Molly
si svegliò e fu come se non lo avesse fatto. Si rigirò nel letto, cercando di dare
un significato alla babilonia che aveva in testa e di spegnere quello stupido,
enorme sorriso che sembrava essersi cucito alla bocca.
Si
voltò e affondò la testa sotto il piumone, ridendo e sentendosi perfettamente sciocca, ma anche incredibilmente a proprio agio nella sua felicità. Era successo davvero? Stava
ancora sognando?
Si
sfiorò le labbra, ricordando la consistenza dei baci della notte prima, il
calore degli abbracci che li avevano accompagnati.
Sono la creatura più
felice dell'universo. Forse altri lo hanno detto prima di me, ma nessuno con
tanta ragione.
Molly
spense la sveglia nello stesso momento in cui squillò e scattò in piedi, in piena
fibrillazione. Infilò la vestaglia alla rovescia e dovette tornare indietro
perché aveva scordato le pantofole.
E
poi di nuovo per aver dimenticato - “Toby”, lo chiamò colpevole e lui miagolò
il suo disappunto. “Mi dispiace. Non so dove ho la testa, stamattina.”
Era
una bugia. Sapeva fin troppo bene dove l’aveva lasciata; più o meno dov’era
sempre stata negli ultimi dieci anni: nella tasca di un investigatore a caso,
insieme al suo cuore.
*
Il
salotto era in fermento. Be’, forse era una gonfiatura, ma rimaneva il fatto
che ci fosse fin troppa vita per quella data ora della giornata.
Sherlock
impartiva ordini a Mrs. Hudson, usando l’archetto del violino per dirigere
l’orchestra dei suoi spostamenti.
Fu
il primo ad accorgersi di lei.
Molly mise giù Toby, biascicò un timido ‘giorno, fissando lo sguardo ovunque
tranne che su di lui.
Avevano
allestito la tavola, ma non c’erano bricchi e tazze. C’erano innumerevoli
fiori, invece, un’infinità di fiori, fiori a perdita d’occhio e ogni fiore occupava
un piccolo recipiente o un bicchiere o una caraffa. La penuria di vasi aveva prodotto
la drastica scelta di utilizzare anche gli strumenti da laboratorio di
Sherlock.
Molly
intravide un crisantemo rosso in un cilindro graduato. Un ramo di biancospino –
i corimbi bianco-rosati - in un densimetro. Una ginestra in un matraccio. Un
trifoglio bianco, una viola blu, una rosa muscosa, un’orchidea, un bucaneve,
una campanula.
Batté
le palpebre, sbalordita. Stava per chiedere cosa significasse
quell'asserragliamento di colori e profumi, quando Mrs. Hudson le volò incontro.
“Benedetta, ragazza! Cara, cara
ragazza,” le baciò le guance. “Sherlock mi ha raccontato ogni cosa. Sono così
felice per voi! Così felice che credo potrei scoppiare dalla gioia.”
Molly
si limitò a farsi strizzare il mento e accarezzare le mani e vezzeggiare da
lei, con occhi vacui e distanti.
“Mrs.
Hudson,” disse Sherlock.
Il
blaterante cicaleccio cessò. “Vorrete stare soli, certo. Permettimi di dirti
un’ultima volta quanto felice -”
“Mrs.
Hudson.”
“Mi
aspetto davvero che tu plachi questi tuoi modi rudi, caro. Molly dovrebbe
essere un deterrente sufficiente.” Con
un sospiro tremulo e commosso, Mrs. Hudson uscì.
Sherlock
non attese oltre. Posò l’archetto sul mobile di fianco alla finestra, le si
avvicinò e la baciò, a lungo e pressantemente.
Quella
stupida, assolutista e prepotente felicità si riaffacciò insieme a quell’ancor
più stupido sorriso qualunque.
Questa
volta lei non era impreparata. Artigliò la camicia di Sherlock tra le dita,
mentre gli sfiorava la fronte e i capelli – ed erano come aveva sempre pensato
che dovessero essere: soffici al tatto e sfuggenti, linee e curve d’ombra. Dio, se era piacevole. Era vero; ed era suo.
Lo
baciò più a fondo, urtò il naso contro il suo, ma non importava, non aveva
davvero la minima importanza.
Sherlock
le poggiò le mani sui fianchi e Molly sentì la scarica di piacere raggiungere
picchi irresistibili. Si staccò a malincuore, con il fiato corto e le guance che
le scottavano. Si passò la lingua sulle labbra e vide che gli occhi di Sherlock
– le pupille dilatate, i capelli arruffati per la foga con cui lei ci aveva
infilato la mano attraverso – seguivano il gesto.
“Dopamina,”
lo sentì dire, la voce appena meno disciplinata del solito.
Molly
annuì. La dopamina, il neurotrasmettitore
del piacere. Il suo doveva essere alle stelle.
Fece
per baciarla di nuovo, ma Molly lo frenò e il nuovo bacio fu un discreto
sfiorarsi di labbra. “Sherlock, aspetta. Tutto questo è molto piacevole, ma...”
Sherlock
sorrise furbamente. Aveva un sorriso inedito, da ragazzo.
Molly
ne fu abbagliata e stregata. “Ma dobbiamo parlare,” concluse. “Ieri sera non ne
abbiamo avuto modo.”
E
Molly non avrebbe voluto perché Dio,
aveva trent’anni e non era alla sua prima cotta, ma non poté farci niente,
arrossì. La sera prima, ricordava, erano stati troppo impegnati a pomiciare per
scambiarsi più di qualche parola.
Sherlock
annuì, con l’aria di trovare quanto aveva detto del tutto ragionevole. “Chiedi
e avrai risposta.”
Un
minuto più tardi erano entrambi sul divano, l’uno di fianco all’altra.
Lui
era seduto compostamente, nella trasposizione della postura perfetta: quel
punto di mezzo tra la legnosità e la flessibilità. Lei era curva in avanti, le
braccia sulle ginocchia e le mani sovrapposte. Le guardava come se non sapesse
cosa farci, come occuparle.
“Io
–” Molly deglutì. “Hai detto di provare qualcosa. Per me.” Detto ad alta voce
ed espresso da lei non era utopia. Era peggio, molto peggio: trascendeva ogni
logica umana. “Quando ha avuto inizio?”
“Tre
anni fa.”
“Tre
anni fa,” ripeté a pappagallo, sperando che ripeterlo trovasse un senso a
quello che aveva sentito, glielo rendesse più comprensibile. Scosse la testa
con forza. “Mi dispiace, non credo di aver capito.”
“Hai capito benissimo, Molly.” Sherlock espirò, guardandola intensamente. “Quando
sono tornato ero intenzionato a parlartene, ma tu eri fidanzata.” C’era
qualcosa in fondo ai suoi occhi, una specie di lampo che era molto facile
associare al dispetto.
“Non
provare a dare la colpa a me, Sherlock Holmes! Non osare. Avresti potuto
parlarmene, avresti dovuto.”
“Per
dirti cosa?” Sherlock fece una smorfia. “Eri andata avanti. Inoltre sembravi
felice. Pugnale di carne ti rendeva felice.”
Eri tu, avrebbe voluto dire
Molly. Ero felice che tu fossi tornato. “I
conti non tornano lo stesso. Io e Tom ci siamo lasciati mesi fa. Perché non hai
parlato allora?”
“Lo
ammetto, il mio è stato un errore di calcolo. D’altronde avevo altre questioni
per le mani. Dovevo diroccare la fortezza di un estorsore internazionale e i
Watson non mi erano di alcun aiuto, ostinandosi a comportarsi come bambini.”
Molly
annuì. Ricordava il periodo: i mesi che avevano preceduto Natale. “Per via di
Mary, vero?”
“Certo,
per via di Mary.” Sherlock le rivolse un breve cenno prima di bloccarsi a metà
del gesto e squadrala con una diffidenza mista ad una sorta di ammirazione. “Cosa sai di
questa storia?”
“Solo
intuizioni,” rispose Molly, improvvisamente a disagio. “E… sensazioni. Greg si
è lasciato sfuggire quello che John gli aveva detto, che credeva che tu stessi
proteggendo chi ti aveva sparato. E poi c’è stato l’allontanamento tra John e
Mary e tu, la notte in cui sono venuta a trovarti.”
La
fronte di Sherlock s’increspò in un lieve acciglio. “Quale?”
“Eri
sotto anestesia.” Molly chiuse gli occhi mentre il ricordo, vivido e doloroso,
le sbocciava in mente. Li riaprì quasi subito, disperdendo l’immagine in
barbagli di presente. “Hai fatto il nome di Mary. Mi è sembrato abbastanza
strano all’epoca, così ho iniziato ad osservare.”
L’orgoglio
di Sherlock era evidente; si offuscò nell’ombra di un secondo pensiero. “Non
sapevo che fossi passata,” disse e in tono di accusa: “Non sei mai venuta a
trovarmi, dopo.”
“Tu
non lo hai mai chiesto.”
“Mi
ero comportato orribilmente.”
“Sì,
sei stato atroce, ma d’altronde non eri in te.” Molly non poté trattenersi dal
fare una smorfia.
Forse
trapelò qualcosa, un’eco dell’amarezza e della delusione si rincorse nei suoi
occhi, o forse lui li notò nel modo improvviso in cui aveva serrato la bocca.
Fatto stava che con uno scatto agile, repentino Sherlock le fu di fronte; le
afferrò le mani tra le sue, costringendola a guardarlo. La sua espressione, la
luce di animazione nel suo sguardo, sul viso di qualunque altro uomo, sarebbero state
dichiarazioni sufficienti. Nel caso di Sherlock non erano soltanto adeguate, ma
tutto ciò di cui lei aveva bisogno.
“Cosa
vuoi, Molly?” domandò Sherlock, il tono basso e accorato, imperioso.”Di cosa
hai bisogno?”
Di te. “Non voglio giuramenti
o promesse o quel genere di cose,” rispose Molly. Sherlock la invitò a
proseguire con lo sguardo.
Sherlock
esitò. Capiva perfettamente la portata di quel che lei gli stava chiedendo. “Posso…
provarci.”
“E
io posso aiutarti, posso accertarmi che tu ci riesca. So essere uno straordinario
deterrente a quanto dicono.” Gli sorrise e gli pose le mani ai lati del volto, accostando il proprio.
“I sentimenti non sono la tua area di competenza. Lo so, non importa. Finché
posso vederli, non è importante che tu dica niente.”
“Potrei
non dirtelo mai,” affermò lui. Molly lo sapeva.
“Ma
hai ragione,” proseguì Sherlock. “Posso mostrartelo.” Si alzò e
aprì le braccia per indicare la stanza nella sua interezza. “Osserva il mio regalo per te, Molly.”
Molly
scoppiò a ridere per il modo solenne in cui lui li aveva riportati alla sua
attenzione. “Fiori?”
Sherlock
arcuò le sopracciglia, scoccandole un sorriso vago e allusivo. “Non fiori,
Molly,” la corresse affettuosamente. “Parole di un linguaggio a fruizione di
pochi privilegiati.”
Presentandola
come una regina al suo corteo, lui le sussurrò all’orecchio il significato di
ogni pianta e tralcio nelle ampolle.
Agrimonia.
Gratitudine.
Un
fiore di sambuco. Vera compassione.
Girasole.
Devozione.
Margherita.
Pazienza.
Ogni
fiore era un tuffo al cuore.
Come
avrebbe potuto non credergli? Come avrebbe potuto resistere alla perfezione di
quella felicità che l’assaliva, la colmava?
Semplice,
non poteva.
*
Sherlock,
cos’è questa storia di te e Molly? Mrs. Hudson va raccontando che – ma no, è
impossibile. Lascia stare.
John, 10:01
Lo è
giusto? Impossibile, intendo. Mrs. Hudson dice – ma non importa. Per anni ha
detto che noi eravamo una coppia. Non dovrei più sorprendermi di niente,
giusto?
John, 10:06
Okay,
so che è da pazzi, ma devo saperlo. Tu e Molly…?
John, 10:09
Sherlock,
se è uno dei tuoi stupidi scherzi o uno dei tuoi stramaledetti esperimenti,
giuro su Dio che ti farò passare un brutto quarto d’ora.
John, 10:13
Ripensandoci,
no. Ho deciso che ti farò guardare il video del parto di Mary.
John, 10:18
Okay,
no. Mary minaccia di sparare a entrambi se solo mi azzardo.
John, 10:19
Sul
serio? Tu e Molly? Molly Hooper?
John, 10:25
Se la
fai soffrire, Sherlock, migliore amico o no, Katie si ritroverà orfana del suo
padrino. Mary è d’accordo con me.
John, 10:30
Sto
iniziando a preoccuparmi. Non è da te non rispondere. No, aspetta. È esattamente da te, razza di idiota. Mettiamola
così. Se non rispondi entro dieci minuti, aspettati me e metà Scotland Yard a
Baker Street. E Mycroft.
John, 12:01
John,
taci. Ho le mani impegnate.
Sherlock, 12:01
Oh. Oh. Cristo, quanto ti odio quando fai così.
John, 12:02
*
Com’è
vivere con Sherlock? Com’è amarlo, Molly? – le aveva chiesto Meena.
Era
come respirare, avrebbe voluto risponderle. Tornare a respirare dopo che per
anni aveva avuto il petto stretto in una morsa, come in uno di quei busti di
gesso o un bustino vittoriano o un corsetto ortopedico. Non si aveva piena
libertà di movimento, ci si sentiva costretti in qualcosa che non ci apparteneva,
non ci era proprio. E quando finalmente lo si toglieva, quando quel peso che aveva
costretto il petto scompariva, si facevano ampi e profondi respiri. Si era
liberi. Ci si sentiva di nuovo se stessi, tutti d’un pezzo.
Cercare
di non amare Sherlock, cercare di andare avanti, - Dio, che sciocca era stata – di circoscrivere i suoi sentimenti e
ingabbiare l’amore, rimuoverlo, era stato come uccidere una parte di sé, un
gesto contro natura.
Amarlo
era come tornare a casa. Una frase fatta, ma era così. Amarlo era percorrere la
strada di casa. Si rendeva conto di non essersi mai allontanata troppo. Era
rimasta sul giardino del cortile per tutto il tempo, aspettando che qualcuno,
dall’interno, aprisse la porta per lei. Finalmente era successo.
*
Tutto
era stato deciso in quel momento. O forse molto prima: una notte lontana, in
cui lei aveva abbassato le difese e gli aveva mostrato i suoi dubbi. Non conto.
C’erano
state scene imbarazzanti. (“Dio, no.” Sally aveva scosso la testa. “Dimmi che
non ci vai a letto. Non il Fenomeno.”
Con
candore, Molly aveva detto che il soprannome era più che meritato.
Sally
era parsa disgustata. “Sai che adesso non potrò più chiamarlo così, vero?”
Molly
aveva riso. “Lo spero.”)
Scene
commoventi. (“Te lo affido, Molly.” Un John visibilmente turbato le aveva
passato il testimone.)
Scene
irreali. (“Mi auguro che il tuo non sia il semplice bisogno di un uomo immaturo
che soffre di carenza d’attenzione.” Meena era comicamente seria.)
Scene
ridicole. (“Gesù! Anderson aveva ragione? Anche su questo? Dovresti parlarci, sul serio. A questo punto un sacco di
sue teorie sui complotti mi paiono meno idiote se aveva indovinato questo.” Greg l’aveva presa meglio del
previsto.)
E
poi Mycroft, che non era classificabile in alcuna graduatoria. Nel suo caso,
ovviamente, era bastata un’occhiata all’apparenza superficiale e di pura
sopportazione. “Mamma sarà deliziata, Sherlock.”
*
Tutto
era cambiato, ma non loro.
N/A:
Capitolo
lampo, scritto stanotte o stamattina – erano le tre, non
la tiro per le lunghe, è per questo che è leggermente allucinato. Vado di
corsa, quindi vi lascio solo con un grande, ciclopico abbraccio e incrocio le
dita nella speranza che vi si piaciuto.
Il
prossimo capitolo si ritorna in azione. Finalmente mostrerò tale Victoria Queen
e il folgorato Henry Knight (che troverà Molly molto attraente, con conseguente
gelosia di Sherlock).
Sono
la creatura più felice dell'universo. Forse altri lo hanno detto prima di me,
ma nessuno con tanta ragione. (Elizabeth Bennet, Orgoglio e Pregiudizio)