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Autore: FEDERICAIMBRIALE99    14/06/2014    0 recensioni
'Questa è la storia di un amore diverso. Diverso perchè lontano da tutte le forme di sentimento che si possono provare. Un amore così sciocco da poter essere paragonato al pianto di un bambino, così innocente da lasciarti pensare che non esista niente di più bello al mondo. Un amore che solo a raccontare fa venire i brividi, e che quando provi, non puoi fare a meno di riconoscere. Perchè questo è un amore debole, ma allo stesso tempo forte, la cosa più forte del mondo. Un amore debole, ma così forte da ignorare la sua debolezza per andare avanti e cercare di combattere, combattere veramente, fino allo sfinimento, fino all'esasperazione.'
So a cosa starete pensando: questa è un' altra classica storia d'amore. Vi sbagliate. Sono convinta che leggere di due persone che si conoscono senza chiedersi il nome o l'indirizzo, ma che si ritrovano magicamente il giorno dopo e s'innamorano, vi porti ad afferrare un concetto sbagliato. Leggiamo e guardiamo film su un sentimento all'apparenza così perfetto e innocuo e ci abituiamo a farci quest'idea dell'amore. Ma l'amore non sempre capita per caso, non è tutto rose è fiori. L'amore è diverso, come diversa è questa storia.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Ci sono sere, sere d’estate, in cui l’aria non sa d’altro che di malinconia. Oltrepassata quella finestra, in piedi, su quel balcone, stendi le braccia e come un fantasma ti lasci attraversare dal vento freddo che oltrepassa ed illumina ogni foro dell’anima. La cosa che più ti stupisce è che non è il vento in sé ad esser’ freddo: sei tu che sei fredda dentro. E quella massa d’aria, leggera, non è altro che un insieme di emozioni, le tue emozioni. Che ti lasci scappare pur non facendole scappare mai. E’ questo che succede quando reprimi un sentimento: se anche per un solo istante ti sembra di averlo lasciato andare per sempre, liberato nell’ aria, ecco che ritorna da te, come un’ondata di vento. Un vento d’estate: caldo, ma che rinfresca, anzi,  congela. E nel preciso momento in cui ti lasci attraversare di nuovo da quest’emozione, non ti senti più viva. E’ come se il tempo e lo spazio in un istante svanissero  e tu stessa con loro. Sei Morta. Non provi più niente, ad eccezione di una strana sensazione, la sensazione più brutta che si possa provare. Che non è tristezza, non è solitudine: è semplicemente rassegnazione. Il sentimento all’apparenza più innocuo di tutti alla fine può rivelarsi il più orribile, il più pericoloso. E’ terribile questa rassegnazione. Non senti più niente, non percepisci il mondo che ti circonda. Lassù, in alto: il cielo, la luna e le stelle. Ma vedi nero. Di fronte a te ci sono quegli alberi, gli alberi che profumano d’estate, che nascondono tante cose. Ma vedi la nebbia. Nell’aria: il rumore delle cicale, quello del vento contro le serrande. Ma non ascolti. Quel profumo di freschezza, di felicità. Ma non lo senti. Sei Morta. Non senti niente,se non la tua incapacità di non sentire. E non pensi a niente, se non a lui.
Lui, quasi non riesci a pronunciarlo il suo nome, tanta è la rabbia. O forse, più che rabbia è disgusto, o tristezza. Non lo sai nemmeno tu. E’ strano: l’unica persona in grado di capire quello che stai provando adesso ha perso ogni lume della ragione. Non sai cosa sta accadendo, non sai dove ti trovi, non sai perché. Hai perso la ragione, hai perso tutto, hai perso te stessa, perché hai perso lui. Nonostante pensi alla cosa che ti ha ferita di più al mondo, non riesci a stare male. O meglio, Stai male (ammesso che tu sappia ancora cos’è, lo stare male), ma non sei triste, non piangi. Non ci sarà nessuna lacrima questa volta, nessun’ singhiozzo. Niente lacrime. Insieme al corpo si  raffredda anche lo spirito, e allora anche le lacrime si raffreddano. E c’è talmente tanta confusione che ti ci perdi, in questa confusione, e alla fine ti arrendi, rassegnandoti alla tua rassegnazione. Non capisci. Non ti rendi conto. Non senti niente. Non puoi immaginare. Esattamente come me, quella sera. Non potevo immaginare. Non lo sapevo, non sapevo di trovarmi a casa mia, alle dieci di sera, sul terrazzo dell’undicesimo piano di un grattacielo della città di Pesaro, Provincia omonima, Marche, Italia, Europa, mondo. Non sapevo di essere lì, non sapevo di esistere. Non sapevo che, qualche minuto dopo, avrei cercato di porre fine alla mia inutile vita gettandomi proprio da quel balcone. Non c’era lucidità. Non avevo progettato niente prima. Era uno di quei momenti. In preda al panico, non capisci più niente. Sei come avvolta da un’enorme nube oscura. Ti addormenti, ma il tuo corpo è sveglio. Il cervello va in blackout. E’ quello che succede. Era già accaduto prima di allora, almeno una volta alla settimana mi trovavo in questo stato di incoscienza. Ma non mi era mai successo qualcosa di così grave. Mi ero persa, smarrita. Mi stavo autodistruggendo senza nemmeno saperlo. Ero come in coma. Il cervello, in quei momenti, non funzionava più. Non ero pazza: solo innamorata.
 
 Ed è stato allora che -23 Giugno 2013, ore 22.04-, in preda alla mia rassegnazione, mi sono seduta sul balcone, in attesa di buttarmi. All’improvviso, guardando giù, ho sentito il cuore stringere nel petto, e mi sono chiesta perché battesse così forte. Non capivo, in fondo  non c’era ragione di preoccuparsi. Avrebbe fatto male, questo sicuro. Quanto male non avrei potuto dirlo. Volevo solo smettere di pensare a tutte queste cose inutili. Io ero inutile. Non mi sentivo viva, questo era l’importante. Dovevo morire, ma per me ero già morta, quindi mi sono chiesta addirittura come mai il mio cuore continuasse a battere. Non importava. Tanto, qualunque fosse stata la mia preoccupazione sarebbe finita presto, come tutte le altre cose, come la rassegnazione.
Non avrei voluto di certo saltare, sapevo che non ce l’avrei fatta. Avrei dovuto fermarmi e sarebbe stato peggio. Volevo farla finita, per cui ho optato per una leggera spinta. Innanzitutto ci si deve sedere adeguatamente. Prima una gamba, poi l’altra. Bastano solo un po’ di coraggio e di pazzia. Vedevo i miei piedi ondeggiare nel vuoto. Piedi che avevano camminato per le polverose vie di una strada senza meta, senza fine. Stava andando tutto alla perfezione, tutto secondo i piani. Piani di un di un attimo di follia. Ma mentre le mie mani si preparavano al grande salto nel vuoto, sentì qualcosa disturbare la mia rassegnazione. Qualcosa di freddo, ma allo stesso tempo caldo. Non era il vento, ma una lacrima. Fosse stata una sola. Una lacrima, due, che mi riportarono alla realtà. La crudele realtà. E il fiume di lacrime si è trasformato in mare quando mi sono resa conto di dove realmente fossi. Guardare i miei piedi, il vuoto, quella sera mi ha sconvolta. Avrebbe sconvolto chiunque. Non sentivo più il cuore a causa della velocità con cui mi martellava il petto. Ero scioccata, ma riuscì a scendere. Tremavo. Era finita. Avevo combattuto contro me stessa e avevo vinto, di nuovo. Rientrai in casa. Adesso ero seduta su di una macabra sedia di legno dentro una stanza macabra, rossa e bianca, ma senza colori. Il mondo per me era senza colori perché ero stata io a perderli. La mia tavolozza non era stata invasa dal grigio: non esisteva più, come non esistevo io. Quella sera, però, seduta su quella sedia, mi sono sentita al sicuro per la prima volta. Al sicuro, salva da me stessa. Non avrei voluto morire veramente, come potevo essere stata così stupida? Però non era colpa mia, non al cento per cento. E’ qualcosa che non riuscirò mai a spiegare a nessuno. E poi, infondo, la mia vera morte, era già accaduta tempo prima ed era stata la morte spirituale, che è peggio della morte fisica: quando muori fisicamente, non soffri.
Una volta tranquillizzatami, mi sono alzata e ho messo un pentolino d’acqua calda sul fuoco. Poi ci ho immerso una bustina che doveva contenere camomilla e sono tornata a sedermi. Fissavo il gas, inerme, ancora incredula su quanto accaduto prima. Era finita –pensavo-. Poi un altro pensiero m’inondò la mente: perché non ero riuscita a portare a termine il mio progetto? Ero troppo fraglie, troppo, non avrei dovuto esserlo. Ecco perché mi andava tutto male: non riuscivo a portare a termine niente. Ero una bambina, un’ insulsa bambina che a soli quattordici anni pretendeva di sapere come funziona il mondo, e che pur non essendo riuscita a portare a termine ciò che si era imposta, si era rassicurata facendosi un’ insulsa camomilla. Come se avesse potuto cambiare qualcosa. Non cambia niente! non cambierà mai niente! Al diavolo il mondo, al diavolo la camomilla, al diavolo tutto! Spensi il gas. Andai in bagno e aprì il cassetto, ruppi il temperino per le matite da trucco e iniziai a strofinarmi quella lametta argentata sul braccio, avanti e indietro. Prima delicatamente, poi sfregando sempre più forte fino a raschiare via la pelle. E piangevo. Continuavo a piangere. Come se fossi due persone diverse, come se stessi lottando contro me stessa. Era la mia punizione. Quella che ogni giorno mi infliggevo, e nessuno sapeva niente di tutto questo. Ero sola, volevo esserlo. Vedere quelle gocce di sangue scorrermi sul braccio mi soddisfava e spaventava allo stesso tempo. Continuai a spingere sempre più in profondità, avrei potuto benissimo morire dissanguata. Non m’importava. Di nuovo. Volevo solo farla finita. Un’altra volta. Smisi di piangere, delle lacrme rimase solo l’ostinatezza. Suonò il campanello. Merda. A quel punto non c’era più niente da fare:come sempre ti infili la felpa, apri a tua madre, fingi un sorriso e vai a dormire, attenta a non sporcare le lenzuola, per risvegliarti il giorno seguente e ricominciare.
   
 
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