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Autore: Hermione Weasley    18/06/2014    6 recensioni
Mi hanno sparato, pensò incredula, portandosi una mano alla spalla. Il dolore la investì nel momento esatto in cui si accorgeva di avere una freccia conficcata nella carne. Dischiuse le labbra in un'espressione di muto orrore, facendo saettare lo sguardo verso l'alto, ai tetti che incombevano sulla strada.
Un lampo improvviso disegnò nel cielo nero la sagoma di un uomo.
[Clint x Natasha] [Slow Building] [Completa]
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Altri, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Nick Fury
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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‘Cause you’re a hard soul to save,
With an ocean in the way,
But I’ll get around it.

(Florence + The Machine – Over the Love)

 

 

“Ehi, Phil, vado a bere qualcosa, vieni con me?”

“Solo se danno la partita in televisione.”

“Certo che danno la partita da Donny, ti sei bevuto il cervello?”

“Poi non dire che non ti avevo avvisato.”

Clint si voltò verso Natasha, ancora impegnata nella lettura di (se il suo russo arrugginito non lo tradiva) Guerra e pace in lingua originale: un libro che avrebbe piuttosto preferito utilizzare come arma impropria o in veste di fermaporta.

“Nat?”

La ragazza rialzò il capo dal suo romanzo-in-formato-dizionario, la perplessità evidenziata da un sopracciglio esageratamente arcuato. Clint non si faceva illusioni, sapeva già come sarebbe andata a finire.

“Ti va di venire con noi?”

Natasha lasciò che il buon vecchio Tolstoj le facesse da schermo, sollevando il tomo fino a coprirsi gran parte del viso prima di decidersi a rispondere.

“Sei quasi morto, Barton, non dovresti andare a casa a riposarti?”

Nonostante l'inaspettato recupero di informazioni importantissime circa un cartello messicano, la sua ultima bravata in fatto di ordini interpretati alla larga aveva rischiato di concludersi in tragedia. Coulson, che si era già abbondantemente espresso sull'argomento, era stato particolarmente severo.

“Sono quasi morto,” precisò. “Un motivo più che valido per festeggiare, no?”

“Se lo dici tu,” gli concesse lei laconicamente, continuando ad evitare il suo sguardo.

Rischiare la vita non era, evidentemente, un buon modo in cui convincere Natasha Romanoff a concedersi un paio d'ore di svago (a meno che la donna non considerasse Tolstoj uno svago, prospettiva che lo fece rabbrividire non poco). Le possibilità erano molteplici: poteva essere una strenua sostenitrice del Proibizionismo (il vintage andava fin troppo di moda quell'anno), o magari semplicemente astemia, o perché no, traumatizzata a vita da un pub.

“Se cambi idea, siamo da Donny, qui dietro l'angolo.”

La ragazza ne prese atto con un rapido cenno del capo: da che erano atterrati allo SHIELD Center, non aveva mai smesso di leggere. Clint si arrese: non solo era sicuro che Natasha avesse cominciato a portarsi dietro libri su libri con il preciso scopo di evitare inutili conversazioni, ma gli apparve altrettanto chiaro che non avrebbe cambiato idea nemmeno tra un milione di anni. Neppure sotto tortura. Neanche se fossero stati gli ultimi due esseri umani rimasti sulla terra.

Quella consapevolezza fu un toccasana per la sua autostima. Il suo supervisore gli fece segno di non prendersela (ma si capiva lontano un miglio che quegli impacciatissimi scambi lo divertivano pure troppo) prima di invitarlo a fargli strada.

“Buonanotte, Nat.”

“'Notte, Barton. Coulson.”

 

*

 

Recuperò borraccia e giubbotto di pelle dall'armadietto dopo essersi data una rapida occhiata nel minuscolo specchietto del suo portacipria: la ferita al sopracciglio era quasi sparita. Ne prese atto, procedendo col sistemare i vestiti sporchi che aveva indossato in allenamento, in una busta di plastica: l'attendeva una serata tutta dedicata al bucato. Emozionante.

Merda, Barton!” L'imprecazione le uscì in russo: si era ritrovata il partner a pochissimi centimetri di distanza, appostato dietro lo sportello dell'armadietto che aveva appena chiuso, una spalla appoggiata a quello adiacente, le braccia intrecciate al petto e un sorrisetto insopportabile sulla faccia.

“E' quello che dicono tutte, arrivate ad un certo punto,” commentò impressionato.

“Ma non mi dire,” la replica seccata, mentre raccoglieva il sacchetto che le era sfuggito di mano.

“Non ti stai dimenticando qualcosa?”

“Non tentarmi, Barton,” il pensiero del bucato la metteva talmente di buon umore, che, se avesse insistito, un pugno in piena faccia a titolo totalmente gratuito non gliel'avrebbe tolto nessuno.

“Avevamo deciso che se fossi riuscito a metterti al tappeto, mi avresti offerto da bere.”

“Non mi hai messo al tappeto,” ci tenne a precisare con tono petulante, nascondendo in qualche modo l'agitazione che già cominciava a farsi sentire. Sapeva esattamente dove sarebbe andato a parare. Quel che era peggio era che, complici il bucato incombente e il fatto che allenarsi con Barton era rapidamente diventata una delle sue cose preferite (sarebbe morta prima di dirglielo), si sentiva quasi in vena di accettare.

“Ti ho atterrata! Me lo ricordo!”

“No, non mi hai atterrata. La mia schiena non ha toccato terra: se ti ricordi sono stata io a ribaltarti sul tappeto.”

“La tua schiena ha sicuramente sfiorato il pavimento.”

“Dovrai impegnarti un po' più di così, Barton.”

“Sei una donna crudele.”

“La peggiore,” confermò con un sorrisetto appena accennato, dissimulando in qualche modo il disagio (le sue abilità stavano, in tal senso, cominciando a languire in modo sempre più preoccupante). “Ci vediamo dopo Stoccolma.”

Lo sguardo che ricevette in cambio non la fece sentire meglio. Ma non era colpa sua se si ostinava ad invitarla a quello stupido pub che fungeva da punto di ritrovo per i dipendenti dello SHIELD Center di New York. Non aveva voglia di uscire, non aveva voglia di bere e non aveva voglia di compagnia. Che senso avrebbe avuto, comunque? Intessere relazioni private al di fuori del lavoro non le aveva mai portato altro che guai. E la loro collaborazione sul campo le era troppo preziosa perché decidesse di correre il rischio di rovinare tutto. E poi che razza di problemi aveva? Non gli faceva piacere, ogni tanto, starsene un po' a casa a rilassarsi? Alle volte le sembrava che Barton facesse di tutto pur di non ritornarci, come se ogni scusa fosse stata buona per posticipare il rientro, per arrendersi solo se strettamente necessario.

Il pensiero non fece altro che aggravare il suo senso di colpa, mettendole addosso una certa urgenza di andarsene.

“Ci vediamo dopo Stoccolma.”

La conferma di Clint arrivò come una liberazione: Natasha uscì dallo spogliatoio senza aggiungere nient'altro.

 

*

 

“Wow. Non vorrei essere al suo posto.”

Natasha, che si era appena tolta le cuffie di protezione, si voltò verso di lui, impallidendo leggermente. Il cigolio del bersaglio che si avvicinava alla sua postazione e il rimbombare di mille altri spari, facevano da sottofondo a quell'incontro-scontro del tutto fortuito.

Beccata. A meno che il poligono di tiro non fosse anche, per qualche assurdo motivo, il domicilio della donna, Natasha gli aveva detto una bugia bella e buona quando si era districata dall'ennesimo invito (senza impegno) al pub, perché afflitta da un terribile mal di testa. (Non era affatto estraneo a quella scusa, ma se non altro le donne che gliel'avevano rifilata avevano avuto il buon senso di farsi vedere nude, ad un certo punto.)

“Barton,” Clint riconobbe sul viso il tentativo di nascondere l'imbarazzo, “credevo che...” Lasciò la frase in sospeso, mentre le sue guance si tingevano di un colore che le vedeva fin troppo raramente addosso.

“Stasera hanno tutti qualcosa di meglio da fare,” le rivolse un sorriso, senza darle l'impressione di esserci rimasto male.

“Oh,” Natasha aveva riabbassato la pistola, fingendo di studiare la povera sagoma di cartone che li stava osservando mestamente, la testa bucherellata in più punti. Dieci centri perfetti.

Clint era ormai sceso a patti col fatto che Natasha non sembrava avere alcuna intenzione di concedergli un qualsiasi spazio che non avesse a che vedere con il loro lavoro per lo SHIELD. Doveva ammettere che c'era una certa vena masochistica nel modo in cui non mancava mai di estenderle quegli occasionali inviti, eppure era convinto che sotto sotto (bè, molto sotto) Natasha avrebbe voluto dirgli di sì. La vedeva lasciare lo SHIELD Center sempre in solitaria, e Coulson (avendo ricevuto informazioni da chissà dove) gli aveva confermato che neppure durante gli anni dell'accademia si era fatta molte amicizie, o comunque nessuna che valesse la pena mantenere: era piuttosto sicuro che facesse la spola tra casa e lavoro, lavoro e casa, senza dedicarsi a molto altro. Si era reso conto di sapere poco o niente della sua nuova partner: certo, aveva imparato a leggere quei pochi segni che Natasha si lasciava sfuggire, ma gli mancavano tutti quei dettagli inutili che aiutano a definire una persona (che musica ascolta? Che film le piacciono? Qual è il suo colore preferito? Cosa ne pensa di Nicolas Cage?). Si era accorto che a lavoro parlava un po' con tutti: riusciva così a dare l'illusione di essere amica di chiunque, di essere aperta a tutti, con il solo scopo di non fare entrare realmente nessuno e di non crearsi al tempo stesso alcun nemico. Gli inviti, da quel che aveva potuto intuire, più che infastidirla, la terrorizzavano. E lui, paradossalmente, non riusciva a non sentirsi in dovere di rimediare (Coulson aveva avuto una pessima influenza su di lui). D'altro canto, doveva riconoscere che i suoi metodi si erano rivelati dolorosamente fallimentari.

“Ascolta, non -”

“Non ti preoccupare. Avevo voglia anch'io di tirare un po' con l'arco, comunque,” la rassicurò.

“Okay.” Natasha si era finalmente decisa a guardarlo, la solita maschera di affabilità tornata al suo posto.

“Sono da quella parte se hai bisogno di me.”

La ragazza annuì.

Dopo circa tre quarti d'ora, tornando indietro dalla sessione di allenamento, si accorse che Natasha se n'era già andata.

 

*

 

Era rimasta ad osservare la vetrina di quel dannato pub (ormai il protagonista di tutti i suoi incubi più terribili) per dieci minuti buoni prima di decretare che aveva un'aria essenzialmente innocua. Un classico pub americano, sgabelli ovunque, tavoli di forme e dimensioni diverse sparsi un po' per tutto il locale, un televisore a schermo piatto più nuovo di tutto il resto a far bella mostra di sé poco sopra il bancone, la zona freccette sulla sinistra, un tavolo da biliardo sulla destra, un paio di vecchi videogiochi nascosti in prossimità del bagno. Immaginò ci fosse più di un motivo per cui quell'area era del tutto deserta.

C'erano solo due uscite, una principale e una secondaria, ma in caso di emergenza avrebbe potuto tranquillamente gettarsi violentemente contro la vetrina e uscire da qualsiasi punto dal pub. Credi davvero che sarà necessario?

Serrò le labbra fino a farsi male, il cellulare di Clint stretto con talmente tanta forza in una mano, che dovette convincersi a lasciarlo andare se non voleva restituirglielo a pezzi. Non aveva neanche avuto il tempo di salutarlo: era schizzato fuori dallo spogliatoio alla velocità della luce, dimenticandosi il telefono su una panca. Doveva essere in ritardo per qualcosa di importante, o almeno così aveva inizialmente supposto. Rintracciare Coulson, consegnargli il maltolto affinché lo restituisse all'agente Barton, era l'unico motivo per cui stava attualmente permettendo all'insegna luminescente – che recitava Donny's – di accecarla impunemente. Ma nel pub non c'era nemmeno l'ombra dell'agente Phil Coulson. Al suo posto però, non aveva fatto fatica ad individuare Barton, seduto in disparte all'estremità sinistra del bancone. Non aveva l'aria di essere in ritardo. Forse, ragionò, stava aspettando qualcuno.

Si morse l'interno delle guance, continuando a tamburellare furiosamente un piede a terra. Avrebbe potuto restituirgli il cellulare un altro giorno, sarebbe sopravvissuto comunque, no? Natasha non avrebbe esitato a scegliere quell'opzione, se non ci fosse stata una missione in solitaria imminente ad attenderla (da qualche parte in Algeria), che l'avrebbe tenuta lontana da New York per un po'. In più, se l'uomo stava veramente aspettando qualcuno, poteva aver bisogno di comunicare con il ritardatario.

Il ragionamento non faceva una piega.

Dentro e fuori in meno di tre minuti, promise a se stessa, inspirando ed espirando profondamente come faceva prima di prendere la mira, o di dare inizio ad un'operazione particolarmente complicata (senza contare che uno qualsiasi tra quei due scenari le sarebbe risultato alla lunga più congeniale).

Contò alla rovescia da dieci a zero prima di decidersi a spingere la porta ed entrare. Riconobbe alcuni dei dipendenti dello SHIELD (Susan dal reparto statistiche, Kenneth da quello informatico, Helen e Peter della reception, Troy della sicurezza), ma nessuno sembrò accorgersi della sua presenza. Silenziosamente grata a tutti quanti, si diresse al bancone senza esitazioni, ignorando le occhiate di certi avventori che non mancarono di seguirla attentamente con lo sguardo, dall'ingresso al punto in cui Barton era seduto.

“Ehi,” richiamò la sua attenzione, “ti sei dimenticato questo.”

L'uomo, voltandosi verso di lei, aveva avuto un leggero sussulto di sorpresa: non mancò di sottolineare il momento topico con un'espressione artificiosamente scioccata.

“Natasha? Sei... sicura di essere al posto giusto?” Si guardò comicamente attorno, come alla ricerca del vero motivo per cui aveva messo piede in un luogo che aveva strenuamente evitato fino a quel momento.

“Ah ah, molto divertente.”

“Non avrei mai pensato di vedere questo giorno,” adesso fingeva commozione, “ero quasi convinto che saresti esplosa dopo aver varcato la soglia. Come un demonio in chiesa.”

“La commedia deve durare ancora per molto?” Una parte di lei era irritata, l'altra si azzardò a visualizzare la scena e ne risultò incomprensibilmente esilarata. Dissimulò il divertimento facendo schioccare la lingua.

“Pensavo più ad una tragedia... greca.”

Natasha lo ignorò, insistendo nel porgergli il telefono, “prima te lo riprendi, prima posso lasciarti alle tue... cose.”

Barton accennò a riprendersi il telefono, ma ritrasse la mano all'ultimo secondo.

“Non sto facendo niente, se non te ne fossi accorta.”

“La tua ragazza è in ritardo?”

“Non so perché ti ostini a volermi affibbiare una ragazza, ma... no, non sto aspettando nessuno.”

“Perché sei uscito di corsa, allora?”

“Dovevo intercettare Jackson per certi biglietti...” lasciò la spiegazione in sospeso.

Natasha non poté fare a meno di pensare che c'era qualcosa di molto sbagliato nel vederlo seduto in disparte, la sola compagnia di una bottiglia di birra a completare il quadretto. Dal modo in cui l'aveva visto interagire allo SHIELD Center, se l'era sempre immaginato circondato da una frotta di amici più o meno ammirati, da donne che cercavano di fargli il filo, altre che tentavano di non cedere alla tentazione di prenderlo a pugni (sapeva essere estremamente irritante quando ci si metteva), ma comunque non da solo. Un'improvvisa consapevolezza si fece strada dentro di lei: era vero che le era capitato di vederlo impegnato in occasionali conversazioni con altri dipendenti dello SHIELD, ma raramente le stesse persone si ripetevano per più di una volta. Ripensò al loro secondo primo incontro, prima da solo nel corridoio dell'helicarrier, poi seduto in disparte a fare colazione. Le fioccarono davanti agli occhi tutte le altre volte in cui era incappata in lui per caso: sempre solo. L'unica costante che le veniva in mente era quella rappresentata dal suo supervisore, l'agente Coulson.

Doveva essere rimasta immobile a studiarlo per un po' troppo a lungo, perché Barton si era finalmente deciso a riprendersi il cellulare, ficcandoselo nella tasca della felpa senza dargli neppure un'occhiata.

Non credeva che ci potesse essere uno scenario peggiore di quello che l'aveva vista ripetutamente protagonista, con Barton che insisteva perché fraternizzasse e lei che voleva solamente non doversi impegnare per interagire con un qualsiasi essere umano, ma quella... quella era decisamente peggio. Adesso non solo si sentiva in colpa per averlo bruscamente rifiutato ogni volta (era suo sacrosanto diritto, ma la prospettiva era appena cambiata radicalmente), ma persino in dovere di rimediare. Alzò gli occhi al soffitto, smozzicando una sequela infinita di improperi, tutti tassativamente in russo.

Infine, quando ebbe esaurito tutto il repertorio, si issò sullo sgabello accanto al suo, richiamando l'attenzione del barman.

“Quella che ha preso lui,” la sua conoscenza in fatto di birre americane era piuttosto limitata: tanto valeva affidarsi all'esperto. Il barman – il famoso Donny, l'inizio di ogni suo male – la squadrò con aria valutativa, lo sguardo assottigliato.

“Ce li hai ventun anni?”

Natasha inorridì, mentre Barton accanto a lei si era messo a ridere.

“Non è divertente,” lo zittì rapidamente, tirandogli un glorioso pugno sulla coscia. “Ne ho quasi ventidue,” asserì, tornando a rivolgersi all'uomo dietro al bancone. Sembrava essere bastata la sua parola a dissipare ogni dubbio, perché pochi secondi dopo una bottiglia gemella faceva compagnia alla birra di Barton.

“Quasi ventidue, ah?” Barton, che aveva smesso di lamentarsi per il colpo ricevuto, sembrò fare un rapido calcolo mentale. Non era sicura che la cosa le piacesse. “Quand'è il tuo compleanno?”

“Non lo so,” rispose sinceramente, provando un sorso di – diceva l'etichetta – Budweiser: fu una pessima idea. Dio, che schifo.

“Allora come fai a sapere che sono quasi ventidue?”

“Fra un mese e undici giorni sarà il nono anniversario del mio passaporto americano.” Quando era entrata nel programma della Red Room ogni informazione che la riguardasse era stata cancellata: non c'era modo di scoprire quando fosse nata o chi fossero i suoi genitori, né di accertarsi se Natalia fosse stato il suo vero nome di battesimo.

Barton la stava guardando con aria confusa (non era sicura se per la reazione alla birra o per la risposta).

“Qui in America la gente è ossessionata dal proprio compleanno. Dopo la terza volta che me l'hanno chiesto, all'accademia, ho semplicemente letto la data che avevo sui documenti e quella è rimasta,” spiegò, studiando con attenzione la parete ricoperta di bottiglie che li fronteggiava, “funziona molto meglio di un 'non ho la più pallida idea di quando sono nata'.”

“L'alone di mistero non mi dispiace,” ammise lui con una scrollata di spalle. “Potresti festeggiare il tuo compleanno tutti i giorni e nessuno oserebbe biasimarti.”

“Suona faticoso.”

Barton rise e annuì mentre si portava la bottiglia alle labbra. “Estremamente faticoso,” convenne. “Se non ti piace la birra puoi prendere qualcos'altro.”

“No, la birra è okay.”

“Questo,” le ripropose la faccia schifata che aveva esibito dopo il primo assaggio, “non aveva l'aria di essere okay.”

“Tutti dicono che alla birra ci si deve abituare.”

“Vero,” le concesse. “Possibile che non te ne sia fatta nemmeno una all'accademia?”

Natasha si strinse nelle spalle. “Evitavo le feste, se potevo.”

“E' il tuo forte,” la prese in giro.

“Sei mai stato ad una festa dell'accademia dello SHIELD?” Si infervorò, sentendo il calore risalirle su per il collo, le guance.

“Un paio,” rispose, perplesso, “ho avuto serate peggiori.”

“Bè, non avevi quattordici anni.”

Barton sembrò sul punto di parlare, ma richiuse la bocca senza aver emesso alcun suono.

“Cazzo, devi essere stata la più piccola là dentro,” ragionò dopo una breve pausa di riflessione.

“Qualcosa del genere.”

“Quindi non hai mai bevuto alcool prima d'ora?”

Fu il turno di Natasha di mettersi a ridere.

“Per chi mi hai presa? Solo perché non avevo mai assaggiato la birra non significa che non abbia mai bevuto alcool,” lo rimbrottò, senza preoccuparsi di nascondere un certo, divertito sdegno nella propria voce. “Posso bere più di te senza fare neppure mezza piega.”

“E' chiaro che non hai mai incontrato il mio fegato.”

“E' chiaro che non hai mai incontrato il mio,” gli fece puntigliosamente eco, voltandosi per fissarlo dritto negli occhi con aria di sfida. “Facciamolo.”

La proposta secca lo colse alla sprovvista. “Vuoi che facciamo una gara alcolica?”

“Perché no?”

“Ci sono un sacco di validissimi perché no,” sentenziò con aria, per altro, non molto convinta, “te li direi anche, se mi venissero in mente.”

“Appunto.”

“Hai veramente intenzione di bere ad oltranza finché non svengo?” Se non altro gli appariva già piuttosto chiaro chi dei due ne sarebbe uscito vincitore.

Natasha si guardò attorno alla ricerca di ispirazione. “Una partita di biliardo, una di freccette, chi perde, beve.”

“Lo sai che a freccette non hai scampo, vero?” Alzò la bottiglia, accennando ad un brindisi per suggellare l'accordo.

“Staremo a vedere,” decise di non sbilanciarsi, facendo tintinnare vetro contro vetro.

 

Oh, andiamo!” L'ennesima palla sparì con un mesto plof nella buca in cui Natasha aveva annunciato di volerla spedire, accompagnata da un'esultanza generale. “Da dove diavolo sei uscita?”

Sono piuttosto sicura che tu non voglia saperlo,” replicò prontamente, senza trattenersi neppure più di tanto per non sorridere troppo apertamente. “Alla goccia, forza.”

L'agente Barton ingollò l'ennesimo shot di vodka liscia, allineando poi il bicchierino vuoto alla sfilza di quelli che aveva già collezionato.

Barton, la ragazzina ti sta facendo a pezzi,” uno dei clienti del pub gli era appena passato di fianco, tirandogli una poderosa pacca sulla schiena. Una sua vecchia conoscenza?

Ah ah. Dici così solo perché non la conosci.”

Mentre Natasha si chiedeva se il suo partner la conoscesse veramente, aveva già individuato il suo prossimo obbiettivo.

Preparatene un altro,” lo avvertì solennemente. “Palla numero sei in buca d'angolo.”

 

Scoccò un'occhiata infernale all'uomo alto e scuro di capelli che si era appena seduto alla loro sinistra. La freccetta le era sfuggita di mano prima del tempo, per andare a conficcarsi nel cerchio più esterno del bersaglio. Non il suo risultato peggiore, ma era sicura al novantanove virgola nove per cento che il suddetto tizio, di ritorno dal bancone col suo drink in mano (un intruglio giallognolo e dolciastro che emetteva un odore nauseabondo), l'avesse sospinta in avanti, facendole fallire (l'ennesimo) tiro.

Non te la prendere, 'tasha,” il fatto che Barton stesse progressivamente rinunciando a scandire le proprie parole (il suo nome incluso) senza aver mancato neppure un centro, non la faceva sentire affatto meglio. Le porse l'ennesimo shot di Jack Daniel's: Natasha non esitò a scolarselo, trattenendo a stento la smorfia di fastidio che le procurò.

Barton, che aveva già scagliato la sua (boccale di birra alla mano, sguardo puntato alla televisione, centro pieno), le passò un'altra freccetta. Se la rigirò tra le mani e prese l'unica decisione possibile: dopo un complicato movimento di braccio, la scagliò con tutta la sua forza... nella direzione sbagliata. Andò a conficcarsi nello stinco dello sconosciuto che le aveva – ora se n'era accorta – toccato il culo, facendole per di più mancare un tiro decisivo. Indossò la più convincente maschera di desolazione di cui fu capace. “Oh, dio, mi scusi! Sono così sbadata!”

L'agente Barton scoppiò a ridere.

 

Si trattenne a stento dal prendere a calci il flipper che avrebbe dovuto fungere da spareggio e porre così fine al triathlon alcolico della serata.

Dio, lo odio!”

Se continui così lo ucciderai!”

E' già morto, non lo vedi? E' un rottame!”

Ehi, questo coso ha potenzialmente la mia età!”

Per quello!”

Non sei carina, Tasha.”

Cazzo, Barton, vuoi smetterla di storpiare il mio nome?”

Non finché non la smetterai di chiamarmi Barton.”

Come vuoi che ti chiami? 'Int? O Clì?” La domanda le era uscita mortalmente seria.

O 'Ton.”

Perché Ton?”

Perché mi chiamo Clinton.”

Natasha non fu capace di resistere alla crisi di riso che ne seguì.

 

“Devo andare in bagno,” biascicò, tenendosi faticosamente il mento con entrambe le mani.

“D-Di che ti 'amenti?” La risposta di Clint le risultò a malapena decifrabile, riverso com'era sul tavolo, a braccia conserte. “L'hai visto il 'agno 'egli uomini?”

“Ho visto la tua brutta faccia, vale?”

“E non ho ancora 'mitato.”

“Sono impressionata.”

“Non 'ei 'arina.”

“Sta' zitto, Clinton.”

“Non chiamarmi Clinton!” Le sue capacità di scansione verbale erano tornate tutte insieme, a sottolineare la gravità del momento.

“Ohi, voi due!”

Natasha rialzò lo sguardo.

“Oh oh,” le uscì, prima di potersi trattenere (era ancora più o meno lucida, ma il filtro pensiero-parola, era praticamente andato a fasi benedire), “sei nei guai,” canticchiò.

Donny, fermo a qualche metro di distanza, richiamò la loro attenzione: la scopa in una mano, con l'altra li indicava a quello che Natasha aveva riconosciuto come l'agente Phil Coulson.

“No, Phil, non ancora! Non le ho ancora chiesto se le piace Nicolas Cage!”

“Chi è Nicolas Cage?”

Chi è Nicolas Cage?

 

****************

Comincia un breve mini-arco in cui Clint... tenterà l'impossibile :P O quasi. Mi sembrava giusto farli avvicinare e non esclusivamente sul piano lavorativo. (Neanche dirlo, mi diverto un sacco a scrivere di queste cose XD).
Oggi sarò breve perché lo studio chiama. Quindi grazie ad Eli, come sempre <3 e a tutti coloro che hanno letto & commentato! :') mi fa tanto piacere!
Alla prossima!
S.
  
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