuno guardò a lungo il medaglione poi lo prese e se lo mise al collo facendolo sparire dentro la casacca.
“Per sempre” disse solo e se ne andò lasciando la ragazza interdetta.
Tornò al suo lavoro e con rabbia riprese a riempire barili. La ragazza non perse altro tempo. Diede un’ultima occhiata all’uomo e fece ritorno al castello. Quando riferì le parole del mendicante alla principessa vide i suoi occhi incupirsi. Non versò lacrime ma tornò alle sue mansioni, persa nei suoi pensieri.
  
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