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Autore: Ivola    13/06/2014    4 recensioni
Le storie di Panem sono varie e numerose. Avete mai sentito parlare dei promessi del Distretto 6, quei due ragazzi che avrebbero fatto di tutto pur di ammazzarsi a vicenda e non sposarsi? Loro sono solo una sfocatura, come tanti altri.
Klaus e London. London e Klaus.
Un altro matrimonio combinato, le persone sbagliate, un cuore solitario, e tutto ciò che (non) può essere definito amore.

▪ VI: « Che cosa mi stai facendo? » ansimò la ragazza, tentando di aggrapparsi alle sue spalle. Era decisamente una domanda stupida, visto che era piuttosto evidente cosa il ragazzo stesse facendo. [...]
Klaus non si degnò neanche di rispondere, ben concentrato a muoversi sul suo corpo con gli occhi distanti e le labbra socchiuse. Non aveva né la voglia né la forza di ribattere, per cui la zittì con un bacio rabbioso. « Taci » le sussurrò, corrugando la fronte e mantenendo le labbra a pochi centimetri dalle sue nel caso London avesse deciso di parlare ancora.

▪ XIII: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare.
[...]
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
Capitoli:
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Note: Fortunatamente ho pochissimo da dire. Come previsto, maggio è stato un mese lungo e pesante a causa degli impegni scolastici, ma adesso che sono libera (e senza debiti ♥) posso dedicarmi completamente a Blur, che spero di portare a termine al più presto, quindi non vi spaventate se gli aggiornamenti diventeranno un pochino più costanti.
Con questo capitolo XXII ho raggiunto un paio di traguardi: in primis, le 100.000 parole su Word - e non potete capire quanto ne sia soddisfatta! -, le 80 recensioni qui su Efp e le quasi-2000 visualizzazioni del prologo. Grazie, perciò, alle persone che mi sostengono e grazie a tutti voi che leggete e/o recensite, mi rendete una persona estremamente felice. 
Spero che questo capitolo vi piaccia, anche perché c'è un po' più d'azione ed entriamo finalmente nel vivo di tutta la storia.

Buona lettura ♥

Il titolo del capitolo viene da "Lacrymosa" degli Evanescence, oltre che dal "Requiem" di Mozart, accompagnato da una preghiera in latino (il Dies Irae) che recita proprio questo verso. La traduzione è: "Quel giorno (sarà) pieno di lacrime". Non specifico a quale giorno mi riferisco perché è spoiler(?). 

Questo banner appartiene a me, ©Ivola.
















 



 

















Blur

(Tied to a Railroad)






022. Twenty-second Chapter – Lacrimosa dies illa.




Tre giorni. Tre giorni, sette ore e trentacinque minuti, per la precisione. Ecco il tempo trascorso da quando Klaudia era stata rapita. London l’aveva contato quasi di minuto in minuto.
L’avevano portata via. Se lo stava ripetendo dal momento in cui aveva trovato il giardino di casa vuoto, con quelle stupide bambole di porcellana a terra, sull’erba, a confermare il proprio terrore. London non aveva il coraggio di domandarsi dove l’avessero portata, che cosa le avessero fatto e che cosa le stessero facendo proprio in quel momento. Klaudia aveva soltanto cinque anni, era sola ed era sorda. Non riusciva a immaginare quanto fosse spaventata e al solo pensiero le veniva voglia di urlare e piangere al contempo. La sua bambina era in pericolo: non le importava come, non le importava quando e dove, ma l’avrebbe trovata, anche a costo di girare tutta Panem a piedi o di corsa.
Klaus era stato molto più pragmatico di lei, occupandosi di tutto il necessario. Aveva preparato un borsone in fretta e furia – lo stesso di quando erano partiti, a stento aveva avuto il tempo per accorgersene –, aveva parlato con Käthe e lei gli aveva indicato a chi rivolgersi per tentare la missione suicida di tornare a Panem; era stata proprio la sorellastra a dire loro che conosceva le persone giuste per queste cose proprio quando erano arrivati a Valhalla, in circostanze di simile raggio d’azione ma direzione e pericolo diversi.
Avevano preso un altro hovercraft appena otto ore prima, erano saliti senza nemmeno guardarsi indietro e si erano chiusi in un mutismo disperato, interrotto unicamente dalle blande rassicurazioni di Klaus. London non aveva detto semplicemente niente; si era limitata per tutto il viaggio a fissare un punto imprecisato davanti a sé con sguardo vuoto ma determinato. E proprio lì, in quel momento, London aveva saputo che quella situazione avrebbe preso una brutta piega. Era poco più che una sensazione, ma pian piano si stava trasformando in un ronzio disturbante nel suo cervello, come un avvertimento. Ma non le importava. Non le importava di nulla e di nessuno. Non avrebbe mai abbandonato sua figlia così, in balia di sconosciuti rapitori, nelle mani di persone malvagie.
Doveva trovarla. Trovarla e portarla al sicuro.

Atterrarono all’alba, in un’area talmente desolata che la determinazione di London si sgretolò per un istante.

« Dove siamo? » domandò con voce tremula, guardandosi intorno. Era una vecchia e arrugginita ferrovia abbandonata e nell’aria polverosa regnava un silenzio denso di tensione.
« Avevo detto al pilota di portarci al Distretto Sei » rispose Klaus con una velata nota di insicurezza nella voce. « Credo che siamo vicini, questo posto fa parte della zona mai più ricostruita dopo i Giorni Bui. Forse era il luogo migliore per l’atterraggio. »
London non fece altre domande e s’incamminò prima di lui, a passo spedito, alzandosi il cappuccio della felpa sui capelli. Ancora non sapevano come avrebbero fatto ad entrare, né cosa avrebbero fatto o detto quando sarebbero stati riconosciuti.
Erano passati due anni. Due anni intensi, ma trascorsi fin troppo velocemente. In due anni possono cambiare molte cose, ma Klaus e London avevano avuto giusto il tempo di provare a saggiare un briciolo di felicità prima che questa fosse portata loro via bruscamente, in una frazione di secondo.
London non provò assolutamente nulla nel mettere piede di nuovo sul suolo del proprio Distretto, tutto ciò che attraversava la sua mente era Klaudia. Soltanto dopo riaverla abbracciata avrebbe cominciato a pensare al resto. Eppure c’era un’altra costante nei suoi pensieri: Ben. In quel momento avrebbe dato il mondo pur di vedere suo fratello… e forse non sarebbe stato tanto difficile, se fossero riusciti ad entrare.
Velocizzò il passo senza nemmeno accorgersene, tanto che superò il marito in men che non si dica. Klaus, in ogni caso, la raggiunse subito e insieme continuarono a camminare l’uno a fianco all’altra in direzione della porta sud del Distretto – la prima che avrebbero incontrato.
Il tempo si annullò passo dopo passo. Nessuno dei due seppe dire quanto ne era passato – eppure il sole era ancora basso nel cielo, quindi non dovevano averci messo molto – quando avvistarono da lontano un gruppo di persone in movimento, davanti a uno spesso muro di cemento armato che separava la zona abitata da quella disabitata e abbandonata. Solo allora London si costrinse a non agire di impulso e a trovare quantomeno una sorta di piano.

« La porta è sorvegliata dai Pacificatori » fece notare a Klaus, bloccandolo per un polso e indicando il drappello appostato davanti alla porta sud con un cenno del capo. « Come entriamo? » chiese, mentre cominciava a sentire le pulsazioni del proprio cuore aumentare a dismisura. Un solo passo falso sarebbe costato loro molto caro.
Klaus strinse in risposta la mano della moglie e fissò le mura come per cercare una soluzione. 
« Quelli dovrebbero essere commercianti… oppure operai » disse, socchiudendo gli occhi per guardare meglio da lontano. « Mi sembra che siano in fila per entrare. »
« Ma se non sbaglio hanno un’autorizzazzione firmata dal sindaco o una cosa del genere… » ricordò London. « Non possiamo presentarci così e sperare di entrare. »
« Non possiamo nemmeno aspettare qui fuori per sempre » ribatté Klaus. « In realtà basterebbe non farci riconoscere. A quello ci penseremo una volta dentro. » Si voltò verso di lei e le nascose meglio sotto il cappuccio i capelli bianchi, tratto distintivo dei Bridge che avrebbe potuto causare la rovina del piano. London alzò appena lo sguardo su di lui e lo osservò accarezzarle guancia e fronte con i polpastrelli.
« Diremo che siamo autorizzati da tuo padre » continuò Klaus, alzandosi a sua volta il cappuccio sulla propria testa. « Sul mio non conterei a prescindere. »
La ragazza annuì e spostò nuovamente gli occhi sulle mura, mentre il marito non li distoglieva da lei, forse per controllare il suo stadio di agitazione.
« London » la chiamò, stringendole ancora una volta la mano. « Qualsiasi cosa accada, noi due non ci conosciamo. »
London gli rivolse un’occhiata perplessa – quasi spaventata all’idea. « Noi due non…? »
« Non ci conosciamo » confermò Klaus. « Non devi assolutamente dare a vedere che siamo sposati. Se uno di noi dovesse essere riconosciuto, almeno l’altro potrà entrare. Chiaro? »
La moglie sembrò atterrita, eppure annuì comunque. Stavano rischiando la vita, stavano rischiando tutto. Il cuore le martellava in petto e quasi le mozzava il respiro, mentre la pelle del viso era impallidita a vista d’occhio. « Andiamo » fece infine, non provando nemmeno a nascondere il tremolio nella propria voce.
Entrambi sciolsero la stretta tra le loro mani, riprendendo a camminare con atteggiamento nervoso e facendo stridere nel silenzio tombale la suola delle scarpe contro il terreno cosparso di pietruzze. Avvicinandosi alla porta sud, cominciarono a distinguere altre cose: i Pacificatori accanto ad essa erano molti più di quanti ce ne sarebbero stati normalmente, tutti con le armi ben salde in mano.

« Klaus, aspetta » si allarmò London, ma Klaus con un cenno del capo e un’occhiata che voleva sembrare determinata la incitò a continuare a camminare. La ragazza si ricordò che dovevano apparire il meno intimi possibile, o i problemi sarebbero arrivati ancora prima di riuscire a mettere piede all’interno del Distretto, quindi cercò di ignorare l’ansia crescente e di sembrare disinvolta.
Dopo qualche metro, si videro costretti a mettersi in fila dietro un gruppo di operai. Ognuno di loro trasportava un carretto o una cassa, talvolta borse e sacche, piene di arnesi e panni sporchi d’olio – dovevano essere di sicuro gli addetti alla manutenzione dei treni. L’uomo in fila prima di loro indossava una tuta di jeans completamente macchiata e si puliva la fronte con un fazzoletto di stoffa pulito.
Si voltò verso di loro giusto un istante, li squadrò per qualche secondo, ma poi tornò a parlare con il suo collega senza dire nulla. London tirò un sospiro di sollievo e si abbassò ancora di più il cappuccio sui capelli per non essere riconosciuta. Sapeva che Klaus era dietro di lei perché percepiva il suo sguardo sulla nuca, che forse avrebbe dovuto incoraggiarla, mentre non faceva altro che farle venire voglia di voltarsi e correre in un altro posto. Quella situazione le aveva fatto salire la tensione a fior di pelle, tanto che era costretta a incrociare convulsamente le braccia al petto per calmarla. Manca poco, si ripeteva, guardando ogni operaio parlare brevemente con uno dei Pacificatori all’entrata, mostrare quello che aveva l’aria di essere un tesserino lasciapassare e scomparire dietro la grande porta di ferro. Rivedrò Ben, mamma e papà. Mi aiuteranno a cercare Klaudia, andrà tutto bene.
Stava diventando una litania nella sua testa, ma era l’unica cosa che la spingeva a proseguire, a mettere un piede davanti all’altro. Solo dopo qualche secondo, le parve di sentire l’uomo davanti a lei pronunciare distintamente la parola “Bridge”. Il cuore le si fermò nel petto, per poi riprendere a battere più velocemente di quanto stesse facendo prima.

« Che siano maledetti » disse un altro sconosciuto, aggiungendosi alla conversazione. « Ho sempre saputo che stavano dalla parte di Capitol. »
Dalla parte di Capitol?, si chiese lei, terrorizzata. Che diavolo è successo perché pensino una cosa del genere?
« Già la figlia – chissà come, forse si è scopata Snow in persona – è scomparsa nel nulla, magari andandosene in qualche bella località esotica, ma adesso ci si mette anche il fratello! »
Klaus le strinse una spalla repentinamente, prevedendo una qualche sua mossa. La strinse così forte da farle male e mormorò qualcosa tra i denti, che lei non colse perché troppo concentrata sulla conversazione di quegli operai. Avrebbe tanto voluto ribattere acidamente e mandarli a farsi fottere, ma la presa di Klaus la riscosse dalle proprie pulsioni.
« Infatti » concordò uno di loro, « ho sempre pensato che i Bridge fossero più influenti dei Wreisht… è stato Frantz Wreisht ad essere trovato morto in casa sua l’altro giorno, no? Dicono che sia stato ucciso. »
A quelle parole, il mondo intorno a lei parve congelarsi.
Morto. Frantz Wreisht era morto. Trovato ucciso in casa sua. I suoi occhi si spalancarono e dentro di sé una voce per poco non esultò.
Sentì la presa di Klaus abbandonarla e il suo braccio ricadere al suo fianco; fu vinta dall’istinto e si voltò verso di lui. Sul viso di entrambi era dipinta la stessa espressione persa nel vuoto, ma senza accenno di dispiacere o tristezza o rabbia. Klaus la guardò con occhi carichi di sottintesi e lei non riuscì a trattenere  un piccolo sorriso a fior di labbra. E finita, avrebbe tanto voluto dire, se solo non fosse che non era finito un bel niente. Klaudia era ancora da qualche parte, lontana da lì, lontana da loro. Eppure, nonostante ciò, in un battito di ciglia avevano visto cancellarsi una delle cause che aveva afflitto a lungo la loro vita, uno dei motivi per cui erano scappati in Europa, la persona che aveva arrecato loro ogni sorta di problema.
London si domandò per un momento chi potesse averlo ucciso, ma si accorse che non le importava. Fosse stata Shyvonne stessa o chiunque altro, sarebbe corsa a ringraziarlo non appena avesse potuto.

« Coincidenze strane? » continuò l’uomo, tuttavia. « Non ti sembra un po’ forzato che Wreisht sia morto proprio quando hanno ritrovato la nipote? »
London avrebbe voluto urlare, forse di gioia, o forse per buttare fuori tutta quell’ansia. Nipote, nipote, nipote. Stavano parlando di Klaudia, per forza. Ha detto nipote!
« Sì, la figlia dei fuggitivi… com’è che si chiama? »
« Ah, e questo chi se lo ricorda. »
« Comunque in effetti è strano che questa bambina sia spuntata dal nulla quando i genitori non si trovano da tipo due anni… per me c’è dietro qualcosa. »
Gli occhi di London cominciarono a pizzicarle. Non poteva crederci, Klaudia era lì, nel Distretto Sei, per chissà quale miracolo. E Frantz Wreisht era morto.
« Mi sembra che adesso sia stata portata dai Bridge » riprese l’uomo davanti a lei, sul quale stava quasi inciampando per il sollievo.
« Sì, alla fine sono gli unici parenti che le sono rimasti » disse il collega, grattandosi la nuca. « I genitori restano un’incognita. »
L’unico desiderio di London in quel momento era scavalcare quella fila, superare i Pacificatori e correre a casa, dalla sua bambina, da suo fratello e dai suoi genitori. Il mondo non le era mai sembrato tanto bello, i suoi occhi non erano mai stati tanto appannati da lacrime di felicità. Klaus le si accostò appena, ancora con il loro piano bene impresso nella mente, e le sussurrò all’orecchio. « Visto? Va tutto bene. » Il sorriso di London si allargò. Gliel’aveva detto, Klaus, che ogni cosa si sarebbe messa a posto. « Però dobbiamo mantenerci in allerta » continuò, « la situazione non è cambiata. »
La moglie annuì un po’ troppo vigorosamente, guardando dritto davanti a sé. Solo poche miglia la separavano dalla sua famiglia. Poche e dolorose; ogni metro che percorreva, ogni passo che muoveva l’avvicinava sempre più alla meta, ma al contempo faceva crescere la sua paura. E se non li avessero fatti entrare? Quel pensiero le faceva tremare le mani dall’angoscia.
Manca poco. Mancava veramente poco.
La fila continuò a sfoltirsi e le persone continuarono ad avanzare, mentre il sole si alzava sulle loro teste per dare inizio a una nuova giornata.
O forse, a una nuova era.
 

*


Erano quasi giunti alla porta. Klaus aveva cominciato a sudare freddo, mentre riusciva a percepire perfettamente la fretta di London, oltre alla voglia di entrare e riabbracciare finalmente Klaudia.
Guardava gli ultimi uomini rimasti davanti a loro. Avevano smesso di parlare dei Bridge da un po’ di tempo e ora se ne stavano in silenzio ad aspettare il proprio turno, esattamente come loro. Eppure Klaus notò che c’era qualcosa di strano nei loro volti. Sembrava che fossero in attesa di qualcosa – qualcosa che non era varcare la porta e basta. Li squadrò da lontano, mentre dietro di lui arrivavano sempre altri operai e accanto alla loro fila se n’era addirittura formata un’altra, mentre un altro Pacificatore controllava le persone che uscivano dal Distretto. Si domandò perché tenessero le armi così strette in mano, come se fossero in allerta di qualche pericolo imminente.
Una sensazione di disagio s’insinuò dentro il suo petto, mentre altre goccioline di sudore gli scendevano lungo il collo e la schiena.
Lanciò un’ulteriore occhiata ai Pacificatori appostati accanto alla porta, che avevano cominciato a discutere con uno degli uomini in fila e il suo stato di allarme si aggravò quando lo gettarono a terra. Uno dei suoi colleghi intervenne per difenderlo, ma quelli gli puntarono le pistole addosso all’unisono. 
« Dov’è il tuo lasciapassare? » gridò uno di questi, la voce distorta dal casco che gli copriva completamente il volto.
« L’ho… dimenticato » fece l’accusato, alzando le mani in segno di resa.
« E come hai fatto a uscire, lurido ribelle? » domandò retoricamente il Pacificatore, sferrandogli un calcio nell’addome. Klaus udì i suoi gemiti di dolore anche se si trovava a un po’ di metri di distanza da lui.
Ribelli, pensò, cercando di collegare quello che stava ascoltando agli ultimi avvenimenti di Panem di cui aveva avuto qualche informazione, due anni prima. Sta succedendo qualcosa, qualcosa di grosso.

« Io... io non sono un ribelle… » mormorò l’uomo a terra, piegandosi su se stesso. « Fatemi entrare. »
Il Pacificatore scosse la testa con cattiveria e gli sparò ad una gamba. Klaus sentì il colpo rimbombargli nelle orecchie e nella gola; senza pensarci due volte prese London per un polso e la trascinò più indietro possibile, cercando di non farsi notare.
« Che sta succedendo? » gli chiese la moglie, con gli occhi spalancati su di lui.
« Non lo so… » provò a rispondere, quando un improvviso e lungo fischio lugubre bloccò tutti i presenti sul posto. Durò così tanto che London fu costretta a tapparsi le orecchie con i palmi delle mani, mentre Klaus si guardava intorno senza riuscire ad individuare la fonte di quel rumore disturbante.
« Siamo pronti! » urlò un uomo poco lontano da loro, sovrastando persino quel frastuono. « Tirate fuori le armi! » Quasi all’unisono tutti gli operai presenti aprirono le borse o tolsero i teli sporchi d’olio per motori dalle casse, rivelando varie e numerose armi da fuoco. Dei Pacificatori cominciarono a sparare a vuoto, ma alcuni lavoratori furono colpiti dai proiettili vaganti.
London urlò, ma il suo grido fu soffocato dagli spari e dalle grida degli altri. In poche frazioni di secondo cominciò ad alzarsi la polvere dal terreno, mentre diversi corpi cadevano a terra privi di vita.
Klaus agì di scatto e, tenendo sempre London stretta per un polso, cominciò a correre nella direzione opposta alla sommossa. Una serie di domande senza risposta gli vorticava nel cervello, fino ad annebbiargli la vista: dove si erano procurati quelle armi? Ma, soprattutto, perché avevano delle armi? E perché le avevano cacciate di comune accordo dopo quel lugubre fischio prolungato? Corse così velocemente che la ragazza faticò a stargli dietro, anche per la caviglia ancora ferita, ma non appena incontrarono il muro di un’area di servizio della vecchia stazione, vi si nascosero annaspando per riempire i polmoni d’aria pulita.
London si poggiò una mano sul petto che si alzava e abbassava fin troppo rapidamente. 
« Cosa… facciamo… adesso? » sibilò per la mancanza di ossigeno.
Klaus la fece appoggiare con la schiena al muro e le prese il viso tra le mani. 
« Dobbiamo entrare » le disse, guardandola fisso negli occhi. Anche quelli della ragazza cercarono disperatamente il suo sguardo, in cui si persero in cerca di conforto. Klaus riuscì a distinguere ogni più piccola sfumatura delle sue iridi, tanto erano dilatate dalla paura.
« Klaudia è dentro! » esclamò la ragazza, aggrappandosi – artigliandosi, quasi – alle sue braccia.
« Ascoltami » fece lui, tenendo ferme le mani sul suo viso. « Ascoltami bene, adesso. Dobbiamo entrare da un’altra porta, qui è troppo pericoloso. »
« C-ci vorranno ore di cammino ininterrotto » balbettò London, ma lo sguardo di Klaus represse ogni sua protesta.
« Non importa, non possiamo farci sparare » replicò, « in qualche modo dobbiamo entrare e nasconderci. Non ho idea di cosa stia accadendo, ma il Distretto Sei non sarà sicuro né ora né tanto meno nei prossimi giorni. »
London continuò a fissarlo disperatamente, come se Klaus fosse rimasto la sua ultima certezza. « Cosa facciamo? »
« Non lo so, ma per adesso cerchiamo di raggiungere casa tua » rispose e poi le posò un veloce quanto leggero bacio sulla fronte pallida. « Andrà tutto bene, te lo giuro. » Solo allora si staccò da lei, affacciandosi al di là del muro per controllare la situazione. London annuì, senza riuscire a soppesare davvero le parole del marito. Sarebbe andato tutto bene, doveva andare tutto bene.

Si allontanarono dal muro dopo qualche secondo.
London fece qualche passo incerto in direzione della zona ovest, dove non c’era una vera e propria porta presidiata da qualcuno, ma un nuovo rumore minaccioso la costrinse ad alzare lo sguardo: il cielo si colorò di hovercraft neri e ostili, oscurando persino il sole, e da alcuni di essi cominciarono a piovere piogge di proiettili. Le grida aumentarono anche all’interno delle mura, Klaus e London riuscivano a sentirle anche da quel luogo isolato. O meglio, luogo che credevano isolato, fin quando un Pacificatore spuntò improvvisamente alla loro destra. 
« Fermi! » gridò, puntando la sua pistola addosso alla ragazza.
Klaus pensò che quel Pacificatore fosse davvero stupido, perché si gettò su di lui ancora prima che quello potesse accorgersene. Un proiettile partì dalla canna, ma finì molto lontano dalla loro portata. Klaus era molto più alto di lui, per cui riuscì a stenderlo a terra dopo una breve colluttazione e a bloccargli le mani con una stretta ferrea. In un lampo gli rubò la pistola, digrignando i denti e sferrandogli, dopo, una ginocchiata nello stomaco.
Avvenne tutto molto velocemente: strinse la pistola tra le dita e l’avvicinò al petto del Pacificatore che mormorava parole e imprecazioni incomprensibili, forse per minacciarlo, ma sparò ancora prima di rendersene conto.
London indietreggiò, mentre la tuta bianca del Pacificatore si colorava di rosso scuro, rosso cremisi, e nell’aria si librava un odore metallico e pungente. Sangue. Il Pacificatore smise di respirare nel giro di pochi secondi.
Klaus lasciò cadere la pistola a terra.
L’aveva ucciso.

Klaus si gettò insieme alla sua spada sull’erba bagnata, proprio sulla riva del fiume, accanto al cadavere del ragazzo che aveva appena ucciso. Non sapeva nemmeno chi fosse. Guardò il numero sulla sua maglia imbrattata di sangue: riportava, scritto in bianco, il numero Sette. Non ricordava nemmeno il suo nome, eppure era certo che il suo volto l’avrebbe perseguitato per sempre. Di notte, di giorno… nessuna differenza.
Klaus non aveva mai ucciso nessuno. Doveva già considerarsi fortunato se alla Cornucopia non gli avevano staccato la testa e non l’avevano fatta rotolare per un pendio. Quelli erano gli Hunger Games: si vince o si muore. E lui non voleva morire, ci teneva così tanto alla sua stupida e inutile vita che non sapeva nemmeno di cosa avesse paura. Quindi avrebbe dovuto uccidere per vincere; niente di più semplice.
Si guardò le mani colorate di rosso e si affrettò a sciacquarle nel fiume, fissando con occhi sconvolti il sangue che defluiva dalle sue dita e si disperdeva nell’acqua fredda e cristallina. Si bagnò anche la faccia, forse per cancellare l’immagine di quel ragazzo ormai supino a qualche metro di distanza da lui, ma non servì assolutamente a nulla.
L’aveva ucciso.
Mors tua, vita mea. Lui era morto, Klaus era vivo.
Quanto aveva importanza in quel momento?
Klaus alz
ò gli occhi al cielo finto coperto da poche nuvole finte e trapunto di stelle e costellazioni altrettanto finte. Lo stavano guardando, a Capitol City, seduti sui loro comodi divani di pelle? Le avrebbero guardate spegnersi tutte, quelle ventitré vite?
Klaus desiderava essere quella ventiquattresima vita – il vincitore – con tutto se stesso, ma capì che uccidere non gli avrebbe dato alcuna soddisfazione, esattamente come impartire torture o gioire della dipartita altrui. Uccidere l’avrebbe segnato più di qualunque altra cosa, più della paura della morte.
Klaus non voleva uccidere.


Probabilmente altri Pacificatori vicini sentirono lo sparo perché in pochi istanti si ritrovarono accerchiati da quattro di essi, tutti con le armi puntate su di loro.

« Non ti azzardare a prendere quella pistola » disse uno di loro a Klaus, indicando con un cenno del capo l’arma che lui aveva fatto scivolare a terra poco prima. « Sappiamo chi sei » proseguì, avvicinandoglisi piano con la propria pistola sempre alzata. « Togliti pure quel cappuccio, Klaus Wreisht. »
Klaus non obbedì, ma il Pacificatore, coperto dagli altri tre, continuò a girargli intorno.
« Sono mesi che a Capitol ti cercano, che fine hai fatto? » gli domandò con voce sarcastica. « Sai, sei mancato tanto a tutti. »
Il ragazzo stirò le labbra, mentre il suo sguardo si spostò disperatamente su London, in piedi poco lontano da lui.
Il Pacificatore, seguendo la direzione del suo sguardo, fece un cenno ai colleghi. 
« Sì, lei uccidetela pure. »
Klaus scattò in avanti, parando il corpo di London con il proprio. « No! » gridò, in panico.
L’uomo scosse la testa con ironia, mentre un altro attirava London a sé e le bloccava le mani dietro la schiena. La ragazza provò a dimenarsi, ma quello le puntò la pistola ad una tempia, spegnendo ogni suo tentativo di fuga.

« Un’ultima preghiera, vincitore del cazzo? » domandò il Pacificatore, puntando la pistola carica alla fronte di Klaus.
« Fermo, aspetta! » urlò uno dietro di lui, spingendolo ad abbassare l’arma. « Non sarebbe meglio portarlo a Capitol? E’ quello che è scappato, no, Wreisht? Ci serve, ci daranno una ricompensa! »
Klaus non si mosse, spostando lo sguardo dai Pacifiatori davanti a lui a quello che tratteneva e minacciava London con un’altra pistola. Se avesse osato fare qualcosa, quello le avrebbe sparato. Non poteva permettersi di fare alcun movimento, sembrava che l’avrebbe pagata cara anche per il solo fatto di respirare. « Aspettate… » provò a dire, sudando più freddo che mai, ma la sua voce risultò solo un veloce sibilo che venne coperto dalla replica del primo Pacificatore.
« E Capitol sia » disse, e Klaus giurò che sotto il casco della divisa stesse ghignando crudelmente. « Della mogliettina, qui, cosa ne facciamo? »
London emise un ringhio basso, come una preda intrappolata che non si arrende, ma il Pacificatore continuò a tenerla ferma, con la canna della pistola appoggiata alla tempia. 
« Gli farà compagnia » disse il collega, « e gliene farà anche quando saranno morti entrambi. »
Klaus avrebbe voluto fare qualsiasi cosa, anche solo sputare addosso uno di loro, ma un improvviso dolore lanciante dietro la nuca lo fece prima barcollare e poi cadere a terra privo di sensi, con il volto sul pietrisco e l’eco di un grido di London nella testa.
E poi venne il buio.
Un buio ben diverso da tutte le tenebre che si potessero immaginare, il buio della sconfitta e dell’umiliazione, il buio di chi sta per perdere ogni cosa. Era il principio di qualcos’altro, di un buio ben più reale di quanto potesse anche solo pensare. E quel buio sarebbe stato pieno di lacrime e dolore, quel buio avrebbe soffocato ogni cosa.
In quelle tenebre non vigevano regole, non esisteva un “si vince o si muore.”
Quello non era un gioco. Quella era la guerra.


 










   
 
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