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Autore: Iryael    15/06/2014    1 recensioni
Nel nostro universo, lei è una ragazza che vive la routine estiva di una qualunque adolescente. Nel suo universo – quello descritto in Endless Empire – lei è l’unica umana esistente, nonché la Creatrice, ossia colei che è onnisciente.
Trascinata dai suoi personaggi nell'universo da lei creato, si trova invischiata in un pericoloso gioco di potere. La linea di demarcazione tra eroi e mostri, tra patrioti e usurpatori avidi di potere, che prima era nitida, sfuma velocemente in una nebula di azioni mirate al successo dei propri interessi.
Tutte le fazioni la vogliono, ma solo per raggiungere scopi diversi. E lei non ha la possibilità di sottrarsi a quel gioco.
Ha creato un universo difficile, Silver, un posto dove non esistono seconde chance.
Cosa sarà disposta a sacrificare per uscirne?
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[Spin-off di Endless Empire di DarkshielD] [Leggibile a sé]
Genere: Azione, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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In caccia
Capitolo Ottavo
22 Gennaio 1811
Sud-ovest cittadino, quartieri residenziali della media borghesia, casa Prunett
 
 
Margot Prunett, al secolo Leverre, si presentava come una lombax di mezz’età, col volto tondeggiante e lo sguardo sveglio. Sedeva con eleganza al centro di un divanetto di velluto e fissava Geoffrey con sincero stupore.
«E così adesso v’interessate agli esperimenti del nonno?»
La voce non tradì nervosismo, ma la mano scorse velocemente sulla gonna. Troppo perché fosse semplice noncuranza. Poi portò una mano al volto e spinse indietro gli occhiali, scivolati sul tartufo. «È...inaspettato. So di suonare scortese, ma mi domando se sia un interesse di natura personale.»
Geoffrey intrecciò le mani, per nulla contrariato dalla domanda. «È il lavoro che mi conduce qui.» affermò. «Avrete sentito di quanto accaduto a villa Adler, immagino.»
Margot annuì lentamente.
«Valle d’Oro ha un posto d’onore nei pettegolezzi cittadini. E poi il giornale ha dedicato molto spazio alla vicenda.» concesse con cautela, non capendo a cosa girasse intorno.
«In tal caso presumo che conosciate la sorte dei fuggitivi.»
Una scintilla vivace animò lo sguardo della lombax. «Oh, andiamo. Conosco la versione ufficiale, signor Darkwood. Non pretenderete mica che sappia la verità.»
L’ombra di un sorriso arcuò le labbra del militare. «Siete arguta come ricordavo, signora.» asserì. «Come avete intuito, questa è una frottola mediatica. La fuga in carrozza è vera, ma la verità è che il giovane Adler e il suo valletto sono precipitati dai tornanti di Doulverry.»
Margot si portò una mano davanti alla bocca, sconcertata. L’altro andò avanti: «E purtroppo, per come vanno le cose, ho ragione di credere che vostro nonno li abbia salvati.»
La donna sentì il sangue defluire dal volto.
Salvati. Dal nonno.
«Voi...» esalò «State scherzando.»
Geoffrey scosse la testa. Poi, imperturbabile, si chinò a prendere la tazza di tè che lo aspettava sul tavolino e ne sorbì un sorso. «La carrozza è proprio davanti all’ingresso dell’ormai dismesso LabSei. Sapete cosa comporterà, non è vero?»
Il volto di Margot si adombrò. «Riesumerete il caso del nonno. Avrò di nuovo terra bruciata intorno.»
Quel “di nuovo” tradì il riaffiorare di una paura che non l’aveva mai abbandonata del tutto. L’aveva sempre tenuta per mano, da quando gli altri bambini venivano allontanati dalle madri al parco, a quando ai balli non riusciva ad avere un compagno perché era “parente di quello là”, a quando il marito aveva cominciato a ricattarla, minacciando di coprirla anche dello scandalo di un allontanamento.
Era l’esasperazione di una vita passata nel timore di diventare una reietta. E lei n’era sinceramente stufa.
«È questo lo scopo ultimo della vostra visita, signor Darkwood? Avvisarmi che la mia vita sta per essere fatta definitivamente a pezzi?»
Silenzio. Per alcuni istanti si udì solo il ticchettare della pendola, mentre Geoffrey sorbì un altro sorso di tè.
«Al contrario.» disse poi. «Voglio che i segreti di Ardou Leverre restino al sicuro. Tuttavia, se le cose non cambiano, ciò a cui siete giunta non sarebbe che la vostra parte delle conseguenze.»
Poggiò la tazza sul piattino e aggiunse: «Immaginate di guardare i fatti da un punto più alto. Ditemi: cosa potrebbe succedere se i cragmiti mettessero le grinfie su quegli scritti?»
Margot immaginò la scena. Vide i diari nelle loro mani, li immaginò profanarne i segreti con il loro ghigno trionfante ed ebbe un brivido. A quel punto non sarebbe stata una reietta della società; sarebbe stata una traditrice della propria razza. E quel titolo le incuteva più paura di tutte le altre infamie che potevano caderle addosso.
«Non esiste.»
Le mani, in grembo, si strinsero a pugno. «Brucerò i diari prima che quei vermi malfatti ne vedano le copertine.»
Geoffrey si fece cauto. Non era la reazione che si era aspettato; era qualcosa potenzialmente più pericoloso.
«Ammirevole intento.» concesse, nel tentativo di riportare la discussione sui binari che desiderava. «Riconoscerete, però, che sarebbe alquanto drastico. In questo modo perderemmo un patrimonio di idee.»
«Sono segreti di stato.» rimbeccò lei, che si sentiva con le spalle al muro. «Coperti da diciassette ingiunzioni di segretezza e vincolati dalla legge speciale Oukman. Se rivelassi il contenuto dei diari mi spetterebbe la morte. Tacendo, invece, ho il dovere di proteggerli o, in caso estremo, distruggerli.»
Sfoderò un sorriso amaro e sprezzante. «Non ho molta scelta, come potete vedere.»
Geffrey annuì lentamente, percependo un fastidioso senso di allarme in fondo al cranio. Ritenne inopportuno dirle che, se i cragmiti avessero scoperto che li aveva bruciati lei, sarebbe stata giustiziata con l’accusa di essere una ribelle. Non avrebbe giovato alle sue intenzioni.
«Ciò non toglie che sarebbe uno spreco del genio di vostro nonno.» insisté. «E se vi dicessi che è evitabile?»
Gli occhiali della donna scivolarono nuovamente verso il tartufo, ma non se ne curò.
Eccolo, il nocciolo della questione. Stava davanti a lei, ma non riusciva a vederlo.
Irritata, fece un cenno spazientito.
«Ebbene, se avete un’alternativa, spiegatevi.»
Il militare raccontò dello strano fenomeno che accadeva nella gola dov’era caduta la carrozza. Le diede uno dei proiettili che aveva sparato e ne illustrò la lieve deformazione, mentre Margot lo osservava con attenzione, facendolo ruotare tra i polpastrelli. Per ultimo, con poche parole scarne, Geoffrey raccontò di come avesse collegato il luogo al nome Ardou Leverre.
«...E qui interviene la mia opzione.» asserì. «La carrozza è in un posto infausto, per cui è inevitabile che gli imperiali scoprano qualcosa. Quanto, però, dipende da voi.»
La donna spostò lo sguardo su di lui.
«Siete la detentrice dei segreti di vostro nonno, nonché l’unica in grado di decifrarli. Più informazioni mi darete, e meglio riuscirò a tacere loro ciò che è veramente essenziale.»
Margot annuì. Aveva capito cosa intendesse, e rifiutare appariva davvero una scelta insensata. Tuttavia c’era un neo che la preoccupava: il capo archivista, l’unico oltre a Geoffrey che poteva accedere a tutte le informazioni, comprese quelle segretate. L’infrazione che stava per fare alle ingiunzioni di segretezza sarebbe stata vana se i cragmiti – o chi per loro – avessero scoperto dal capo archivista che Geoffrey stava coprendo la verità.
«E del capo archivista che mi dite?»
Geoffrey fece svolazzare la mano. «Non vi preoccupate, la carica è vacante.»
La donna sgranò gli occhi, nuovamente sorpresa.
«Sul serio?» domandò. «Non avete ancora rimpiazzato il mio povero Etienne?»
Geoffrey denegò. «No, signora, il vostro defunto marito non ha ancora ricevuto un degno sostituto.»
La donna percepì il concretizzarsi dell’alternativa propostale. Sorrise, di nuovo con quel brillio vivace nello sguardo. «Dunque le chiavi degli archivi segreti sono solo in mano vostra.» constatò.
«È un bel colpo di fortuna, dovete ammettere.»
No, dissero gli occhi della donna. La vera fortuna è stata commissionarvi l’uccisione di quel bastardo.
«Stando così le cose, signora Leverre, mi concedete il vostro aiuto?» domandò, ormai sicuro della risposta.
Lei annuì. «Avete il mio appoggio, messer Darkwood.» e si alzò. «Seguitemi nello studio: ho già idea di cosa possa esservi utile.»
 
Geoffrey uscì dall’abitazione ch’era ora di cena. L’aria era pregna di odori invitanti, e la prima annusata gli fece rimpiangere di non aver accettato l’invito di Margot.
Per distrarsi, mentre si dirigeva alla propria abitazione, pensò a cosa dire e su cosa tacere. Ma soprattutto: come glissare senza suonare falso.
Da qualunque punto guardasse la faccenda, per tener nascosto Ardou Leverre sarebbe occorsa una generosa dose d’astuzia.
Molta più di quella necessaria a sistemare il markaziano in giacca grigia.
* * * * * *
Il markaziano espirò un tiro di sigaretta. Gettò un’occhiata verso casa Prunett e vide il portone aprirsi. Geoffrey, sulla soglia, rivolse un accenno d’inchino a qualcuno che non riusciva a vedere.
Vecchia cariatide, che hai fatto tutto il giorno lì dentro?
Infilò nuovamente la sigaretta tra le labbra e inalò. Sapore di tabacco e spezie gli invase il palato, prima che il respiro li cacciasse fuori. Il fumo avvolse un taccuino lercio, sulle cui pagine ingiallite il markaziano stava scrivendo “ore 19:00 – esce dall’abitazione”.
Poi lo rimise in tasca e alzò lo sguardo. Il suo bersaglio, ormai in strada, stava armeggiando con un orologio da taschino.
Geoffrey alzò lo sguardo, pensieroso, e poi s’incamminò verso nord. Il markaziano lo seguì, diligente, stando attento a rimanere molti passi indietro.
Lo seguì fino alla sua abitazione, nel quartiere dedicato alle cariche militari. Lo guardò entrare nell’edificio e si appiattì contro un muro dall’altra parte della via, dopo essersi accertato di essere protetto dall’oscurità.
* * * * * *
Geoffrey, in camera, afferrò un libro dalla scaffalatura e si appoggiò alla finestra. Lo aprì dove aveva lasciato il segno e si voltò oltre il vetro. Il suo pedinatore era lì. Non lo vedeva, ma era sicuro che ci fosse.
Heanp, vecchio bastardo. Darmi il permesso e farmi pedinare: com’è caduto in basso.
Ma la domanda è: vuole sfruttarmi perché sa che arriverò a un risultato, oppure da questa mossa imbecille dovrei intuire che lo preoccupo ancora? A chi vuole arrivare veramente: a me o a Ratchet?
 
Tirò le tende e andò a sedersi dietro la scrivania. Sul tavolo c’era un campanellino: non finì di scuoterlo che il suo valletto comparve sulla porta.
«Avete chiamato, signore?»
«Servi la cena il prima possibile, Roman. Devo uscire.»
Il valletto annuì.
«Come desiderate.» disse. «Preparo anche un cambio d’abito?»
«No; vado in uniforme.»
Il lombax assentì con un inchino e se ne andò. Geoffrey, gomiti sulla scrivania, intrecciò le dita.
Non importa a chi sta dando la caccia; starò al gioco.
L’ombra di un sorriso gli arcuò le labbra.
Credo che mi divertirò.
* * * * * *
Ore 19:45
Zona est della città, 147sima caserma dell’esercito imperiale, ufficio del direttore
 
 
Sindegar Heanp stava controllando i registri ereditati da Geoffrey. Come direttore pro tempore era tenuto a conoscere l’andamento della caserma, ma non era ancora riuscito a visionare i dati con la dovuta perizia. La fuga di Azimuth e l’affare Adler non gliene avevano lasciato il tempo.
Il cragmita era sommerso dai registri quando il segretario fece entrare Yerzek. Il teracnoide, impolverato dalla testa ai piedi, fece qualche timido passo in avanti e presentò il saluto, spargendo in ogni dove la polvere fine del deserto fastooniano.
Alla sua vista Sindegar provò un moto di disgusto. Era successo poche volte che si trovasse d’accordo con Geoffrey, ma in quel momento comprese perché il lombax considerasse insulso il suo braccio destro. Era così patetico, stretto nella divisa sporca, e così infantile nello svolgere meccanicamente i suoi incarichi. Era impossibile non pensare che ricoprisse la sua posizione grazie ad una manovra politica, e la cosa pungeva in maniera orribile l’orgoglio di Sindegar.
Il cragmita si fece un appunto mentale: quando fosse diventato direttore in pianta stabile, il suo organico avrebbe avuto una bella risistemata.
Tuttavia, in quel momento, per quanto la sua vista lo disgustasse, depose il registro e lo invitò con un cenno a sedersi.
«Ebbene?»
Yerzek si avvicinò, mortificato.
«Non ci sono tracce né del maggiore Adler né del civile, signore.» riferì.
Sindegar accennò un assenso. «Capisco. Dunque è probabile che siano diventati il pasto di qualche animale.»
«Con il dovuto rispetto, signore, non credo. Praticamente non c’erano tracce in giro, né di sangue né impronte o scie di trascinamento.»
Il cragmita si fece pensieroso per alcuni istanti. Sovrappensiero, passò un dito sul margine del registro e lo richiuse senza badare a dove fosse arrivato.
«Stai suggerendo che qualcuno sia passato a pulire?»
L’altro si irrigidì. Il colletto della divisa, improvvisamente, si fece troppo stretto.
«È...è possibile, sì.» soffiò a fatica. «Non credo proprio che se ne siano andati sulle loro gambe.»
Sindegar gli scoccò un’occhiataccia.
«Credere non è sufficiente.» lo rimbeccò. «Al Gran Consiglio vogliono le prove.»
Yerzek gelò sulla poltrona. «Avete allertato il Gran Consiglio?»
«Ovviamente.» replicò con naturalezza. «Dopotutto è coinvolto il figlioccio di Arthur Adler; informarli che stiamo indagando era d’obbligo.»
Il teracnoide ripensò alle parole di Geoffrey e sentì un brivido percorrergli la schiena. Il timore fu palese per una frazione di secondo, poi lo dissimulò raddrizzando le spalle incurvate.
«E come hanno reagito?»
Sindegar proseguì con noncuranza: «La storia dell’umana li ha messi in allarme. Prima di muoversi in qualunque direzione vogliono le prove che quella donna esista. Se tali prove verranno consegnate, allora si prenderà in considerazione l’idea che, in qualche modo a noi oscuro, i Ribelli siano riusciti a riportare alla vita una specie estinta da secoli.»
Accarezzò con lo sguardo lo spaziogramma aperto sulla scrivania, scartoffia tra le scartoffie, lasciato lì più di due ore prima. Gli ordini erano chiari: trovare il giovane Adler, vivo o morto che fosse, e catturare l’umana.
«Il fatto che il maggiore sia stato fatto scomparire è indubbiamente un segno a favore delle tue teorie.» disse ancora. «Tuttavia serve l’umana perché esse siano incontrovertibili. Trovala, Yerzek, e avrai ragione. Portala qui, viva o morta che sia, e diventerai un eroe dell’Impero.»
 
Eroe dell’Impero.
Al teracnoide bastarono quelle tre parole per ritrovare l’entusiasmo.
«Allerterò le squadre di ricognizione e ordinerò loro di estendere le ricerche, signore!»
«Bene. Questa sera stessa scriverò a messer Phyronix affinché i Runners intensifichino i controlli. Quanto alla Guardia Pretoriana: per ora la escluderemo dalle nostre operazioni. Ce la caveremo con le nostre forze.»
L’ultima frase disorientò il subordinato.
«Ma... signore, perdonatemi, ma avete concesso a Darkwood il permesso di investigare.»
Sindegar liquidò la questione con noncuranza: «A Darkwood, appunto. Non alla Guardia Pretoriana.»
Dopodiché aggiunse: «Disponga subito gli ordini, maggiore. Voglio un’organizzazione efficiente, così da ottenere il massimo risultato già da domattina.»
«Sì signore.»
Presentò un saluto vigoroso, scatenando una nuvola di pulviscolo, dopodiché abbandonò l’ufficio.
Sindegar osservò la porta chiusa per qualche istante, prima di lasciarsi andare contro lo schienale e congiungere le punte delle dita davanti al volto.
«Darkwood, vecchio bastardo...» e svelò un sorriso soddisfatto. «Scalcia finché vuoi, ma stavolta sei finito.»
Due giorni prima era piombato nell’ufficio con un cipiglio che non gli vedeva dai tempi della guerra, e non se n’era andato finché non aveva ottenuto le informazioni che voleva.
Non l’avrebbe ammesso, ma lo aveva impressionato. E si era convinto che tanta determinazione non dovesse andare sprecata; per quello gli aveva dato il permesso e gli aveva messo alle calcagna qualcuno che lo pedinasse.
 
Vuole cercare la verità? Che vada.
Tanto, se Adler è morto, la storia è già scritta.
Se invece, contro ogni aspettativa, il ragazzo è vivo e Darkwood me lo consegna, sarò io stesso a fargli sputare ogni informazione prima di giustiziarlo.
Ma se è vivo e quel vecchio bastardo lo nasconde, avrò la prova che manca per accusarlo di tradimento e mettere la parola fine ai suoi giochi di favori, alla sua carriera e – il Creatore lo voglia – anche alla sua esistenza.
Comunque vada, perderà l’erede spirituale. E in più, se Adler padre dovesse scegliere di non dissociarsi dal figliastro, i Conservatori all’interno del Gran Consiglio lo costringerebbero a dimettersi. A quel punto Darkwood perderebbe anche il suo alleato più influente e, se la notizia circolasse a dovere, sarebbe la società stessa a rinnegarlo.
 
Heh, quasi non ci credo. È paradossale: sono venticinque anni che mi faccio il sangue marcio, e adesso quel vecchio bastardo sta per mettere da solo la testa sul ceppo.
È persino troppo bello per essere vero.
 
Lanciò un’occhiata maliziosa al ritratto affisso al muro, che ritraeva Tachyon X in una posa solenne. Gli rivolse un sorriso sornione e sussurrò: «Lunga vita all’Impero.»
* * * * * *
Dopo aver disposto gli ordini come voluto dal direttore, Yerzek tornò a casa.
Non appena ebbe chiuso la porta alle sue spalle, tuttavia, l’aria seria e operosa che aveva mantenuto fino a quel momento sfumò. Poggiato contro il portone d’ingresso, si portò una mano al volto e si coprì i lineamenti, mentre la voce gracchiava un crescendo di risa sempre più isteriche.
Non poteva credere alla sua fortuna. Voleva rovinare Ratchet, ma i risvolti assunti dalla vicenda si erano rivelati tanto imprevedibili quanto favorevoli ai suoi scopi.
La chiave di tutto era l’umana. Doveva solo trovarla.
 
«Gordon!» chiamò. «Gordon!»
Dal soffitto giunse il rumore aritmico di una camminata claudicante. Non era lenta, ma il teracnoide la giudicò lo stesso inadatta alla sua urgenza.
«Gordon, per la miseria!» esclamò ancora, spazientito.
«Eccomi signore, arrivo!»
Il maggiordomo – un markaziano di mezz’età – giunse dalle scale. Trascinò la gamba un gradino dietro l’altro, sbuffando per la fatica. Non appena ne fu visibile il volto, Yerzek ricominciò a parlare.
«Voglio che tu vada alla taverna dei Sette Gatti. Mi serve sapere cosa mormorano nella Tomba.»
Il markaziano, col battito accelerato per lo sforzo, si affrettò ad annuire.
«A che proposito, signore?» domandò.
«Tutti.» rispose con un sorriso famelico. I suoi lineamenti, alla luce dei lumi, assunsero sfumature malvagie.
«Voglio tutti i fatti strani che vociferano quegli inutili pesi sociali.» ripeté, stavolta ringhiando piano.
Gordon deglutì. Aveva già visto quel ghigno e aveva già udito quel tono bramoso. Non in faccia a lui, ma sul volto di un generale, durante la guerra, prima di una disastrosa azione militare in cui si era ritrovato unico superstite con la gamba piena di schegge.
Attento. Chi troppo vuole nulla stringe, pensò di riflesso, risentito.
La frase corse sulla punta della lingua, ma lì si fermò. Non era una sua pertinenza, si disse. Non era compito suo consigliarlo, a meno di una richiesta esplicita. O gli avrebbe dato un motivo per licenziarlo, e nessuno era bendisposto ad assumere un veterano di guerra.
Amareggiato, il markaziano chinò la testa.
«Come volete.»
E, prese le sue cose, uscì di casa.
* * * * * *
Ore 23:15 circa
Undertown, secondo livello, settore est
 
 
L’ingresso del bordello odorava di chiuso, di profumo stantio e di alcol.
Sembrava un caffè: qualche tavolino, divanetti alle pareti, un bancone. Velluti e stucchi riempivano le pareti, dando all’ambiente un’aria allegra. Ma era un’allegria decadente: gli stucchi presentavano una ragnatela di piccole crepe e i velluti erano lisi.
Non che agli avventori importasse più di tanto. Ad ogni tavolino c’era seduta almeno una donna dallo scollo provocante, impegnata a ridacchiare, chiacchierare o pomiciare.
Geoffrey tirò dritto fino al bancone, su cui era seduta una selker che lo guardava con interesse crescente.
«Guarda guarda chi si rivede...»
«Salve, Norilai.» disse, sedendosi su uno sgabello.
Sulle labbra piene della donna si formò un sorriso carico di sottintesi. I grandi occhi verdi, tagliati a metà da una linea orizzontale, si riempirono di divertimento.
«Suppongo sia successo qualcosa di sconvolgente, se sei tornato da me...» asserì. «Vuoi che ti serva qualcosa di forte?»
«Quello servirebbe al mio amico.» rispose, indicando il portone.
Norilai alzò un sopracciglio.
«Un amico? Tu?»
«Ho intenzione di fargli conoscere Giselle.» continuò. «È libera?»
Norilai alzò lo sguardo e individuò subito la markaziana. Era seduta su un divanetto e parlava con un’altra delle prostitute.
«Sì, è libera. Direi che manca solo il tuo amico all’appello.» disse.
«Il mio amico dovrebbe essere nascosto dall’altra parte della strada, in attesa che io esca...»
La selker corrugò le sopracciglia, perplessa. Aveva una sola spiegazione per quella frase, e non le piaceva. Per sicurezza prese un carboncino e scrisse sul bancone: sei pedinato?
Geoffrey annuì.
«Markaziano, lunga giacca grigia.» disse a bassa voce. «Non mi preoccuperebbe se non dovessi chiederti un favore importante.»
«Quindi non lo vuoi interrogare.»
«So già chi me l’ha messo alle calcagna.»
Norilai annuì con convinzione.
«Lascia fare a me.»
Scese dal bancone e, con una certa maestria dovuta all’esperienza, chiamò a raccolta le prostitute libere e dispose che andassero ad adescare qualche cliente nei locali lungo la via. Dopodiché prese da parte la markaziana di nome Giselle e le diede precise istruzioni, inventandosi una scusa a caso.
Quando le donne si furono disperse oltre la porta d’ingresso, la selker tornò dietro il bancone.
«Ti addebiterò un extra per questo.» disse, pulendo la scritta impressa col carboncino. «Adesso vieni, soldato. In questa caserma gli affari si discutono in camera da letto.»
Geoffrey arcuò le labbra.
«Signorsì, signora.»
 
Quando la porta della camera fu chiusa alle loro spalle, Norilai ancheggiò con eleganza fino alla toeletta, posata strategicamente vicino alla finestra. Sedette sul morbido pouf scarlatto ed intrecciò le caviglie. Con un gesto quasi etereo gli fece cenno di sedersi sul letto.
«Molto bene, caro.» disse, estraendo dal cassetto una cannula di rame e onice. Geoffrey notò l’accessorio e non poté fare a meno di stupirsi.
«Usi ancora quel calumet?» domandò, sedendosi sul materasso duro.
«Non essere sciocco: un Chanunpa di Morklon è fatto per essere eterno.» rispose con noncuranza. «Ma dicevamo. Quale favore vorresti da me?»
«Un incontro con Kaden.»
La selker, che stava attingendo al contenuto di una tabacchiera, si fermò e inarcò le sopracciglia, le labbra leggermente dischiuse per la sorpresa.
«...Adesso?» domandò.
«Adesso, sì.»
«Non sarà un lavoro facile.»
«Non ho mai detto che lo sarebbe stato.» replicò Geoffrey. «Ma il visconte Zogg sta per dare una grande festa e so che è in carenza di intrattenitrici.» aggiunse.
Il nome fece suonare un campanello nelle orecchie di Norilai che, suo malgrado, si ritrovò ad arcuare le labbra alla stessa maniera del lombax.
«Come sai del mio interesse per il visconte?»
L’uomo alzò le spalle.
«Ha importanza?»
La donna valutò la situazione nel tempo in cui invertì l’accavallamento delle caviglie.
«No, suppongo di no.» disse alla fine. «Dopo trent’anni dovrei smettere di chiederti come sai cosa.»
Aprì il lume e usò un bastoncino struccante come cerino per accendere il tabacco nel fornello.
«Giselle è riuscita a stanare il markaziano?» domandò Geoffrey. Norilai tirò una boccata di fumo e guardò oltre il vetro. Nella luce rossastra che le finestre gettavano nel tunnel sotterraneo, la prostituta stava attraversando la strada appoggiata al braccio il markaziano descritto dal lombax.
«Il tuo amico sta entrando adesso. Vado ad assicurarmi che salga.» sentenziò. Si alzò e raggiunse la porta, sempre ancheggiando con eleganza. Quando ebbe la mano sul pomello, colta da un lampo, si fermò.
«Geff.» disse, il tono basso e teso. «Se, per qualunque ragione, ti saltasse in mente di fare come Kaddie e scappare di qui mentre sono di sotto, evita di tornare. Perché se lo fai ti prendo a bastonate.»
Il lombax alzò le mani.
«Mi troverai qui. Parola.»
Norilai sorrise prima di lasciare la stanza. Se le dava la sua parola significava che ricordava ancora le due costole incrinate di qualche anno prima.
Sogghignò. «Bravo Geff.»
Si chiuse la porta alle spalle con un moto d’allegria: senza dubbio, minacciare impunemente Geoffrey Darkwood non era una cosa che chiunque potesse vantare.
Per quello – ma anche per il lieto piacere che le aveva procurato il suo ingresso nel bordello – scese le scale canticchiando.
 
Quando tornò in camera, qualche minuto dopo, lo trovò esattamente dove lo aveva lasciato.
«Giselle si farà un bell’incasso.» decretò. «Sei libero di andartene quando vuoi. Solo, fai attenzione quando passi davanti alla stanza quattordici.»
«Grazie Noreen.» rispose lui, avvicinandosi a lei e alla porta. «Non so cosa farai col visconte, ma sta’ attenta. È molto legato a Reepor.»
«Come tutti i nobili che i cragmiti hanno trapiantato qui, del resto.» replicò. «Stai attento tu, piuttosto. È un momento parecchio sbagliato per una rimpatriata con Kaddie.»
Geoffrey alzò una spalla di malavoglia. «Per quella non c’è mai momento propizio.»
«Vero anche questo.» ammise lei. «Torna fra due sere. Sarà sicuramente qui.»
L’altro annuì e lasciò la stanza. La camera numero quattordici era dall’altra parte del piano, proprio davanti alle scale. Quando la raggiunse fece attenzione a muoversi con leggerezza per evitare gli scricchiolii.
Poco dopo, quando varcò la porta d’ingresso, sul volto c’era un sorriso fuorviante. L’indomani Heanp avrebbe sicuramente saputo della sua uscita: che credesse pure che aveva sfogato la frustrazione andando a puttane. Sarebbe stato dell’ottimo fumo negli occhi.
 
Al piano di sopra, dietro la porta della sua camera, Norilai si portò una mano al mento con aria pensierosa.
«Kaddie Kaddie Kaddie... in quale dei tuoi rifugi ti scoverò questa volta?»
* * * * * *
Notte fra il 22 e il 23 gennaio
Luogo sconosciuto, stanza di Ratchet
 
 
Una fitta alle tempie svegliò Silver all’improvviso. Dopo un istante di smarrimento, la ragazza si portò le mani al volto e massaggiò la zona dolorante, cercando di indebolire lo stiletto che andava da una parte all’altra del cranio.
Era certa di aver sognato, ma aveva la memoria confusa. Qualunque cosa avesse visto, era svanita lasciandole solo la fitta e una sensazione di disagio.
Come se quello non bastasse a metterla di malumore, il Sapere giunse ad aggiornarla, impietoso nella sua schiettezza.
Incrociò le braccia.
«Mai che si possa avere un po’ di pace, eh?» borbottò. «Maledetto branco di rompicoglioni...»
«Che succede ancora?»
Silver s’irrigidì.
Ratchet. Non s’era accorta che fosse sveglio.
Dopo un istante di smarrimento si girò sul fianco, in modo da essere rivolta verso di lui.
«Tanto, troppo casino.» ammise. Poi si chiese come mai l’altro fosse vigile a quell’ora e domandò: «Ti ho svegliato?»
«Col baccano che hai fatto?» fu la replica sarcastica. «Mi meraviglia che non siano tutti in piedi.»
«Ma vaffanculo!» sbottò infastidita. «...e io che mi preoccupo.»
Dalla stanza adiacente, oltre il russare di Tarx, arrivò un mugolio infastidito. Nessuno dei due vi badò.
Silver diede la schiena al lettuccio e si rinchiuse nei suoi pensieri. Tuttavia non ci volle molto prima che il silenzio venisse interrotto nuovamente.
«...che razza di parola è?»
«Un insulto.»
Altro breve silenzio. Poi, a voce più bassa, Ratchet disse ancora: «Senti... Ti devo ringraziare.»
Silver, ancora sul piede di guerra, alzò un sopracciglio con aria scettica. Era sincero o la prendeva in giro?
«Quello che hai detto alla villa... ha permesso a Daniel di avviare la nostra ribellione. Di fatto, senza i tuoi starnazzamenti saremmo morti. Quindi grazie.»
«Ti chiederò un favore in cambio.» sancì. «Anzi, due.»
Fu Ratchet ad alzare un sopracciglio.
Silver aggiunse: «Dimentichi che ho detto ai ragazzi dove venirvi a prendere.»
«Oh, quello. Be’, potevi risparmiartelo.» borbottò.
Altro breve silenzio.
«Pensi di potermi rivolgere la parola, domani?» proseguì lui.
La domanda era talmente assurda che la ragazza si voltò di nuovo, facendo scricchiolare il sacco imbottito che fungeva da materasso.
«Te la rivolgo anche adesso, se per questo.» rimbeccò, un po’ meno dura di prima. «Che ti succede?»
Non visto, l’altro fece spallucce. «Niente.» disse. «Visto che mi ronzi sempre intorno e blateri un sacco con Daniel, domani potrei unirmi a voi.»
Silver impiegò qualche istante a rispondere, non sapendo se prendere la frase come un insulto oppure no.
Il primo istinto fu quello di rispondergli picche e mandarlo al diavolo. Poi, però, si disse che non sarebbe stato molto carino. Anche se il suo atteggiamento lo rendeva poco sopportabile, stava pur sempre per piovergli addosso un bel casino. Un casino di cui lei era l’autrice, sebbene avesse tutte le scusanti per affermare il contrario.
«Non vedo perché no.» concesse.
«Allora buonanotte, miss Darkshield.» disse lui, con un tono di voce che alla ragazza parve sollevato.
Passò un istante di silenzio.
«Aspetta.» disse lei, di getto, prima di tentennare: «Voglio... forse è il caso di giocarmi uno di quei favori che mi devi.»
Percepì il disorientamento del lombax e si diede dell’imbecille. Odiava quella situazione, in bilico tra voler dire e voler tacere.
«Il Sapere, prima, mi ha rivelato un sacco di brutta roba.» confessò. «Ci cercano, vivi o morti. E te... sarà dura, Ratchet, ti aspetta uno di quei periodi che porterebbero chiunque al manicomio. E lo so che è difficile per te, però... ecco... il favore che ti chiedo è la fiducia. Se non vuoi averne in Tarx, Reggie, Sacha o Kaden, abbine in me.»
Ci volle più di qualche istante, al militare, per assimilare tutta la frase della ragazza. Più le parole prendevano significato, più si sentì offeso.
«Proprio tu parli di fiducia?» sputò, infine, sulla difensiva. «Io sono ammanettato al muro perché tu non ti fidi. E dovrei essere io quello che si fida? Di chi, poi? Di una ragazzina che si crede un profeta e batte i piedi sbraitando cose senza senso?»
Silver incassò la testa tra le spalle. Indubbiamente, sulla prima parte aveva un sacco di punti. Ma sulla seconda...
«Sta bene, fa’ cosa vuoi.» replicò, offesa. «Ma verrai a cercarmi, questo è sicuro. E allora raccoglierai quanto hai seminato.»
«Certo, come no.»
Si diedero le spalle e il resto della notte, poi, fu popolato dagli incubi.

 

   
 
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