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Autore: grenade_    22/06/2014    0 recensioni
La pioggia era senza dubbio aumentata d’intensità, tanto che ora alle auto era impossibile vedere la strada senza l’aiuto dei tergicristalli.
Feci un passo sul marciapiede e proseguii verso la sua direzione, fin quando non le fui così vicina che il suo riparo era diventato il mio. Lei alzò lo sguardo su di me, osservandomi dapprima confusa, poi si sciolse in un piccolo sorriso.
Il pensiero che potesse avermi riconosciuta mi balenò nella mente, e così ricambiai il suo sorriso, dolcemente.
«Posso accompagnarti a casa io, se ti va.»
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Jade Thirlwall, Perrie Edwards
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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 Perrie

 
Da piccola sognavo la fama mondiale. Mi piaceva gironzolare per la mia stanza con addosso i tacchi di mia madre e gli occhiali da sole e fingermi una grande star internazionale, occasionalmente avvolta in una coperta con gli orsacchiotti stampati sopra che usavo a mo’ di abito da sera. E così camminavo sulle piastrelle in marmo facendo un grande sforzo ogni volta che cercavo di alzare quelle scarpe grandi circa il doppio della mia misura, rischiando anche di inciamparci e farmi male. Ma non m’importava finché mi trovavo nella mia tenera bolla, in cui ogni abitante sulla faccia della Terra conosceva il mio nome e tutti sognavano di conoscermi, stringermi la mano, fare una foto.
«Edwards, tavolo 5!»
Emisi un lungo sospiro stanco, ma ancora una volta mi sforzai di esibire il mio falso sorriso di circostanza. «Vado subito, Josh.»
Ecco cos’ero veramente, invece: “Edwards”, la bionda ossigenata del bar dietro l’angolo.
Se fossi venuta a sapere prima che avrei finito col lavorare come cameriera in un monotono Starbucks, avrei gettato via tacchi e occhiali da sole e sarei corsa ad aiutare mamma in cucina con le stoviglie, così da tenermi preparata per il futuro.
Sbuffai silenziosamente e mi legai il grembiule alla vita, dichiarando il mio turno di lavoro ufficialmente iniziato.
Era il mio terzo anno di lavoro lì dentro, e mai qualcosa in vita mia mi era pesato così tanto come il solo pensiero di alzarmi e recarmi in quel locale al mattino. Per qualche strano motivo mi sembrava di seguire sempre il solito copione, tutte le mattine: stesso tragico risveglio, stesso giornaliero ritardo, stesso rimprovero da parte del capo. E poi stessa giornata, stessi clienti, persino le stesse identiche ordinazioni; di certo non si poteva dire che i londinesi avessero fantasia.
«Un frappuccino con molto latte e un soffio di cacao e un milkshake al cioccolato con panna al tavolo 5.» enunciai a Jesy l’ordinazione della coppietta al tavolo, picchiettando la penna sul blocchetto con fare annoiato.
E lei aggrottò la fronte, leggermente confusa. «Non è quello che hanno ordinato anche ieri?» domandò retorica, e tutto quello che ricevette in risposta fu un indifferente scrollata di spalle, seguita da un sonoro sbadiglio.
«Dovresti dormire di più.»
E come escludere le critiche dalla mia fantastica routine? Ne ricevevo a bizzeffe, tutti i giorni.
Jesy era la mia più vecchia collega, aveva iniziato a lavorare qui esattamente un mese prima di me, ed eravamo le più esperte nel settore, per quanto potesse essere da esperti preparare caffè e servirli ai tavoli fingendoti entusiasta.
Era una ragazza particolare, e non aveva peli sulla lingua: era la cosa che più mi aveva colpito di lei, sin dall’inizio. Possedeva un’inspiegabile allegria che non smetteva di sfoderare in modo irritante, tuttavia dentro di lei era nascosta una persona ben differente, che avevo conosciuto solo un anno prima e solo per una sera. Non lasciava che gli altri vedessero ciò c’era davvero dietro, sapeva nascondere bene le sue emozioni. Al contrario mio, che dovevo essere sollecitata tutte le mattine a mostrarmi sorridente ai clienti senza lasciar trasparire la mia innegabile antipatia nei confronti di tutti loro e di quell’occupazione in generale.
«Non ce l’ho il tempo per dormire Jesy, sto segregata qui dentro otto ore al giorno, l’hai dimenticato?» replicai, poggiandomi stancamente al bancone, come una studentessa appena tornata dalla sua giornata scolastica all’università. Io non sapevo nemmeno come fosse fatta un’università.
«Anch’io seguo i tuoi stessi turni, ma non sembro un relitto al mattino.»
Le rivolsi un’occhiata fulminante, assottigliando gli occhi azzurri. «Io non sono un relitto.»
E lei ignorò il mio commento a proposito, come sempre quando entrava in modalità “mamma iperansiosa”.
«Mi piacerebbe sapere cos’è che fai una volta fuori da qui dentro per ridurti così; non hai nemmeno un ragazzo.». Alzò le spalle in un’espressione di sufficienza, mentre le sue dita si muovevano veloci tra pentolini e tazze, con una destrezza che non avrei saputo eguagliare.
Sospirai rumorosamente e mi distesi lungo il bancone con le braccia, preparandomi psicologicamente a quella che sarebbe stata la prossima domanda.
«Da quanto tu e Zayn non vi sentite?»
Ed arrivò dritta e puntuale, insieme al mio disappunto per la scelta dell’argomento che aveva deciso di tirare in ballo.
«Qualche settimana, mi sembra.» risposi vaga, col viso rivolto alla parete color avorio del locale.
«O mese.» puntualizzò lei.
«Comunque non mi interessa.»
Fece un piccolo sorriso che mi parve sarcastico, e che evitai di considerare, per non darle un ulteriore incentivo a iniziare una lunga predica completamente inutile.
Non ero interessata ad una relazione; era così che giustificavo la mia solitudine sentimentale. Eppure Zayn non sarebbe stato poi così male come candidato: era senza dubbio un bel ragazzo, uno di quelli che potrebbe essere circondato da ragazze con un semplice schiocco di dita, ma non mi sentivo affatto interessata a lui. Era simpatico, piacevole, mi corteggiava in un modo tutto suo da quattro mesi a quella parte, ed ero certa che molte ragazze avrebbero voluto essere al mio posto, ma non potevo certo fingere interesse per fargli un favore. Non mi prendeva sentimentalmente, non mi piaceva e non rispondevo mai alle sue chiamate, o annullavo i nostri appuntamenti con qualche scusa stupida.
Strano che ancora mi corresse dietro, d’altronde avrebbe dovuto sapere che quando una ragazza rifiuta di baciarti c’è sicuramente qualcosa che non va. Ma Zayn Malik viveva in un mondo tutto suo, che elogiava qualsiasi cosa facesse da riflesso alla sua messa in piega. Mondo al quale non mi interessava partecipare.
Il campanellino in cima alla porta prese a tintinnare non appena questa fu aperta con delicatezza, quasi potesse staccarsi dagli infissi. Ad entrare nel locale fu una ragazza minuta coperta dalla testa ai piedi, il che mi suggerì che doveva fare un gran freddo fuori. Tirò indietro il cappuccio del giubbotto e si guardò intorno un attimo, poi andò ad accomodarsi all’unico tavolo libero rimasto, quello accanto alla finestra. Poggiò la borsa sul tavolo e srotolò la sciarpa che teneva attorcigliata intorno al collo, poi ravvivò la chioma castana passandovi le dita.
Rimasi ad osservarla per un po’. Aveva dei tratti particolari nel viso, estremamente delicati e raffinati, che la facevano sembrare una quindicenne, nonostante la sua età dovesse oscillare tra i diciotto e ventidue anni. Gli zigomi non troppo pronunciati e le labbra sottili, il naso piccolo e gli occhi grandi, di un marrone non troppo scuro che nel campo del quale ero addetta avrei paragonato a un caffè con orzo e un cucchiaino di miele. E i capelli non erano scuri, neppure biondi, ma di un castano piuttosto chiaro che rasentava il colore del grano.
«Ma ti sei incantata?»
Scossi la testa come a disincantarmi, e vidi gli occhi di Jesy scrutarmi confusi, mentre una sua mano faceva su e giù nella mia visuale. Mi allontanai repentina, chiedendole con lo sguardo cosa diavolo stesse facendo.
Scrollò le spalle. «Sembrava avessi visto un fantasma»; poi tornò a pulire delle tazzine. «Vai al tavolo sette, bella addormentata» mi indicò la destinazione con un cenno del capo, e sorrisi interiormente quando mi resi conto che si trattava del tavolo dov’era seduta la nuova arrivata.
Sistemai l’orrido grembiule di colore bordeaux e passai una ciocca ribelle dietro l’orecchio, poi raggiunsi il tavolo a passo svelto; non dovetti nemmeno esibire un falso sorriso stavolta.
«Buongiorno» sfoderai il mio miglior sorriso, avvicinatami.
Lei alzò cautamente lo sguardo sul mio, e allora li notai: i suoi occhi. Erano ricchi di una dolcezza infinita e con una tonalità calda che mi fece quasi arrossire. Fortunatamente lei non poteva sapere che la mia carnagione era in realtà di un bianco naturale e non di quel colorito roseo che avevano assunto le mie guance.
«Salve» salutò cordiale, la voce tenue e un sorriso accennato che le donava un aspetto tranquillo, rilassato.
Ricambiai il suo sorriso in modo automatico, e tossicchiai per donarmi nuovamente un contegno. «Cosa vorresti ordinare?».
 
Si prospettava un temporale. Il cielo si era così oscurato da far sembrare inverosimile fossero solo le quattro del pomeriggio, e continui tuoni minacciavano l’arrivo di un acquazzone sulla bella cittadina inglese.
Erano questi i momenti in cui ringraziavo di avere un lavoro ed essere al coperto, anziché buttarmi in strada e correre disperatamente per evitare di cogliere l’acqua, come vedevo fare molte persone attraverso i vetri perfettamente trasparenti che Jesy stava lucidando. Anche se, senza dubbio, avrei preferito di gran lunga restare a casa mia, nel mio letto, a godere del caldo delle mie lenzuola e di una buona cioccolata calda.
Dovevo ammettere però che ultimamente le mie giornate lavorative erano diventate più interessanti, se non altro perché Josh sembrava essersi stranamente addolcito con le dipendenti, e le visite della ragazza misteriose erano divenute così assidue che non passava giornata senza che potessi ammirare il suo dolce viso.
Erano passati tre giorni dal suo primo ingresso, e da allora aveva preso la strana abitudine di rifugiarsi all’interno del locale ogni pomeriggio. Ed io mi riducevo quindi ad aspettare il suo arrivo secondo un orario prestabilito e poi rimanere ad osservare ogni sua azione come un poliziotto, sebbene le mie mansioni lì dentro fossero ben altre.
Avevo speso parecchio del mio tempo ad analizzare ed esaminare ogni suo minimo gesto, ed ero giunta alla conclusione che la ragazza misteriosa – di cui avrei dovuto scoprire il nome – compiva ogni volta le stesse azioni, senza cambiare mai di un dettaglio da giorno a giorno. Solito tavolo accanto alla finestra, stessa cioccolata calda con caramello e marshmallows, e poi il solito libricino che tirava magicamente fuori da qualche parte e su cui passava tutto il suo tempo, scrivendo e annotando chissà quali pensieri.
Supponevo fosse un diario. Era di dimensioni medie, con una copertina rosa decorata da farfalle di colore fucsia e viola, ed una piccola scritta in glitter sul fondo che non ero riuscita a decifrare. Quello che sapevo era che morivo dalla voglia di leggere quelle pagine, di sapere ciò che pensava e di conoscerla meglio, perché ero certa che nessun’altra cosa più di quel diario avrebbe saputo descriverla.
E anche in quel momento era lì, racchiusa nella sua bolla. Teneva il capo chino sul piccolo diario, e con una penna riempiva le pagine, adornandole di chissà quale pensiero. Si fermava ogni tanto a riflettere, poi di nuovo a scrivere.
Aveva un’aria così tranquilla da riuscire a far rilassare chi le era affianco o chi la guardava, come stavo facendo io.
«Si può sapere cosa diavolo hai da fissare?»
Sobbalzai a quelle parole, colta di sorpresa. Mi voltai ad osservare il suo interlocutore, e tutto ciò che incontrai furono gli occhi di Jesy che, straniti dalla mia esagerata attenzione, avevano cercato di seguire la traiettoria del mio sguardo. Fortuna che ero riuscita a distoglierlo prima che se ne accorgesse.
Scrollai le spalle, impercettibilmente. «Credo che verrà giù un temporale.» minimizzai, portando lo sguardo alla finestra, dove le prime gocce cominciavano a farsi vive, scivolando lungo il vetro.
Jesy restò indispettita dalla mia risposta, ma comunque non replicò. Si limitò ad affiancare il mio sguardo, e storse lievemente le labbra alla vista della prima pioggerellina, che portava sempre più clienti all’interno del locale, se non altro per ripararsi dall’acqua. «Il tuo turno è finito, io mi affretterai ad andarmene.» disse soltanto, dandomi una piccola pacca sulla spalla; poi andò via.
Corrugai la fronte confusa, quindi voltai lo sguardo sull’orologio alla parete. Quello segnava le cinque precise, ergo Jesy aveva ragione. Tornai a guardare fuori dalla finestra, e constatai che avrei fatto meglio a sbrigarmi, o avrei rischiato di tornare a casa bagnata fradicia.
Corsi velocemente nel ripostiglio a slacciarmi il grembiule e lo attaccai ad uno dei ganci affissati alla parete. Sciolsi i capelli e li scossi lievemente per sistemarli, poi uscii e mi recai al bancone, dove salutai Jesy con due sonori baci sulle guance.
Volsi lo sguardo al tavolo accanto alla finestra, e la mia espressione dovette trasformarsi radicalmente quando lo notai completamente vuoto. Non c’era traccia di quella ragazza, né delle sue cose, e mi sentii così delusa che rimasi a fissare quello stesso punto per un piccolo arco di tempo, come se quello che era stato l’oggetto dei miei studi recenti potesse ricomparire da un momento all’altro.
Ma non accadde. Ed io mi lasciai andare ad un piccolo sospiro, poi recuperai le mie cose e aprii la porta d’ingresso, ricordandomi di aprire l’ombrello non appena fui fuori.
La pioggia era senza dubbio aumentata d’intensità, tanto che ora alle auto era impossibile vedere la strada senza l’aiuto dei tergicristalli. Imprecai sottovoce quando inciampai con lo stivale in una pozzanghera, convincendomi ancora una volta di quanto odiassi la pioggia. Decisi di alzare il passo e percorsi velocemente il marciapiede sino ad arrivare ad un incrocio, sostenendo con forza l’ombrello sopra la testa per evitare di bagnarmi.
Alzai lo sguardo sul semaforo di un rosso lampeggiante, e fu allora che la vidi: stava dall’altro lato della strada, era quasi del tutto bagnata, e aveva trovato riparo sotto un piccolo balconcino; teneva le braccia conserte e percepii un piccolo sbuffo uscire dalla sua bocca, ma non ne ero del tutto convinta. Sentii gli angoli delle mie labbra sollevarsi in un sorriso quasi automaticamente, e decisi che quella poteva essere la mia occasione per parlarle.
Aspettai con impazienza di poter attraversare, picchiettando nervosamente lo stivale sul marciapiede bagnato, e quando quello si illuminò di verde scattai veloce, camminando sulle strisce pedonali sino ad avvicinarmi sempre di più. Sentivo il respiro essersi fatto più veloce, ero nervosa, ma non potevo lasciare che lei scappasse ancora una volta, non adesso che ero così vicina a fare la sua conoscenza.
Feci un passo sul marciapiede e proseguii verso la sua direzione, fin quando non le fui così vicina che il suo riparo era diventato il mio. Lei alzò lo sguardo su di me, osservandomi dapprima confusa, poi si sciolse in un piccolo sorriso.
Il pensiero che potesse avermi riconosciuta mi balenò nella mente, e così ricambiai il suo sorriso, dolcemente.
«Posso accompagnarti a casa io, se ti va.»

 
 
  
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