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Autore: Ivola    05/05/2014    3 recensioni
Le storie di Panem sono varie e numerose. Avete mai sentito parlare dei promessi del Distretto 6, quei due ragazzi che avrebbero fatto di tutto pur di ammazzarsi a vicenda e non sposarsi? Loro sono solo una sfocatura, come tanti altri.
Klaus e London. London e Klaus.
Un altro matrimonio combinato, le persone sbagliate, un cuore solitario, e tutto ciò che (non) può essere definito amore.

▪ VI: « Che cosa mi stai facendo? » ansimò la ragazza, tentando di aggrapparsi alle sue spalle. Era decisamente una domanda stupida, visto che era piuttosto evidente cosa il ragazzo stesse facendo. [...]
Klaus non si degnò neanche di rispondere, ben concentrato a muoversi sul suo corpo con gli occhi distanti e le labbra socchiuse. Non aveva né la voglia né la forza di ribattere, per cui la zittì con un bacio rabbioso. « Taci » le sussurrò, corrugando la fronte e mantenendo le labbra a pochi centimetri dalle sue nel caso London avesse deciso di parlare ancora.

▪ XIII: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare.
[...]
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
Capitoli:
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Note: Stranamente sto aggiornando nell'arco dei quindici giorni. Comincio a farmi paura per questa inusuale puntualità.
Prima che me ne dimentichi, vorrei pubblicizzare la mia pagina facebook, giusto perché mi capita di mettere spoiler/indizi/anteprime di Blur ogni tanto. Ecco qua ->  The bumblebee • Ivols fanwriter
Quanto è cambiato Klaus, comunque, oddio çwç Sapevo che questo momento sarebbe arrivato, eppure l’ho visto crescere di pagina in pagina, l’ho visto cambiare parola dopo parola… e ciò mi uccide, perché i guai di questi tizi non finiscono mai, come i Rotoloni Regina, pertanto il suo carattere non finirà mai di mutare. Esattamente come quello di London, ma di lei parlerò poi, anche se è proprio la figura centrale di questo capitolo.
Il “flashback” non è un vero e proprio flashback, ma l’ho messo in corsivo per motivi che saranno chiariti in seguito, troppo fluff, forse. E poi credo sia il momento che tutti stavano aspettando(?). Io, almeno, sì, anche se l’avevo già scritto secoli or sono. Preciso che tra il suddetto flashback e il paragrafo prima di esso c’è un salto temporale di circa due anni. Viene spiegato, ma comunque ci tenevo a specificarlo :3
Probabilmente questo è il capitolo più lungo di tutti, e uno dei più ricchi. I prossimi sono tra i miei preferiti, credo, ma non aggiornerò molto presto perché maggio sarà un mese veramente lungo e pieno.
Avrete sicuramente notato che da un po’ di tempo a questa parte sto mandando messaggi d’aggiornamento a coloro che hanno inserito la storia tra le preferite/ricordate/seguite [27, 5 e 45… vi adoro, sul serio]. Nel caso non voleste più riceverli, basta dirmelo :)
Niente… Valhalla e Kathy La Svergognata vi salutano ♥
Si ringrazia Mito che ogni tanto mi beta qualcosa, visto che ultimamente è stata da me per quattro giorni e siamo andate al Comicon assieme, oltre ad esserci fatte tante selfie stupide (ci tengo a precisare che per me la parola selfie è femminile) e tanti video altrettanto stupidi (o forse no?) che l’iPad non mi farà caricare. Detto ciò… è finito il vino (cit.).
Buona lettura ♥

Il titolo del capitolo viene da "Grace" di Jeff Buckley. 

Questo banner appartiene a me, ©Ivola.







 








 





















Blur

(Tied to a Railroad)






021. Twenty-first Chapter – My fading voice.




Il primo mese a Valhalla era trascorso senza troppe complicazioni. Klaus aveva imparato a capire che le occasioni della vita dovevano essere colte al volo, al di là dell’orgoglio. Così aveva accettato l’aiuto di quella che aveva scoperto essere sua sorella e aveva subito deciso di acconsentire a lavorare con lei quando gliel’aveva proposto. Dalle stelle alle stalle, avrebbe detto qualcuno. Eppure a Klaus non importava più niente; certo, fare il cameriere e prendere le ordinazioni ai tavoli non lo entusiasmava come essere seduto a uno di quegli stessi tavoli, ma bastava soltanto stringere un po’ i denti per sopportare quella sorta di umiliazione. Era la prima volta che provava seriamente a guadagnarsi del denaro da solo e, da un lato, si sentiva soddisfatto.
Oltre che per il lavoro, incontrare Käthe era stata una vera fortuna dal momento che aveva lasciato loro senza problemi una delle case che le erano state date in eredità dal comune dopo che lei era risultata essere l’ultima discendente dei Wreisht a Valhalla.
Non dovevano pagare un affitto e London aveva tempo da perdere durante la giornata sbrigando le varie faccende domestiche e provando imperterritamente ad insegnare la lingua dei segni a Klaudia, che già aveva fatto moltissimi progressi.
Dopo molteplici e vani tentativi, stavano riuscendo a costruirsi una vita normale. Forse non era un sogno, forse la normalità si era finalmente insediata dentro di loro. O forse aveva semplicemente mascherato bene tutto il resto.
 

*


Il letto era caldo e accogliente. London era rintanata sotto le coperte ed era abbracciata al corpo ugualmente caldo di Klaus, che sembrava in costante dormiveglia, come se non potesse mai sul serio addormentarsi del tutto, con le labbra socchiuse e il petto che si alzava e abbassava appena. Per nulla al mondo si sarebbe voluta alzare, eppure si scostò le lenzuola di dosso come se gliel’avesse ordinato una forza esterna e se non l’avesse fatto era certa che sarebbe accaduto qualcosa di brutto.
London non vedeva niente, non riusciva a guardare oltre il suo stato di incoscienza e nemmeno quando poggiò i piedi nudi a terra, sul pavimento freddo, riuscì a svegliarsi.
Si mosse furtivamente nella camera da letto, sbattendo un fianco contro la cassettiera di legno. Gemette di conseguenza, ma badò al dolore solo per un minuscolo istante.
Anche aprire la porta non fu difficile. Sembrava ipnotizzata: aveva gli occhi aperti e, un passo dopo l’altro, tentava di scendere al piano di sotto. Una voce nella sua testa la guidava e l’aiutò a non farla cadere gradino dopo gradino.
Cucina, vai in cucina.
Era la propria voce, ne era certa, tuttavia aveva qualcosa di diverso e non osava immaginare cosa sarebbe successo se le avesse disobbedito.
Tutto ciò che vedeva era buio. Buio davanti a sé, buio nella sua testa, buio dentro il suo petto. Solo dopo qualche secondo cominciò a scorgere qualcosa, ma non era sicura che fosse qualcosa di reale. Come un’allucinazione che prendeva forma nella sua mente con il passare dei secondi. Iniziò a intravedere quella che sembrava un’altra camera da letto, ma di sicuro non era la sua perché aveva un letto singolo, le pareti azzurrine, decorate da alcuni quadri, un’ampia porta-finestra che dava su un balconcino privato… Le ci volle qualche istante per riconoscerla del tutto. Era la camera di Ben. Mancava soltanto lui.
London inciampò nei suoi stessi passi e giunse in cucina caracollando, sostenendosi al muro per non cadere. Il cuore cominciò a batterle molto più velocemente e, per qualche motivo a lei sconosciuto, non si trattava di una bella sensazione.
Dov’è Ben?
Quella stanza era troppo vuota, c’era troppo silenzio, troppa tensione che aleggiava nell’aria. London provò a guardarsi in giro, ma quella sorta di allucinazione le permetteva una visuale estremamente ristretta. Qualcuno all’improvviso cominciò a bussare alla porta, che aveva tutta l’aria di essere chiusa a chiave, e lei sobbalzò.

« Benjamin! » urlò una voce che lei riconobbe come quella di sua madre. « Fammi entrare! Fammi entrare subito! »
Il cuore le salì in gola. Sua madre chiamava Ben, ma Ben non era in quella stanza. Cominciò a respirare velocemente, come se le mancasse l’aria o faticasse a immagazzinare l’ossigeno nei propri polmoni. Spostò lo sguardo nella penombra della camera, finché non si accorse di un corpo che non aveva notato prima, steso a terra, a pancia in giù. Il suo stomaco si contrasse con violenza.
Apri il cassetto delle posate, le ordinò intanto quella voce trascendente. London non l’ascoltò, concentrandosi sul corpo. Gli si accucciò accanto e lo fece voltare verso di lei.

« Benjamin! » continuò a gridare Erzsébet. « Ti prego! »
Apri il cassetto!
Era suo fratello. Era lì, con gli occhi serrati e le labbra schiuse, come quelle di Klaus quando si addormentava. Ma il suo petto, a differenza del marito, era immobile. E la maglietta era intrisa di sangue fresco. L’odore le giunse alle narici ancor prima che si potesse rendere conto di ciò che stava vedendo.
Un grido d’orrore le rimase attanagliato in gola, gli occhi le si spalancarono nel vuoto.
APRILO!

« Apri la porta! »
« Va tutto bene, London » disse qualcun altro, facendola sobbalzare. Si girò verso la fonte di quella voce e ciò che vide la lasciò ancora più sconvolta e atterrita di quanto aveva fatto il corpo esanime del gemello sul pavimento. « Sei al sicuro » sorrise un altro Benjamin, di un sorriso storto. Era seduto sul letto e la guardava come si guarda un condannato a morte.
London lasciò andare quell’urlo terrorizzato che aveva trattenuto fino a qualche istante prima.
London credette di aver visto la morte in faccia; sembrava che tutto il dolore del mondo avesse preso possesso di lei e minacciasse di distruggerla in un fugace battito di ciglia.
London, senza neanche accorgersene, fece quanto richiesto dalla voce e recuperò a tentoni la prima posata che le capitò sotto le dita esili. Un coltello.


 
*


Qualcosa lo fece svegliare di colpo. Klaus si alzò di scatto a sedere sul materasso e sgranò le iridi scure nel buio della notte. Non sapeva se era stato un incubo, ma aveva una bruttissima sensazione addosso, come se l’angoscia gli stesse stringendo la gola con le sue mani vellutate.
Notò subito che London non c’era. Capitava spesso che lei di notte si alzasse per andare a prendersi un bicchiere d’acqua e lui non aveva mai capito perché non portasse la bottiglia con sé già prima di andare a dormire. Scosse la testa e si passò una mano sul volto. Non aveva nulla di cui preoccuparsi. Se l’era solo immaginato.
Si lasciò ricadere sul letto, inerte, guardando il soffitto bianco della camera. Chiuse gli occhi, aspettandosi di sentire il calore del corpo di London entro breve accanto a sé. E invece non successe niente. L’altro lato del letto rimase vuoto per molti minuti, così tanti che Klaus cominciò a pensare che la moglie fosse annegata in quel bicchiere d’acqua.
Fu più forte di lui: abbandonò le morbide coperte con uno sbuffo e si decise a scendere le scale. In ogni caso, non avrebbe preso sonno finché non l’avrebbe avuta addormentata e al sicuro vicino a sé.
Attraversò il corridoio del piano superiore e scese i gradini uno alla volta, già scocciato di dover essersi scomodato per vedere cosa stesse facendo London. Sorrise sarcasticamente al pensiero. Che cosa non si fa per un Bridge in grave pericolo, si disse, sospirando.
Qualche secondo più tardi, trovò London in cucina.

« Oh, ma cosa stai-? » cominciò a domandare, varcando l’uscio della porta, quando si accorse dell’oggetto che la moglie teneva in mano. Era immobile, sembrava reggersi in piedi a stento ed era così pallida che avrebbe fatto invidia ad un fantasma. E stringeva un coltello tanto forte che le sue nocche erano sbiancate visibilmente. Aveva lo sguardo perso nel vuoto e si puntava la lama al ventre. La sua mano tremava, ma le intenzioni erano chiare.
Klaus non ci pensò neanche due volte e si scagliò su di lei con uno scatto, terrorizzato all’idea che London potesse accoltellarsi in preda a chissà cosa.

« Fermati! » gridò, gettandosi sul suo corpo senza nemmeno riflettere sul fatto che così facendo si sarebbero potuti ferire. Caddero a terra l’uno sull’altra, Klaus che stringeva il corpo della moglie per frenarla da quell’impulso improvviso, scosso almeno quanto lo sembrava lei. Il coltello, fortunatamente, finì lontano sulle piastrelle del pavimento.
London sembrò ridestarsi per la botta e il suo sguardo assente svanì l’istante successivo, lasciando spazio, però, a un’espressione che Klaus era certo non avrebbe mai dimenticato.
L’urlo improvviso della ragazza gli fece ghiacciare il sangue nelle vene. Prese a dimenarsi, come se lui fosse un estraneo con intenzioni tutt’altro che positive, e continuò a gridare. Urlava così tanto che avrebbe potuto svegliare tutto il vicinato, perciò fu costretto a tapparle la bocca con una mano.

« London, ascoltami! » provò a dirle, ma lei sembrava più sconvolta che mai, tremava da capo a piedi e aveva le pupille dilatate dalla paura. « Era solo... un incubo, London, solo un incubo » mormorò, mentre lei cominciava a piangere e a dimenarsi sempre di più; alla fine riuscì a liberarsi dalla stretta di Klaus e strisciò a terra in direzione della parete, dove si appoggiò con la schiena.
London si coprì il volto con le mani e accompagnò le lacrime con una serie di singhiozzi straziati, quasi come se avesse visto la morte con gli occhi e ne fosse rimasta traumatizzata.
Klaus le si avvicinò e le si accucciò accanto, sfiorandole una spalla. 
« London… »
« NO! » strillò, scostandosi bruscamente da lui. « Non toccarmi! »
« London, sono io » fece il marito, alzando le mani in segno di resa, turbato da quella reazione.
London sembrò rendersene conto solo in quel momento, perché prese a guardarlo con occhi diversi. 
« E’ successo qualcosa a Ben » annaspò, stringendogli una mano intorno al polso. « E’ successo qualcosa a Ben! » ripeté, forse per convincerlo di quella tesi.
Klaus la aiutò ad alzarsi e, dopo che lei si rimise in piedi con difficoltà, la strinse al petto senza dire nulla. London si abbandonò e pianse altre lacrime sulla sua spalla, certa che quella non era stata soltanto un’allucinazione o un incubo.

« E’ successo qualcosa a Ben... » disse ancora, come se il disco delle sue parole si fosse rotto.
« No, London » le rispose Klaus, poggiandole una mano dietro la nuca e accarezzandole piano la testa. « Era soltanto- »
« Non mi credi! » esclamò lei, con un altro singhiozzo. « E’ mio fratello gemello… tu non capisci… »
« D’accordo, non capisco » acconsentì. « Ma non possiamo dire con certezza che gli sia successo qualcosa. »
« Ma io l’ho visto » protestò London, « era morto! Morto, hai capito? Morto! »
Klaus non rispose niente ancora una volta. Piuttosto, le spostò una sedia dal tavolo e la fece sedere lì. « Ti preparo una camomilla. »
La ragazza non si arrese. « C’era un altro lui seduto sul letto… e mi ha sorriso… »
« Un altro lui? » ripeté il marito.
London si accorse che il suo ragionamento vacillava. Se gli era davvero successo qualcosa, allora perché c’erano due Ben in quella stanza? Tuttavia, al di là delle lacrime fredde che le bagnavano le guance e che le ottenebravano la capacità di ragionare lucidamente, London sapeva che quella visione non l’aveva avuta per caso e, inoltre, non ricordava di aver mai sognato una cosa del genere. Si guardò le mani tremanti e pensò a come aveva stretto il coltello fino a qualche minuto prima. Cosa avrebbe fatto, se Klaus non ci fosse stato? Si sarebbe… uccisa?
Quel pensiero le fece scendere altri brividi lungo la schiena. Lei non aveva mai desiderato di morire, neanche lontanamente, neanche per sbaglio. Sperò che Klaus preparasse in fretta quella camomilla, almeno le avrebbe fatto fermare quell’insopportabile tremito. 
« Non so cosa mi sia preso… » ammise in un sussurro, guardando di sottecchi il coltello abbandonato sul pavimento. Era uno di quelli lunghi e affilati, adatti a tagliare il cibo più calloso.
Klaus seguì la direzione del suo sguardo e si affrettò a togliere quella lama dalla loro vista. 
« E’ tutto finito, adesso » le disse.
London, suo malgrado, non gli credette nemmeno per un attimo.

Da quanto tempo stava così? Da quante ore, giorni, settimane? London non se lo ricordava più. Aveva provato a ricordarsi di quanto fosse bella la vita, di come tutto stesse finalmente migliorando, ma tutto ciò che riusciva a pensare era il buio del suo incubo.
Si sentiva come strappata dalla realtà, come se una parte di sé fosse rimasta in camera con Ben – accanto a quello vivo o morto non aveva importanza.
London non riusciva più ad essere ottimista. La sua mente non riusciva a colmare il vuoto che si era creato dentro di sé, le sembrava che il filo che la legava ancora a suo fratello fosse stato tranciato di botto da un paio di forbici con le lame affilate. Non lo sentiva più, non sentiva più niente che la facesse essere ancora connessa a Ben.
Una rottura, una rottura brusca e improvvisa. Ecco cos’era stata, quella visione.
Era annegata in un mare senza l’acqua che potesse sommergerla.
Si strinse il cuscino al petto e aspettò che Klaus si stendesse accanto a lei, paziente.

« Come ti senti? » le sussurrò lui, infilandosi sotto le coperte.
London non gli rispose, ma si lasciò cingere dalle sue braccia salde e, anche se non si addormentò né avrebbe provato a farlo, rimase così tutta la notte, con i pensieri volti a Panem, al mondo che si era lasciata alle spalle e al fratello che aveva abbandonato senza ombra di spiegazione.

 

*


Un bacio. Labbra bramose, mani tra i capelli, respiri che si contaminavano.
Klaus non ricordava più quanto fosse bello fare l’amore con London, era passato veramente tanto tempo dall’ultima volta e quasi ne sentiva una mancanza fisica, come se abbracciare il corpo nudo della moglie tra le lenzuola fosse l’idea più vicina alla perfezione che potesse immaginare. E se secondo alcuni la perfezione non esisteva, si era detto, allora non avevano mai provato a guardare più a fondo nelle piccole cose. Come un bacio, un “buonanotte” sussurrato alle prime luci dell’alba, un intreccio di mani e corpi che si cercavano a vicenda, uno scontro di sguardi penetranti e lascivi, un sorriso spontaneo.
Tutto quello era
perfezione, e Klaus non desiderava nient’altro.

« A che stai pensando? » gli chiese London improvvisamente, girandosi verso di lui. Klaus le accarezzò una spalla e alzò gli angoli le labbra. « A quanto mi era mancato tutto questo. » Le sue dita passarono ad esplorarle una guancia e lei chiuse gli occhi a quel tocco leggero e familiare al contempo. Non rispose nulla, forse perché era rimasta ammutolita dalla sincerità del marito, quando lei era stata sempre la prima a mentire tra i due. Era così difficile abbattere le barriere, eppure Klaus ci stava riuscendo, mentre London era rimasta a metà strada, in bilico tra bugie e verità.
« Hai freddo? » domandò lui piano, con una nota dapprensione forse fin troppo evidente per i suoi canoni.
« Un po’ » rispose, e il suono soave della sua voce fu accompagnato da un fruscìo del lenzuolo. Klaus si alzò dal letto e si apprestò a chiudere la finestra semiaperta, rabbrividendo per la brezza fredda che gli accarezzò il corpo nudo e illuminato dai deboli raggi lunari.  
« Meglio » mormorò London, facendo cenno allaltro di tornarle accanto; lui si stese nuovamente sul letto, coprendosi con le coperte morbide.
Gli istanti successivi furono occupati da un dolce silenzio, tuttavia colmato dagli sguardi. Indagatori, attenti, comprensivi. Si osservavano negli occhi placidamente, senza nessun segno di odio o rancore. Stesi l
uno accanto allaltra, si sfioravano appena e Klaus le portò una ciocca di capelli bianchi dietro lorecchio, riuscendo a vedere bene come lei si beò anche di quel breve contatto.

« Baciami » sussurrò London, così piano che sarebbe stato difficile sentirla. Ma Klaus la sentì e la baciò, sorridendo lievemente. Ciò nonostante, si allontanò di poco dopo qualche secondo.
« Cosa c’è? » gli chiese, cogliendo la sua esitazione.
Il ragazzo si alz
ò su un gomito e la guardò in silenzio. 
« London » bisbigliò, con un tono diverso da tutti gli altri che lei aveva sentito rivolgerle.
Lo osserv
ò, in attesa, con un cipiglio vagamente confuso. 
« Cosa? »
« Io… » tentennò Klaus, come cercando il coraggio per continuare negli occhi della moglie. « Ti amo » disse infine, semplicemente. « Sono stato un bugiardo per tutto questo tempo. » Non era mai stato bravo con le parole, eppure a London si illuminarono gli occhi e prese a guardarlo con un leggero sorriso ad incresparle le labbra. Lei non gli avrebbe mai risposto, e non perché non lo amasse, ma soltanto perché era troppo orgogliosa per ammetterlo. E forse Klaus lo sapeva perfettamente, perché si lasciò baciare e sovrastare dal corpo sinuoso della ragazza, che salì a cavalcioni su di lui, ridacchiando.
« Lo so, idiota » disse London. « Credo di averlo sempre saputo. » Allora si abbassò sulle sue labbra e lo baciò, ancora. Avrebbe voluto continuare a baciarlo per tutta la notte.

Due anni. Due anni passati a nascondersi dal mondo.
London se ne rese conto guardando Klaudia che giocava con le sue bambole in giardino, facendo prendere loro il tè. Era cresciuta davvero molto: era diventata più alta e per la sua ancora giovane età di cinque anni e mezzo mostrava già un’intelligenza non indifferente, forse sviluppata per compensare la mancanza d’udito. Non riusciva ancora a capacitarsi di come la figlia fosse in grado di capire perfettamente sia lei che Klaus, eppure ne era felicissima, oltre che estremamente orgogliosa. Se Ben l’avesse vista, in quel momento, ne sarebbe andato di sicuro fiero allo stesso modo.
Un sospiro triste le fuoriuscì dalle labbra a quel pensiero. Per quanto tempo fosse passato, non si era ancora abituata alla mancanza del gemello. Tuttavia, dopo quell’incubo non ne aveva più avuti altri e forse aveva imparato ad autoconvincersi che si fosse trattato soltanto di una semplice quanto inaspettata e terrificante allucinazione.
Per scacciare quell’orribile ricordo, s’immerse ancora una volta nella contemplazione di Klaudia. London, in quel momento, sola in casa poiché Klaus aveva il turno di pomeriggio al bar, era in cucina a lavare i piatti e teneva d’occhio la figlia tramite la finestra sopra il lavandino, che le permetteva una discreta visuale del cortile appena fuori l’ingresso. La bambina era seduta lì ad un tavolino e giocava indisturbatamente, ridendo con le sue bambole come se fossero state sue amiche in carne e ossa. Un velo di malinconia coprì ancora una volta i suoi pensieri. Chissà, si chiese, se Klaudia avrebbe mai potuto avere delle amiche vere. Nel suo caso avrebbe sicuramente fatto comodo un fratello o una sorella, ma attualmente lei e Klaus non erano in condizione di farle un tale dono, né lo sarebbero stati mai. 
Sorrise amaramente. Era capitato molte volte in quegli anni che un ritardo del mestruo la facesse sospettare di essere incinta, ma le sue speranze – in fondo era di questo che si trattava – erano sempre state deluse. Così sarebbe successo anche quella volta, in cui sembrava che la nausea e i giramenti di testa volessero prendere il controllo su di lei. Tutti falsi allarmi, naturalmente, come c’era da aspettarselo. Lei e Klaus non avrebbero mai avuto un figlio loro, doveva metterselo bene in testa.
Anche quando si guardava allo specchio e credeva di essere ingrassata o credeva che il seno le fosse diventato stranamente più sodo, si sfiorava la pancia con le dita, ma subito dopo accantonava il pensiero. Odiava illudersi da sola, del resto, per cui ormai non ci sperava neanche più.
Chiuse il getto dell’acqua e si asciugò le mani, dopodiché cominciò a riordinare le stoviglie appena lavate. 
Ecco, anche sua madre, che l’aveva sempre voluta vedere come una perfetta donna di casa, sarebbe stata fiera di lei adesso. Tutti, forse, nell’intero Distretto Sei lo sarebbero stati. London era cambiata, lo sentiva come mai prima d’ora. Sentiva di essere diversa, di star diventando pian piano una persona migliore, anche se in fondo al suo cuore sarebbe sempre rimasta la ragazza viziata e impertinente che era un tempo. Un tempo che, a pensarci, le sembrava lontanissimo.
Finì di sistemare in pochi secondi i piatti e le posate, ma, prima che potesse raggiungere Klaudia in cortile, sentì il telefono squillare. Era un apparecchio che London non aveva mai sopportato, ma da quando si erano trasferiti a Valhalla aveva dovuto farci l’abitudine perché lì lo usavano molto più che a Panem.
Dalla finestra lanciò una veloce occhiata alla figlia, convincendosi che in quel breve lasso di tempo che l’avrebbe persa di vista non sarebbe accaduto niente perché il cancello che separava il giardino dalla strada era chiuso e Klaudia non era così incosciente da scavalcare e uscire, dopodiché si decise a rispondere. Giunse nel salotto in men che non si dica e alzò la cornetta del telefono a muro, vecchio almeno di una cinquantina d’anni.

« Pronto? »
Dall’altra parte della linea arrivarono delle parole frammentate e sconnesse, disturbate da un rumore di sottofondo.
« Chi parla? «» insistette lei, premendosi meglio il telefono sull’orecchio. A quelle parole la risposta fu identica e incomprensibile. London fu costretta a riattaccare con uno sbuffo. Lei lo sapeva, che quegli aggeggi erano inutili.
Fece per tornare in cucina, ma prima di varcare la soglia della porta il telefono squillò ancora una volta. Si precipitò a rialzare la cornetta.
« Pronto? » riprovò, con una nota più acida nel tono di voce. La replica non arrivò esattamente come qualche istante prima, così lei perse la pazienza: « Si può sapere chi è, dannazione? »
Forse era semplicemente qualcuno che voleva farle uno scherzo di cattivo gusto, per cui riattaccò senza nemmeno aspettarsi che il misterioso interlocutore rispondesse davvero.
« Bene! » esclamò, irritata, sbattendo di nuovo la cornetta al suo posto. Lasciò il salotto velocemente, dirigendosi in giardino per spiegare a Klaudia che era ora di rientrare.
Quando aprì la porta principale di casa, ancora prima di riuscire a capire cosa non andasse, una strana sensazione la investì di botto. Uno strano fastidio alle tempie, come se qualcuno la stesse osservando da lontano. Si guardò intorno e non vide nessuno. Fu sul punto di tirare un sospiro sollevato, quando si rese conto che la parola “nessuno” suonava fin troppo estranea nella sua testa; le rimbalzò da una parte all’altra della mente, ampliandole di conseguenza quel vuoto improvviso nel petto.
Nessuno. Nel cortile non c’era nessuno.
A eccezione di due bambole di porcellana cadute sull’erba.
 

« Klaudia? »
La voce le uscì così tremante che London stessa se ne spaventò. Il cortile era talmente desolato che sembrò eguagliare quella sensazione dentro il suo petto. Le gambe le vacillarono. Klaudia non cera.
La sua reazione fu repentina: si voltò di scatto e rientrò in casa, cominciando a cercare in tutte le stanze come un’ossessa, correndo affannosamente per spostarsi da una camera all’altra, vuote dalla prima all’ultima.
Forse era rientrata da sola e non se n’era accorta. Forse era troppo impegnata a insultare mentalmente l’interlocutore anonimo del telefono per essersi accorta della porta principale che sbatteva. Doveva essere così, per forza. Non riusciva a pensare ad altre alternative.

« Klaudia! » urlava, intanto, spalancando tutte le porte che le capitavano a tiro. Anche al piano di sopra la corsa fu inutile. Non c’era nessuna traccia della bambina.
L’aria cominciò a venirle meno, il cuore cominciò a batterle all’impazzata, come se ogni battito od ogni respiro fosse una violenta stilettata al petto. 
« Klaudia, tesoro! »
Dannazione, non mi può sentire!, pensava intanto, con la poca dose di lucidità che le era rimasta. Scese nuovamente le scale e si precipitò una seconda volta in cortile, dove non era cambiato un solo filo d’erba.
London si fiondò sul cancello senza pensarci due volte, con il cuore in gola, e solo allora si accorse che le sbarre erano state bloccate da una spessa catena di ferro, il cui lucchetto si trovava dalla parte opposta.
Le lacrime cominciarono a pungerle gli occhi ma non riuscì a versarle subito perché la paura era ancora più forte della disperazione.
Dov’è, maledizione, dov’è?!
Iniziò a collegare solo in quel momento. Le due telefonate erano state un diversivo per allontanarla dalla bambina; in quel lasso di tempo qualcuno si era intrufolato in giardino, aveva preso Klaudia e, dopo aver bloccato il cancello per rallentare London, l’aveva portata via con sé. Non era difficile da immaginare.
Lhanno rapita. Quel pensiero le rimbombò nel cervello, così tanto che lei prese a scuotere violentemente il cancello pur di farlo aprire, ma quello naturalmente rimase ben chiuso. 
« Apriti, cazzo, APRITI! » urlò, ancora più furiosa per l’irrisorio tintinnare della catena contro le sbarre. Diede un calcio ad una di queste, ma non successe niente.
Ai lati dal cancello c’era un muretto di pietra, alto quasi più di un uomo di media statura. Dietro la casa c’era un’altra uscita, ma prendendo quella strada avrebbe perso molto più tempo. Seguì l’istinto disperato e aggrappandosi all’edera rampicante che cresceva intorno al muretto, si arrampicò fino in cima.
Scendere sarebbe stato ancora più facile, se solo London per la fretta non fosse scivolata sulla pietra. La caduta fu, probabilmente, una delle cose più dolorose che avesse mai provato. Cadde sull’asfalto della strada con una velocità di cui lei neanche si accorse, finendo con il volto rivolto al terra. Rimase completamente stordita per qualche minuto buono; la vista le si appannò e un dolore lanciate alla caviglia destra le fece sopprimere a stento un grido.
Non poteva fermarsi così. L’asfalto della strada le pungeva una guancia e la sua mente non aveva abbastanza forze per ordinarle di alzarsi, senza contare che il dolore alla caviglia era talmente prepotente che pensò di essersela spezzata.
Si rimise in piedi dopo troppo, troppo tempo, aggrappandosi ancora una volta al muretto per sorreggersi. Cominciò a zoppicare per la strada, ignorando il dolore e proseguendo a denti stretti. Le lacrime che prima le si erano formate alla base delle ciglia premevano per sgorgare come cascate, ma London continuò a mordersi le labbra per ignorare qualsiasi cosa che la facesse distrarre dal pensiero della sua bambina rapita. Una raffica di domande si materializzava e annullava nella sua testa ogni secondo.
Dove l’avevano portata? Perché l’avevano rapita? Cosa le avrebbero fatto? Volevano un riscatto? Ma perché architettare un piano così elaborato? E perché proprio Klaudia e non un’altra bambina?
Dopodiché, tornava a concentrarsi sulla ricerca, che era la cosa più importante in quel momento; le domande potevano aspettare.
Era il primo pomeriggio, motivo per il quale non c’era molta gente per strada. Tuttavia, appena London scorse un passante che camminava accanto al viale alberato della sua via, gli si fiondò contro, quanto più veloce le era possibile per la caviglia – slogata o rotta che fosse.

« Ha visto… sie hat…? » balbettò, passando da una lingua all’altra per l’agitazione, già ansante per lo sforzo. L’uomo, nel vederla in quello stato, provò a cambiare direzione, ma infine, seppur con uno sguardo sospettoso, le disse: « Cosa tu vuoi? »
London gli strinse una spalla con la mano, spalancando gli occhi su di lui. « Ha visto una bambina con i capelli bianchi in giro? » domandò tutto d’un fiato. « Ha circa sei anni… è alta più o meno- »
« Io non ho visto no bambina, mi dispiace » rispose l’uomo, scrollandosi la ragazza di dosso e riprendendo a camminare. London digrignò qualche insulto tra i denti e continuò a caracollare per la strada, alternando un piede all’altro con un’espressione sofferente. Cercò di essere il più veloce possibile, ma in quel momento la cittadina le sembrava infinitamente grande e ostile, proprio come un qualche essere superiore che adesso sembrava avere tutta l’intenzione di calarle una scure sulla testa per tutti i suoi errori commessi nell’arco di una vita intera.
 
 
*
 

« E così, dopo averle guardato il culo giusto per accertarmi che non avesse anni di grasso accumulato al posto delle natiche, le ho chiesto se volesse uscire con me » spiegò Käthe, asciugando i bicchieri appena lavati con un panno pulito.
« E lei cosa ti ha risposto? » chiese Klaus, alzando gli occhi al cielo. « Che non ne vedeva l’ora? »
« Magari » ribatté la sorella, amareggiata. « Mi ha detto che non voleva ferire i miei sentimenti e che purtroppo le piaceva il fantastico gingillo che avete voi maschi. »
« Ha detto proprio così? » finse d’interessarsi Klaus.
« Il sunto è questo » rispose la maggiore con una scrollata di spalle, « tanto me la pagherà cara lo stesso. »
Il ragazzo la guardò con un sopracciglio alzato. « Non puoi molestare una tizia a cui hai chiesto di uscire dopo dieci minuti dall’averla conosciuta. »
« E tu, allora? » replicò Käthe con una smorfia di superiorità. « Vuoi contare tutte le volte in cui hai importunato London, solo che poi hai finito per innamorarti di lei come uno stupido adolescente in piena fase ormonale? »
Klaus le lanciò una fredda occhiata che bastò a farla tacere. Käthe sapeva di non poter toccare certi tasti, ma ogni tanto gli lanciava qualche provocazione per vedere se lui stesse al gioco. La differenza tra lui e la sua sorellastra, in effetti, stava semplicemente nel fatto che Käthe non era mai cresciuta.
E poi lo stupido adolescente dovrei essere io… si disse Klaus con un sospiro esasperato.

« Comunque London non è per niente male » aggiunse lei ridacchiando. « Se mai poteste essere interessati ad un rapporto a tre, fatemi sapere. »
« Spiacente, ma la merce non è in vendita » fece Klaus, lasciandole una sarcastica pacca sulla spalla. « Ritenta e sarai più fortunata. »
Käthe sbuffò. « Voi di Panem siete troppo all’antica… » cominciò, quando entrambi alzarono la testa allo sbattere della porta del locale, deserto a quell’ora. Sulla soglia comparve proprio London e quella, non appena li ebbe individuati dietro il bancone, si diresse verso di loro zoppicando.
L’espressione di Klaus mutò dall’annoiato all’allarmato nella frazione di un secondo.
« Che cosa è successo? » domandò, nel vedere la moglie in quello stato.
« Klaudia! » sbottò lei con un singhiozzo, gli occhi già rossi di pianto. « L’ho cercata ovunque… l’hanno presa… e io… » mormorò, versando altre lacrime e stringendo gli avambracci del marito come in una morsa. Sembrava stremata ma determinata al contempo.
Il ragazzo non chiese altro e, senza spiegare nulla a Käthe o al capo, sorresse London e insieme uscirono dal locale. Klaus non pretese spiegazioni e, intenzionato a chiedere ai passanti o a contattare le autorità, s’incamminò accanto alla moglie, ma dopo qualche secondo un boato proveniente da poco lontano li fece bloccare sul posto.
Si guardarono intorno, spaesati, poi alzarono gli occhi in alto.
Un hovercraft si alzò in volo in una porzione di cielo poco lontana a loro. Un hovercraft grosso, nero, minaccioso.
Un hovercraft con il simbolo di Capitol City.


















   
 
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