Capitolo
Ventidue: l’ultima
settimana del Vaticano
Primo
giorno
Non
avevano eretto una tomba monumentale per Young Soo; non
si addiceva al mago che aveva sempre preferito una stuoia di paglia a
un letto
a baldacchino.
Avevano
bruciato il suo corpo, e le sue ceneri erano state
raccolte nell’urna che il Figlio del Cielo stringeva tra le
mani.
La
sua anima era volata oltre le stelle; era giusto che il
suo corpo danzasse assieme all’aria.
Non
aveva permesso ai soldati di seguirlo; perfino Ivan lo
stava aspettando al cancello del cimitero.
Yao
raggiunse la piccola collina al centro del camposanto,
ma non riuscì ad aprire l’urna; quella cenere era
tutto ciò che rimaneva di
Young Soo. Era così difficile disperderla…
«Non
sei mai stato bravo con gli addii. Per questo non ti
hanno permesso di vederci, quando abbiamo abbandonato il
castello.»
Yao
sentì il cuore martellargli in gola quando, voltandosi,
vide un volto che non aveva mai dimenticato, nonostante gli anni di
lontananza.
«Madre…»
chiamò, con un filo di voce.
Le
vesti e i capelli di seta della donna frusciarono
elegantemente mentre questa avanzava verso di lui e portava una mano ad
accarezzargli la chioma recisa.
Le
dita morbide della madre percorsero il suo viso e gli
scorsero tra i capelli più volte, come se la donna vedesse
bene solo attraverso
i polpastrelli.
Le
lacrime le illuminarono gli occhi e il sorriso quando
mormorò:
«Come
sei diventato bello, Yao…»
Il
sovrano afferrò la mano della madre con la sua, e
baciò
delicatamente il palmo soffice. Era reale: era tiepida, compatta,
delicata, come
la donna che vedeva nei propri lineamenti ogni volta che si guardava
allo
specchio.
Il
sorriso della nobile aumentò a dismisura, prima che i
suoi occhi scuri si posassero sull’urna.
«È
il Portavoce del Sole?» domandò.
Il
Figlio del Cielo annuì.
«Ti
è stato vicino quando sei rimasto solo»
sussurrò lenta
la madre. «Avrei voluto incontrarlo e ringraziarlo di
persona.»
«Ti
sarebbe piaciuto. Young Soo aveva il dono di riuscire a
entrare nel cuore degli altri con estrema
facilità» lo descrisse il regnante.
«Ma
entrare è facile. Riusciva a rimanerci?»
Yao
accarezzò l’urna con estrema tenerezza.
«Per
questa vita e per le prossime.»
«Allora
era davvero una persona speciale» la donna inclinò
la testa, gentile. «Posso unirmi alla tua preghiera? Vorrei
parlare con lui,
prima che tu gli permetta di andare.»
Yao
scosse la testa, sorridendo mesto.
«Lui
sarà sempre qui. Nemmeno l’aldilà
è abbastanza lontano
da separare chi si ama» l’eco delle parole del
fratello risuonò nella sua bocca
senza che se ne accorgesse, come se Young Soo gliele avesse bisbigliate
all’orecchio. E Yao si sorprese rendendosi conto che, in quel
momento, credeva
davvero che lui e il piccolo mago non sarebbero mai stati realmente
divisi:
nemmeno la morte poteva cancellare l’affetto che li aveva
sempre uniti.
Il
Figlio del Cielo appoggiò l’urna a terra, ed
entrambi
congiunsero le mani, recitando silenziosamente la propria preghiera.
La
donna ringraziò il Portavoce del Sole per aver protetto
il figlio dalla solitudine; Yao si limitò a ricordare i
momenti passati insieme
a Young Soo. Quello che aveva da dire, lo aveva già detto; e
quello che non
aveva fatto in tempo a dire, il fratello lo aveva intuito. Young Soo
riusciva a
leggere il cuore delle persone anche nel silenzio più totale.
Yao
si chinò lentamente, e strinse le dita attorno al
coperchio dell’urna prima di aprirla di scatto e lanciare la
cenere nel cielo.
La polvere grigiastra disegnò bizzarre volute nel vento,
quasi stessero
giocando a rincorrersi, e disegnò una buffa corona intorno
al sole prima di
disperdersi nell’aria dorata del tramonto.
L’urna,
ormai vuota, venne poggiata nuovamente a terra, e
Yao si rialzò con il cuore gonfio di una gioia triste: Young
Soo stava
sorridendo, da qualche parte, anche se non poteva più
vederlo.
La
mano della madre si appoggiò con grazia sulla sua spalla.
«So
che partirai in una missione contro il Vaticano» la
nobile possedeva la delicata forza del giunco: non poteva opporsi agli
eventi,
quindi si piegava sotto il loro peso per rialzarsi rinvigorita subito
dopo. In
quel momento, lo dimostrò appieno:
«Attenderò il tuo ritorno a Palazzo.»
Un
modo molto raffinato per ordinargli di non morire. Yao
portò nuovamente il palmo della madre contro le sue labbra.
«Tornerò»
promise.
La
donna sorrise un’ultima volta e si allontanò dalla
parte
opposta, permettendogli di tornare da solo dal suo custode di ghiaccio.
Ivan
non disse una parola: come sempre, non riusciva a
comprendere i sentimenti di chi ancora aveva un cuore caldo nel petto.
Ma
percepiva che qualcosa non andava: la dispersione di quelle ceneri
aveva
profondamente turbato il Figlio del Cielo.
In
completo silenzio si avvicinò a lui e lo cinse tra le sue
braccia. I pugni di Yao si strinsero sul suo cappotto, come se
volessero
ricaricarsi con l’energia del Siberiano.
«Andiamo,
Ivan» bisbigliò poco dopo l’Asean.
«Torniamo a
casa.»
Secondo
giorno
Il
signor Vargas fissò la parete davanti a sé.
Dall’esterno
non sembrava un muro particolarmente degno di
nota, eccezion fatta per la struttura liscia e incurvata che lo faceva
assomigliare
a un utero di pietra.
Il
vecchio Asse, però, gli aveva rivelato il segreto di
quella parete: era stata costruita trecento anni prima,
all’epoca del più
splendido tra tutti gli Assi, in previsione di possibili incantatori
troppo
potenti e troppo difficili da controllare.
Era
una parete in grado di staccare il potere dal corpo del
mago.
Se
Feliciano si fosse dimostrato in qualche modo un Asse immeritevole
per la sua anima dimezzata, lo avrebbero legato a quel muro
finché il suo
potere non fosse stato totalmente assorbito.
In
questo modo, la Confederazione avrebbe avuto l’energia
necessaria per mantenere il proprio confine intatto, isolando i demoni
all’esterno
di esso. E loro non avrebbero avuto un gemello malefico di cui
preoccuparsi.
Il
signor Vargas scosse la testa, lasciando la stanza.
Feliciano
era il suo figlio prediletto. Ma non gli avrebbe
permesso di guastare l’equilibrio della Confederazione, se si
fosse rivelato
indegno.
Terzo
giorno
«Mi
stai spaccando una costola.»
Roderich
non riuscì a rilasciare la presa: era passato
troppo tempo dall’ultima volta che aveva cavalcato un
famiglio, e la guida di
Gilbert era decisamente spericolata.
«Come
facevi, quando dovevi salire su Mathias?» lo prese in
giro l’Hellsing.
«Andavo
a velocità più ridotte» fu la replica
strozzata
dell’Accordatore.
Si
stavano dirigendo sul pianeta dei Gunsmith per arruolare
anche loro in quella folle missione. E per verificare che il tanto
prodigioso
“Elfo” fosse stato terminato.
Roderich
fissò lo sguardo su quella chioma argentata,
agitata dal volo senza controllo.
L’ultimo
ricordo che aveva di Gilbert era un bambino che
applaudiva alle sue sonate per violino. Quando aveva riaperto gli
occhi, si era
trovato davanti un uomo segnato da mille fatiche.
Aveva
perso parte dell’infanzia di Gilbert. Non era stato
con lui per scacciare i mostri immaginari da sotto il letto, non lo
aveva
tenuto per mano quando i tuoni lo spaventavano.
Aveva
perso completamente la sua adolescenza. Non sapeva
cosa avesse dovuto affrontare quel ragazzo, l’ultimo della
sua stirpe. Né come lo
avesse affrontato. Aveva trovato
qualcuno con cui piangere, o aveva versato le lacrime in solitudine?
C’era
stato un amico a indicargli la via, o si era dovuto creare una mappa e
una
bussola con le sue sole forze?
Lui
era il suo padre adottivo: avrebbe dovuto scacciare i
fantasmi, rimetterlo in piedi e offrirgli conforto. Invece lo aveva
abbandonato
su un pianeta abitato da tombe, con la sola compagnia del suo famiglio.
Cinse
con più forza il petto del figlioccio e buttò
fuori in
un fiato:
«Perdonami.»
Gilbert
gli lanciò uno sguardo perplesso da sopra la spalla.
«Non
c’è niente per cui scusarsi. Molte persone trovano
difficile adattarsi al mio stile di volo e…»
«
Mi hai parlato del fratello che ti sei creato e di quel
ragazzo di nome Matthew, e non so nemmeno che faccia abbiano. Sei stato
rinchiuso a Caina, e non sono stato io a liberarti. Perdonami per non
esserci
stato quando avresti avuto bisogno di me.»
Sentì
il fiato uscire in uno sbuffo divertito quando Gilbert
ghignò a quella frase.
«Non
hai passato un periodo migliore del mio» minimizzò
l’Hellsing. «E non mi hai abbandonato per tua
volontà. Se non c’è volontà,
non
c’è colpevolezza.»
La
zazzera argentata fu scossa dalla mano che grattò la
nuca, pensosa.
«Sei
tu a dovermi perdonare» la frase gli ruzzolò sulle
labbra, con una docilità che non si addiceva a
quell’uomo di sangue e acciaio.
«Per
cosa?» domandò Roderich, genuinamente confuso.
L’Hellsing
lo guardò di nuovo da sopra la spalla, e
l’Accordatore poté vedere la malinconia addolcire
quel ghigno arrogante.
«Avrei
dovuto salvarti molto tempo fa, anziché cercare di
liberare un pianeta vuoto» ammise, le parole appesantite da
quegli anni di
guerra. «Avremmo potuto riprenderci il nostro mondo
insieme… ma non ce l’ho
fatta. Sapevo che non sarei stato in grado di combattere contro di te.
Avevo
paura di essere ucciso, avevo paura di ucciderti, e avevo paura che tu
mi
guardassi senza riconoscermi. Piuttosto codardo, per essere
l’eroe indiscusso
della Galassia, non trovi?»
Le
spalle di Gilbert sussultarono per una risata velenosa.
«Solo
quando ho perso di nuovo la persona che più
amavo… ho
capito che non ha senso proteggere il passato se non
c’è futuro. Ho lasciato
mio fratello ad aspettarmi a casa, e sono corso a salvarti…
ma le forze
Vaticane erano troppe per un solo Hellsing. E sono finito a
Caina.»
«Ti
hanno scoperto perché stavi venendo a liberarmi?»
Gilbert non gli aveva mai rivelato quel particolare.
L’Hellsing
abbassò il capo, e una stella incastrò una punta
di luce nel suo occhio rosso, riflettendosi su una lacrima.
«Non
sono nemmeno riuscito a vederti» ricordò.
«Avrei dovuto
decidermi molto tempo prima, quando la difesa del Vaticano non era
così
stretta…»
Roderich
accarezzò il capo dell’Hellsing. La testa di
Giselbert era cresciuta rispetto a quando poteva racchiuderla quasi
completamente nel proprio palmo, ma i pensieri che si agitavano
all’interno
erano quelli di sempre: un bambino che aveva troppa paura di rimanere
solo, e
che gli placcava le gambe quando lo vedeva uscire di casa.
«È
tutto passato» cercò di tranquillizzare anche se
stesso e
i sensi di colpa che gi attanagliavano le viscere con quella risposta.
«Tra
quattro giorni combatteremo per il futuro. È questo
ciò che conta.»
Gilbert
annuì, e il ghigno prepotente tornò a
impadronirsi
delle sue labbra.
«Adesso
fai più fatica ad accarezzarmi la testa, eh?» lo
prese in giro. «Non sei più il più
alto.»
«Guarda
avanti. Siamo quasi arrivati» lo rimproverò
Roderich, con la severità tipica dei padri che hanno a che
fare con dei figli
indisciplinati.
Quarto
Giorno
Il
panno passò silenzioso sulla katana,
con devozione.
Kiku
la esaminò a lungo, in ogni suo millimetro, prima di
permetterle di tornare a riposare nel suo fodero.
La
notte di Chugoku era buia, come sempre. Né le stelle
né
la luna poterono riflettersi sul suo braccio pallido, mentre questo si
appoggiava sulla fasciatura.
Se
fosse stato a riposo, due mesi di vita. Se avesse
combattuto…
Kiku
diresse gli occhi, neri come le ombre della camera,
verso la porta scorrevole.
L’Aquila
doveva aver raggiunto Britannia, ormai, per aiutare
il Mago dell’Ovest a organizzare la flotta di assalto. Meglio
così: non avrebbe
sopportato di saperlo a Chugoku e non vederlo irrompere nella sua
stanza per
chiedergli perché fosse così cupo.
«Non
voglio essere un eroe» annunciò in un sussurro
alle
tenebre. «Gli eroi muoiono combattendo battaglie che non gli
appartengono, in
nome di qualche ideale.»
Accarezzò
l’elsa di Heracles, e massaggiò le bende sul suo
busto. Poteva quasi avvertire l’incantesimo lottare per
tenere chiusa la ferita
al di sotto.
«Sono,
e sarò sempre, un Samurai» dichiarò.
«E morirò nella
guerra che ho scelto, in nome del giuramento che ho fatto al Figlio del
Cielo.»
Appoggiò
la testa al muro ligneo, esalando un sospiro.
Alfred
sarebbe venuto a prenderlo, quando fosse arrivato il
suo momento.
Quello
straniero si preoccupava sempre troppo per gli altri.
Ma
era inevitabile.
Quello
era il lavoro degli eroi, in fondo.
Quinto
Giorno
«Entra
pure.»
Maledizione,
era stato notato. D’altronde, anche camminando
in punta di piedi, era difficile celare più di ottanta chili
sparsi su quasi
due metri di altezza.
Varcò
la soglia della stanza abbassando la testa come se
stesse entrando in un luogo sacro, e il suo cuore batté
più forte alla vista di
quel quadro familiare.
L’Hellsing
dormiva beato, coperto con attenzione fino al
mento e cullato nel sonno dal violino dell’Accordatore. Non
era difficile intuire
che Roderich stesso aveva sistemato il lenzuolo su Gilbert: ricordava
bene il
modo scomposto di dormire dell’Hellsing, e il suo
incorreggibile vizio di
calciare le coperte.
Roderich
gli diede il permesso di avvicinarsi con un
impercettibile cenno del capo, senza smettere di muovere
l’arco sulle corde del
violino.
«Gli
hai suonato la ninna nanna?» lo canzonò Mathias.
«Ho
semplicemente iniziato a suonare» minimizzò
Roderich,
altero. «E questo insensibile senza gusto musicale si
è addormentato di colpo.»
Gli
occhi di Mathias scivolarono sull’Hellsing e poi
sull’Accordatore. Un padre che suona per scacciare gli incubi
dal sonno del
figlio: era così che le cose sarebbero dovute andare. Non un
genitore divenuto
un’arma senza cuore e un bambino abbandonato in una guerra
solitaria.
«Avreste
meritato più momenti così» era certo di
non averlo
detto a voce troppo alta, ma fu sufficiente per bloccare
l’archetto
dell’Accordatore.
Roderich
fece finta di sistemare gli occhiali, mentre in
realtà si stava sforzando di controllare i condotti
lacrimali.
«Avremmo
meritato tutti una vita più tranquilla. Anche voi»
decretò infine.
«Non
mi lamento» Mathias si strinse nelle spalle larghe.
«Abbiamo
trovato un lavoro che ci piace, una persona da amare, e non siamo mai
stati
soli. Probabilmente, noi Gunsmith siamo tra le persone più
felici della
Confederazione.»
«Ma
se Gilbert non vi avesse confezionato dei nuovi corpi,
adesso di voi non rimarrebbero nemmeno le ossa.»
Si
sarebbe offeso per un commento del genere, se non avesse
capito che la vera sorgente di quelle parole era una tristezza
così profonda da
non poter essere sfogata né con le lacrime né con
le urla.
«Il
tempo è uguale per tutti, e non torna indietro per
nessuno» la mano artificiale dell’Accordatore si
strinse sul violino «Per
questo non potrò mai colmare il vuoto che ho lasciato in
tutti questi anni. Ho
permesso a mio figlio di crescere da solo, e ho quasi cancellato i
Gunsmith
prima che esistessero.»
Roderich
aggiustò di nuovo gli occhiali, traendo un profondo
respiro.
«Sai
perché ho deciso di combattere insieme a voi?»
l’uomo
lo trafisse con i suoi occhi violacei. «Perché
voglio che, nella prossima
dimensione, non ci sia più nessuno come me.»
«Come
te?»
«Qualcuno
che, guardandosi indietro, vede solo le voragini
che la sua assenza ha creato. Vede che il tempo è passato
per tutti, mentre per
lui si è cristallizzato a una ventina di anni prima. Vede
come le cose siano
cambiate e si accorge di non sapere cosa
le abbia fatte cambiare.»
Mathias
non lo interruppe, mentre Roderich terminava:
«Se
fosse stata una mia scelta, forse mi sarei sentito
meglio. Almeno avrei potuto biasimare me stesso. Ma mi sento come se mi
avessero rubato la possibilità di vivere il mio passato, e
mi stessero
togliendo la speranza di poter migliorare il futuro.»
Il
Gunsmith fu quasi tentato di guardare altrove, mentre
l’uomo accarezzava affettuosamente la frangia scomposta
dell’Hellsing. Era una
scena intima, che sarebbe dovuta rimanere tra padre e figlio senza
interferenze
esterne.
«Non
voglio che ci siano altre persone senza tempo e senza
scelte come me.»
Mathias
si sentì trafitto dallo sguardo che Roderich gli
rivolse subito dopo, e ancor di più dalla sua domanda.
«Mi
hai mai odiato, in questi anni?»
Di
nuovo, il Gunsmith si strinse nelle spalle.
«Gli
altri ti hanno portato molto rancore, non lo nascondo.
Però loro non ti avevano visto mentre crescevi Gilbert
insieme a Elizabeta, non
sapevano quanto amassi il tuo pianeta e la tua gente. Ma io
sì: io sapevo che
non eri stato davvero tu.»
Batté
una pacca sulla spalla dell’uomo, e per poco non lo
ribaltò. Cielo, quanto erano rachitici i musicisti!
«Non
ho mai smesso di credere in te. E nemmeno tuo figlio
l’ha mai fatto.»
Roderich
inclinò vagamente il capo, fingendo di non essere
toccato da quelle parole. Ma, come Mathias aveva già detto,
lo conosceva troppo
bene: sapeva che in realtà stava morendo per
l’imbarazzo.
«Se
è vero che non mi hai mai odiato, allora combatti
insieme a me, quando saremo nel Vaticano» propose
l’Accordatore, porgendogli la
mano meccanica. «Come ben saprai, posso controllare vaste
schiere di soldati
con i miei poteri musicali, ma non posso farlo se devo preoccuparmi dei
nemici
che potrebbero pugnalarmi alle spalle.»
Il
Gunsmith afferrò quella mano fredda e la scosse
saldamente, trovandola più robusta delle ossa del musicista.
Ovvio: i Gunsmith
producevano solo merce di ottima qualità.
«Le
tue spalle saranno protette» garantì.
«Non c’è maggiore
onore, per un famiglio, che lottare insieme al suo padrone.»
Le
mani dei due uomini si separarono, ed entrambi sorrisero
internamente.
Erano
ancora famiglio e padrone, nonostante il tempo
passato.
«La
melodia di prima era molto bella. L’hai composta
tu?»
domandò, uscendo dalla camera.
«L’ho
scritta per Gilbert. Era shockato dopo la morte dei
genitori, e non riusciva mai a prendere sonno. Si addormentava solo
ascoltando
questa melodia.»
«Come
si intitola?»
Il
violino tornò a incastrarsi con grazia sotto il mento
affusolato del musicista.
«“Non
sei solo”.»
La
sonata riempì la stanza con delicatezza, quasi avesse
paura di disturbare.
Mathias
abbandonò la camera, lasciando che la musica ricordasse
a padre e figlio che la solitudine era finalmente finita.
Sesto
Giorno -
mattina
«Non
mi hai rivolto la parola da quando siamo a Britannia.»
«Forse
la cosa ti è sfuggita, ma è piuttosto impegnativo
preparare una flotta per una guerra e un pianeta per
l’espatrio al contempo.»
«Scommetto
che il Figlio del Cielo parla con i suoi alleati.»
«E
allora tornatene a Chugoku!»
Le
sopracciglia bionde di Francis si incresparono, dietro
gli occhiali di Alfred.
«Credo
di notare un certo veleno nei miei confronti.»
«E
non ingiustificato!» sbottò Arthur, voltandosi di
colpo.
Il
Mago dell’Ovest era stanco nell’anima. Francis era
uno
specialista di spiriti, poteva dirlo con certezza. Una vita
pressoché eterna
era un peso estremamente gravoso da portare, ed era un fardello da
sopportare
da soli: nessuno avrebbe mai capito cosa significasse,
perché nessuno avrebbe
mai vissuto così a lungo da sentire la propria anima
diventare di piombo.
Arthur
era di nuovo vestito con i suoi abiti di Avalon: se
ne era riappropriato dopo che il suo riflesso aveva fatto ritorno allo
specchio. Sembrava quasi che il mago volesse improvvisamente rimarcare
il suo
essere alieno.
Arthur
lo fissò furente, e lo attaccò:
«Mi
hai fatto diventare un mago conosciuto solo perché
potessi seguire le previsioni di Jeanne sul futuro. Ho bruciato
un pianeta, ero presente quando tu e l’Hellsing siete
stati catturati, mi sono quasi fatto ammazzare da un demone!»
il Mago si girò
bruscamente, e Francis poté vedere le sue spalle contratte.
«Ti
ho aspettato per cento
anni. Da solo.»
«Eri
insieme alla tua gente…»
«Sai
bene quanto me che noi immortali siamo sempre soli. Se
non c’è nessuno che ti comprenda davvero, allora
sei solo» i pugni del mago si
strinsero sotto il mantello di Avalon. «Ti ho aspettato
fidandomi delle tue
parole. E quando ti sei reincarnato, in un battito di ciglia eri morto
di
nuovo. E ora sei in un corpo che non riconosco come tuo.»
Il
Mago si voltò di nuovo, gli occhi duri di rabbia e
liquidi di lacrime trattenute.
«Eri
l’unica persona che potesse davvero capire cosa
significa avere sulle spalle più anni di quanti si desidera
viverne. Avevi
detto che condividevamo il destino, e mi sono fidato. Ma ero sempre
solo.
Quando ho dovuto bruciare Hispaňa, quando ho assistito
all’incarcerazione
dell’Hellsing… non c’era mai nessuno con
me. Mi sono immerso nel sangue che
odio, mi sono gettato in una guerra che
detesto fidandomi delle tue vaghe promesse. Ma tu non c’eri
mai, Francis.
Credevi davvero che ti avrei gettato le braccia al collo piangendo,
quando ci
fossimo incontrati di nuovo?»
«Oh,
no. Non sarebbe nel tuo carattere. Anzi, per essere
onesti mi aspettavo una tua sfuriata – cosa che è
avvenuta.»
Si
ritrovò all’improvviso con le gambe
all’aria, e impiegò
qualche secondo per capire che il pavimento aveva sgroppato
sotto di lui come un toro infuriato. Maghi: avevano
sempre dei modi rudi di interrompere le conversazioni che non volevano
ascoltare.
Francis
si rialzò con fatica dal pavimento – doveva ancora
sintonizzarsi con quel corpo nuovo.
«Mi
dispiace di averti lasciato solo, Arthur.»
Il
Mago dell’Ovest non gli rispose nemmeno, e non si mosse
quando il Marauder gli si avvicinò.
«Ma,
come ti ho già detto, certe cose dovevano avvenire, per
quanto orribili. È necessario per la rinascita.»
«Lo
so» la voce uscì pesante come una palla di
cannone. «Ma
speravo che ci sarebbe stato qualcuno ad accendere una luce, nelle ore
buie.»
Il
corpo del Mago si irrigidì completamente quando i palmi
del Marauder si adagiarono sulle sue spalle.
«Mi
dispiace davvero di averti lasciato solo» la sua voce
era sincera, e questo fece arrabbiare ancora di più Arthur:
se avesse letto
anche solo l’ombra di una bugia, sarebbe stato molto
più facile squartarlo a
parole. «Ma adesso sono qui. Non isolarti, se davvero odi
così tanto la
solitudine.»
«Odio
te molto più di quanto non odi la solitudine»
sibilò il
Mago, iroso.
«Il
che è un vero peccato» le braccia del Marauder
scivolarono a cingergli il busto. «Perché io ti
adoro. Più di chiunque abbia
incontrato in tutte le mie vite passate e di chiunque
incontrerò in quelle che
verranno.»
Il
Mago si scrollò bruscamente di dosso l’uomo, e
rincarò:
«Non
sei stato perdonato. Cento anni: ti ho aspettato per cento
anni. Non li cancellerai con una
bella frase.»
Francis
si portò alle labbra la mano che il Britanno aveva
sollevato per ammonirlo.
«Farò
ammenda per i prossimi cento.»
«Trecento»
Arthur si riappropriò con stizza della sua mano.
«Non
hai calcolato gli interessi.»
Francis
accettò accondiscendente.
Sapeva
che quel Mago aveva intenzione di perdonarlo fin
dall’inizio, e che quell’arrabbiatura era solo un
modo per tutelare il suo
orgoglio. E per sfogare l’amarezza accumulata per tutto quel
tempo: Francis era
l’unico a poter comprendere lo sconforto di sentirsi soli in
mezzo a persone
che sarebbero sbocciate e appassite con la velocità dei
fiori di maggio.
«Jeanne
mi dice che non hai ancora il coraggio di dirmi
quella cosa che avresti dovuto dirmi un numero imprecisato di anni
fa» lo
punzecchiò Francis.
Il
Mago rimase così immobile, per qualche istante, da
ricordare i prigionieri di Caina. La velocità con cui si
mosse subito dopo fu
quasi incredibile: afferrò il colletto di quello stupido
uomo, lo trascinò
verso di sé e sfregò le labbra sulle sue.
«Dì
alla tua pulzella di essere meno indiscreta» il brontolio
si spense sulle parole finali, mentre Arthur abbandonava la stanza.
Francis
attese che il Mago fosse a una distanza sufficiente
per ridere di gusto.
«Buon
cielo, è proprio vero che i Britanni non sanno
baciare…»
Il
pavimento lo ribaltò di nuovo.
Maghi.
Davvero non avevano il senso dell’umorismo.
Sesto
giorno -
notte
«Dove
state andando?»
«Capitano,
stiamo per partire per una battaglia epocale. Se
questa deve essere una delle mie ultime notti, voglio passarla
navigando in
mari femminili.»
Antonio
concesse ai suoi uomini la libertà con un vago cenno
della mano.
«Cercate
di non fare troppa confusione» ricordò loro.
«Siamo
ospiti, su questo pianeta.»
«Ma
anche questo pianeta ha dei bordelli, grazie al cielo!»
rise rudemente un mozzo. «Mi sono sempre chiesto se le Asean
abbiano la…»
«Andate
e divertitevi, ma non eccedete» li congedò
Antonio,
richiudendo la porta della camera subito dopo. Apprezzava che i suoi
uomini
fossero venuti a chiedergli il permesso per abbandonare la pensione in
cui li
aveva alloggiati il Figlio del Cielo, ma avrebbe preferito che il loro
tempismo
non fosse stato così pessimo.
«Puoi
uscire, se ne sono andati» esclamò in direzione
dell’armadio a muro.
Lovino
uscì dalle ante con i capelli scompigliati, il kimono da camera stropicciato e il viso
fremente di rabbia.
«Questo
stupido pianeta!» si lamentò, prendendo di nuovo
posto sul futon. Quel materasso era
troppo sottile e l’unico nascondiglio disponibile in tutta la
stanza era
l’armadio a muro.
La
bocca di Antonio sul suo collo frenò ulteriori lagnanze.
La cintura di stoffa frusciò leggera quando le mani del
capitano sciolsero il
suo nodo.
«Non
ti hanno visto» lo rassicurò, insinuando le dita
nei
bordi aperti della veste. Un abito con una cintura facile da slacciare,
e che
permetteva di infilare le mani ovunque: gli orientali erano geniali.
Lovino
tirò la manica del capitano in un gesto fintamente
stizzito: il vero scopo era scoprire la spalla su cui
appoggiò le labbra.
«E
tu non vuoi navigare in mari femminili, questa sera?»
indagò, piccato.
Quella
stoffa era un intralcio, e Antonio la rimosse
velocemente, rendendola un cumulo di pieghe affrettate sui fianchi del
giovane.
Afferrò la sua vita asciutta per tenerlo fermo mentre
tracciava un percorso con
la bocca dal suo collo fino agli addominali. Lovino si chiuse sul capo
adagiato
sul suo ventre, fremendo a ogni tocco della lingua del compagno: le
parole
dell’amante strisciarono a fatica tra i suoi sensi
ottenebrati.
«Lovino»
sussurrò rovente Antonio, appena sopra la curva
pelvica. «Solo l’Apocalisse potrebbe convincermi a
lasciare questa stanza.»
«Sei
sempre esagerato…» con suo grande dispetto, le sue
labbra lo tradirono, lasciando uscire un gemito vergognoso. La bocca
del
capitano era scesa ulteriormente, arrivando a baciare
l’impazienza che pulsava
tra le sue cosce esili. Un brivido elettrico gli percorse la schiena
quando la
lingua del capitano percorse il suo sesso, e una scarica di delusione
lo
attraversò quando l’uomo si rialzò
subito dopo.
Era
sicuro che una cosa del genere non fosse leale: non
poteva dargli un tale piacere e staccarsi un secondo prima
dell’estasi.
Antonio
gli circondò il viso bollente di imbarazzo con le
mani. Lovino era davvero bellissimo quando si lasciava trasportare
dalla
passione. Ed era ancora più bello quando restituiva
l’attacco: il giovane lo
spinse bruscamente contro il materasso, aprì il suo kimono con un gesto brusco e si
portò a cavalcioni su di lui come
se lo volesse schiacciare.
Osservò
il viso del ragazzo farsi sempre più vicino,
finché
i suoi occhi non divennero una nebulosa sensazione di castano ramato
davanti a
sé.
«Non
credere di poter avere sempre il controllo, capitano»
Lovino gli morse il labbro
inferiore, prima di distanziarsi di nuovo.
Aveva
la conferma, ogni giorno di più, di quanto amasse quel
ragazzo nella sua interezza. Adorava perfino quelle strane schermaglie
che
avevano tra le coltri, Lovino sempre più determinato a
difendere il suo
orgoglio e ad avere un ruolo attivo nel rapporto e Antonio felice di
provocarlo
e di scatenare le sue reazioni.
«Il
controllo è l’ultimo dei miei pensieri,
adesso…» replicò
placido l’uomo.
Le
spalle di Lovino si contrassero e si piegarono verso di
lui quando la mano del capitano solleticò la curva delle
natiche. Le braccia
del giovane gli circondarono il capo e la bocca si premette sul suo
collo
mentre le dita dell’uomo si facevano strada dentro di lui.
Lovino
si allontanò per guardarlo in viso, e i loro occhi si
incatenarono. Antonio amava quei momenti di puro silenzio che
intercorrevano
tra di loro: era come se le parole fossero troppo strette per
circondare i loro
sentimenti, che venivano quindi lasciati liberi di fluire
nell’aria. Gli pareva
di immergersi nel cuore di Lovino, e di sentire la presenza del giovane
per
tutta l’estensione della sua anima.
Lo
strinse a sé quasi freneticamente, baciando ogni
centimetro di pelle che riusciva a raggiungere. Non sarebbe mai stato
abbastanza, con Lovino: non sarebbe mai arrivato il giorno in cui si
sarebbe
stancato di lui.
Il
giovane allargò le gambe, sentendo l’eccitazione
dell’amante
premere contro di esse, e rilasciò un suono inarticolato
quando i suoi fianchi
vennero abbassati con forza su quelli dell’altro.
Lovino
si aggrappò al suo compagno, cercando un contatto
sempre più profondo.
Il
capitano probabilmente aveva intuito il motivo che lo
aveva portato a introdursi in camera sua, quella sera. Il giorno dopo
sarebbero
partiti per la prima e ultima battaglia con il Vaticano. Sapevano
entrambi che
metà di loro non sarebbe sopravvissuta per raccontare di
quella lotta. E se lui
o Antonio erano destinati a far parte di quella triste porzione, allora
non
voleva sprecare nemmeno un istante a pensare: voleva amare, respirare,
vivere
il suo innamorato finché la notte gli avesse offerto riparo.
Si
ricongiunsero in un bacio profondo con urgenza, e una
sciarada di singulti di infransero sulla lingua del capitano, troppo
impaziente
per aspettare che il giovane seguisse il suo ritmo. Lovino
riuscì a staccarsi
solo un istante per respirare, prima che l’amante lo
catturasse di nuovo. Non
protestò, quella sera: strinse ancora di più le
braccia attorno al collo del
capitano, il respiro affaticato da quel bacio senza tregua e dalle
spinte sempre
più veloci, finché non lo sentì
liberarsi dentro di lui.
Lovino
quasi si gettò contro il suo compagno, il fiato che
ruzzolava sulle sue labbra arrossate. I loro petti si baciavano a un
ritmo
frammezzato, seguendo la loro respirazione sfiancata.
La
bocca dell’uomo si congiunse alla sua, una volta che i
loro polmoni ebbero trovato di nuovo la pace. Fu un contatto
più dolce del
precedente, e Lovino inseguì quelle labbra quando si
staccarono dalle sue,
pretendendo un altro bacio.
Antonio
lo adagiò sul letto, e accarezzò la sua pelle
sudata
senza trascurare nemmeno un centimetro; il capitano lo toccava sempre
come se
desiderasse superare il confine della pelle e diventare una cosa sola
con lui.
Lovino
alzò una mano, per sfiorare la palpebra sotto gli
occhi verdi, improvvisamente incupiti. La frangia ramata fu scostata
gentilmente da una carezza dell’uomo, affinché le
iridi rossastre fossero
totalmente libere di incontrare quelle dell’amante.
«Non
dimenticarlo, Lovino» un bacio fu impresso sulla sua
fronte corrugata. «Non dimenticare mai il tempo che passiamo
insieme.»
Il
ragazzo lo spintonò via senza preavviso, e si
rialzò a
sedere con la velocità di un gatto.
«Non
fare questi discorsi malauguranti!» scattò. E,
come
ogni volta in cui la sua rabbia era dovuta a un motivo più
profondo, Lovino si
placò subito dopo l’esplosione. Afferrò
un lembo del kimono aperto del
capitano, e lo strinse nel pugno con tutte le sue
forze.
«Credi
di essere dentro di me solo nel momento in cui
facciamo sesso?» sibilò. «Mi hai aiutato
a controllare i miei poteri, mi hai
insegnato a lottare… mi sei stato vicino ogni singolo
giorno!» nemmeno la
penombra della stanza riuscì a celare lo scintillio delle
lacrime in quegli
occhi orgogliosi. «Finché avrò la forza
di richiamare Roma, finché avrò respiro
tu sarai con me! Perciò non parlare come se dovessi
scomparire!»
Antonio
baciò le sue palpebre serrate, e sentì il salato
delle lacrime sulle proprie labbra.
Lo
trasse a sé con dolcezza, e lo accarezzò piano
per
tranquillizzarlo.
«Anche
tu, Lovino» le parole scivolarono languide nel suo
orecchio. «Anche tu non sparirai mai.»
Il ragazzo si
distanziò da lui a testa bassa, e Antonio credette che
volesse lasciare la
stanza.
«Se
non vuoi che dimentichi» propose in un mormorio Lovino,
troppo imbarazzato per sollevare lo sguardo. «Allora dammi
qualcos’altro da
ricordare…»
Il
ragazzo si protese per accogliere Antonio tra le sue
braccia, prima che questo lo stendesse delicatamente sul materasso
mentre univa
di nuovo le loro labbra.
Anche
se il mondo fosse finito il giorno dopo, anche se la
sua anima fosse stata fatta a pezzi, ci sarebbe sempre stato un
brandello
aggrappato ai ricordi di Lovino.
Quel
giovane sarebbe sempre stato incancellabile.
Non
gli sarebbe bastata l’eternità per far capire a
Lovino
quanto lo amasse.
E
a Lovino non sarebbe bastata l’intera Confederazione per
circoscrivere l’amore che provava per Antonio.
Ma
lo compresero entrambi, amandosi per tutta la notte come
se l’altro fosse l’unica cosa esistente
nell’universo. Il che, per loro, era la
pura realtà.
Settimo
Giorno
Il
cappello candido con la veletta bianca si appoggiò sul
capo del futuro Asse, e la sua vestizione fu completa.
«Sei
pronto, Ludwig?» domandò al suo Guardiano. Il
giovane
annuì, serio.
Feliciano
sorrise, e una punta di malizia del tutto sconveniente
scintillò nei suoi occhi.
«Oggi
è il giorno della proclamazione»
valutò. «Mi chiedo
come reagiranno alla sorpresa.»
Ed
eccoci qui
con il capitolo ventidue<3
Perdonate
la
lunga assenza, ho avuto alcuni problemi che mi hanno distanziata dal pc
-.-“
Coooomunque…
eccoci ufficialmente giunti all’arco finale<3
Nel
prossimo
capitolo, signore e signori, torna la GerIta<3
E
che la
battaglia con il Vaticano abbia inizio<3
E
grazie
infinite a tutti voi che avete letto e recensito lo scorso capitolo *_*
tra
stasera e domani vi rispondo, promesso<3<3<3
Che
la forza
dell’Asse sia con voi<3
A
presto<3
Red