CAPITOLO
QUARTO
L’HOMME
LIBRE
Homme
libre, toujours tu chériras la
mer!
La
mer est ton miroir; tu contemples ton âme
Dans
le déroulement infini de sa lame,
Et
ton esprit n'est pas un gouffre moins amer.
(…)
Ô lutteurs éternels, ô frères implacables!
{C.
Baudelaire – L’homme et la mer}
Dico
alle persone di chiamarmi Axel Cavendish. Ma in realtà non ho un nome:
un nome è qualcosa a cui appartenere e un luogo dove ritornare, e
questo per me
non vale. Quindi io non mi chiamo Axel Cavendish, ma è lecito
identificarmi
così.
Nato da stirpe nobile, di essa ho ereditato solo il patrimonio, il
colore degli
occhi e l’amore per il mare.
Avevo
un nonno da parte
di padre ammiraglio e una madre dagli occhi blu e adultera che ormai
non posso
più rimproverare, sebbene l’abbia odiata a lungo – mi aveva concepito
per
contratto ma voleva ancora amare.
Mio padre mi ha insegnato a comportarmi da Lord e io ho imparato a fare
l’attore: che la mia, in talune occasioni, sia ipocrisia o arte, sta
tutto nel
buon fiuto della persone con cui mi rapporto. L’osservatore più fine la
chiama
ispirazione.
Rispondo
quasi sempre
alle aspettative – poi a un certo punto voglio fare da me.
Mio padre mi ha messo per la prima volta su una nave per punirmi, e
invece mi
ha reso la libertà.
Ho preso la strada del commercio verso il Giappone per noia, e lì ho
trovato
una vita inquieta così come la volevo: la vita amara del navigante è
quella che
fa per me.
A quanti mi dicono che, visto che potrei permettermelo, dovrei lasciar
fare
quei rischiosi viaggi ad altri, e controllare gli introiti, rispondo
che, visto
che posso permettermelo, vado io e lascio ad altri il controllo delle
entrate.
Non che ami il Giappone in modo particolare, è solo il posto più
lontano della
Terra.
Nemmeno odio l’Inghilterra in qualche maniera, il problema è che, non
sentendomi a casa da nessuna parte, preferisco non averne una.
Torno per pochi mesi, e solo per organizzare il viaggio successivo.
Quando non
verso il Giappone, parto alla volta dell’India, dell’Africa,
dell’America. Ma
non qui.
Quando sono indeciso tra due luoghi scelgo il più lontano.
Ho un’amante fissa per continente e non ne voglio di più, perché
dell’amore e
del sesso non mi importa più del necessario.
Mi manca solo quella europea, ma ho deciso che l’unica amante fissa che
posso
volere da questa terra sarà una viaggiatrice e allora diventerà mia
moglie.
Per il resto, non ho paura di spezzare cuori: finché saprò fare del
male saprò
di essere libero, e allora tutto continuerà ad andare bene.
Sono disumano a volte – e per questo felice.
Odio le persone fedeli perché, per quel che riguarda l’amore, non hanno
il
senso dell’umorismo e in generale piangono in continuazione.
Ho
rincontrato Elizabeth Middleford una decina di anni
fa. Lei era una donna fedele.
E per questo decisi di farla ridere un po’.
Avendo
passato l’infanzia e la prima gioventù
sulla terra ferma avevo collezionato un discreto numero di facce e
amicizie –
non più coltivate molto, a dire il vero – ma che a volte rincontravo a
qualche
evento mondano a cui ero ancora costretto a
partecipare.
Da bambino, mio nonno mi portava spesso a giocare presso la loro
residenza del
Marchese, quando Middleford e Cavendish avevano degli affari comuni di
cui
discutere.
Ricordo con affetto i Middleford.
Edward era un compagno d’avventura di quelli rari, temerario e
scavezzacollo,
le nostre corse per le campagne inglesi erano cosa ben poco signorile.
Tornavamo a casa con i vestiti sporchi di fango e della frutta che
rubacchiavamo in giro come discoli; sua madre fingeva un rimprovero,
faceva
preparare un bagno e poi la merenda.
Appozzati nell’acqua bollente, gli raccontavo dei libri che
avevo
letto dal nostro ultimo incontro. L’unico difetto di Edward era questo:
non
leggeva. Però gli piaceva ascoltare le storie, diceva che ero un buon
narratore.
Ho perso il conto di quante volte si sia fatto raccontare i Gulliver’s
Travels.
Quando
non riuscivamo a
fuggire dalla residenza per lanciarci in aperta campagna, a volte
giocava con
noi anche la sorella.
Elizabeth
si fingeva una
signorina troppo femminile e altezzosa per poter perdere il suo tempo
con due
maschi, ma poi, colta dalla noia e gelosa del fratello, diventava un
commilitone.
Lizzy, così
mi aveva chiesto di chiamarla - cosa che ho sempre rifiutato di fare,
perché trovo delittuoso storpiare un nome così evocativo a causa della
sola
confidenza -, ella mi era sempre in qualche modo piaciuta: era vanesia
e forte.
Quando
l’ho ritrovata, una decina di anni dopo, aveva
coronato il suo sogno di sposare Phantomhive – e questo l’aveva resa
fragile e
dubbiosa.
Sì, in effetti l’unica cosa che non mi era mai piaciuta di lei era la
vocazione
al focolare domestico: credeva davvero di poter riporre la propria
felicità
nella fedeltà di un’altra persona?
***
Persi di vista i fratelli quando barattai la terra per il mare, e
perché, negli
ultimi tempi delle nostre frequentazioni (si parla dei miei diciassette
anni e
dei quindici di Edward), avevamo perso l’intesa –l’oceano mi aveva
fatto
distante.
Edward mi disse un giorno: tu fuggi.
Tu
non riesci nemmeno a fuggire.
L’ho
salutato così l’ultima volta – lui si è sposato e io ho continuato a
fuggire: avevamo ragione entrambi a diffidare l’uno dell’altro.
Quando
la ritrovai, Elizabeth era ancora bella, ma
dello sguardo vivo di un tempo era rimasto solo il colore – una fiera
prostrata.
Era
appoggiata
debolmente ad un parete, pallidissima. La testa buttata lievemente
indietro, un
velo di sudore sulle guance, le narici dilatate. Le crine bionde
scomposte, il
tessuto della gonna stropicciato tra le dita nervose, sulle labbra come
un riso
amaro, o una bellissima smorfia: una baccante.
Più avanti avrei ritrovato in lei un’eroina tragica: come Antigone
cresceva in
sé un amore incapace di scendere a compromessi, e di Medea aveva la
vocazione,
vagamente feroce, a sacrificare tutto per esso.
Per quanto poco atto ad un’occasione mondana, quell’aspetto la rendeva
estremamente seducente.
Mi riconobbe subito – anche dietro occhi velati di angoscia e lacrime
trattenute.
Sorrise
debolmente al
mio indirizzo; un sorriso accalorato, grato, da sconfitta: salvami,
portami via, diceva – e intanto lo sguardo
che
volgeva ad un corridoio buio alle mie spalle.
Elizabeth
Middleford era
vittima e complice di Phantomhive – era lei la prima a tradire se
stessa.
Le asciugai le lacrime con una carezza e il ricordo del fratello.
Mi aprì il suo cuore con una facilità quasi imbarazzante.
Semplicemente,
cominciò a parlare.
L’avevo convinta a ballare con me, e in mezzo alla folla mi sussurrò
all’orecchio, nuovamente in lacrime, che suo marito era in qualcuna di
quelle
stanze con un’altra donna. Lui l’aveva guardata proprio negli occhi.
Lei aveva ricambiato l’occhiata e lo aveva osservato andare via e non
aveva
fatto né detto nulla.
“Perché?”, le chiesi.
“Se lo sapessi soffrirei di meno.”
“Non perdonare”.
“Non ho perdonato, infatti.”
“È questo quello che chiamate amore?”
“È anche questo, Axel.”
Aspettava che il marito finisse di tradirla per tornare a casa insieme.
Scherzi?
Tentò
di appoggiarsi a me, come sfinita, ma la costrinsi ad un volteggio
completamente fuori tempo: la sua gonna si gonfiò come un bel fiore
rosa in
mezzo alla pista.
“Lo sapete perché viaggio, Elizabeth?”
Mi guardò confusa, ancora stordita dalla giravolta, la accostai al
petto,
impedendole di divincolarsi.
“Perché le donne come voi non le sopporto e l’Inghilterra ne è piena.
Cerco una terra in cui un uomo possa tradire apertamente la propria
donna senza
farla soffrire, e in cui una donna possa tradire il suo uomo in segreto
senza
sentirsi in colpa.”
“Non è quello che voglio, tradirlo.”
Mi piacque perché i suoi occhi si riempirono di una rara vitalità,
sebbene
fosse quella della leonessa ferita a morte.
“Ne
siete sicura?”
“E tanto meno con voi.”
“Chi ha parlato di me?”
“Ho
sbagliato a parlare con voi, non siete più quello
di una volta.”
“Voi, Elizabeth, non siete più quella
che conoscevo.”
“Lasciatemi andare e dopo lasciatemi in pace, Axel.”
“Perché non dite la stessa cosa a vostro marito?
Vi ha tradito e ora, da quel che comprendo dal modo in cui mi guarda,
ha pure
la faccia tosta di fare la persona gelosa.”
Non fece in tempo a voltarsi verso dove si trovava il Conte dei miei
stivali,
che il violinista fece sfumare l’ultima nota, la lasciai andare.
Allontanandosi disse:
“Vi auguro di trovare quella terra. Temo che non sia in questo mondo,
un mondo
in cui, nel bene o nel male, esiste ancora l’amore.”
“Esiste anche la libertà, a questo mondo. Cerco solo uomini e donne che
sappiano concepirla.
Ci vedremo presto, Elizabeth.”
Sorrisi, lei ricambiò, sardonica.
“In quella terra, dopo che l’avrà trovata, Marchese di Cavendish?”
“Anche in questo schifo di Inghilterra, purché voi siate presente e
torniate in
voi stessa.”
“Quando?”
“La settimana prossima. Al compleanno di vostra madre.”
Il sorriso le morì in viso un momento, per poi risorgere.
“A presto allora, Axel.”
Mi inchinai e la lasciai finalmente tornare da quel mestatore di
Phantomhive.
Fu bella un istante, poi si avvicinò a lui, si spense.
Li guardai uscire dalla sala a braccetto: la schiena del Conte era così
esile
che non capii in che modo una donna potesse trovare desiderio di
avvinghiarsi
ad essa.
Le spalle eburnee e delicate di Elizabeth, invece, erano proprio quanto
di più
delicato e perfetto che un uomo avrebbe voluto proteggere.