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Autore: SenseAndSensibility    19/08/2008    2 recensioni
«L'atmosfera è densa e scura come fumo nella Parigi che dall'alto non si vede. Frammenti di passato cristallizzati in aria, fantasmi e anime illustri che vagano di luce in luce.
Quale particella è di nebbia, quale di anima? Tutto sembra confondersi nel grigio della notte parigina.
Notte di teatro spettrale, di riunioni, di libri, di lumi a olio. Notte di anime in decadenza e di profumo di cucina.»
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Che cosa si nasconde nelle profondità oscure della città dei fiori?
Siamo sicuri che Parigi sia abitata solo da uomini?
..O forse qualcuno nell'ombra reclama attenzione da troppo tempo?
»Un racconto che è quasi un mosaico, dove ognuno ci parla della sua storia. Una raccolta di capitoli a sé stanti, collegati dal tema di una rappresentazione teatrale..alquanto particolare.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note iniziali: Come non ringraziare LadySpleen e AshleyRiddle per i loro complimenti? Siete gentilissime!
Grazie, ragazze, sul serio. Mi hanno fatto davvero molto piacere! E sì, è vero, lo ammetto.
Non sono mai stata a Parigi! Ma vedrete... presto vi approderò (e probabilmente mi rifiuterò di tornare indietro, ma questo è un altro discorso xD).
Bè, questo è il secondo capitolo.
Hope you like it!

Capitolo 2. Petite Danseuse


Tra il pubblico corre un mormorio eccitato, mille e più teste si voltano qua e là nel buio della platea, lasciando nell'aria una dolce scia di frammenti d'argento.
Leggero e silenzioso com'era arrivato, quello che una volta era stato un uomo scende dal palco, lasciando lo spazio alla protagonista di questa notte. Timida, un po' ritrosa, ma orgogliosa di essere ormai un fiore immortale, il fondamento arcano, magico, notturno di questa città.
Conserva ancora la forma umana, sebbene il suo bel corpo, un tempo così splendido e tornito, tremoli adesso a contatto con l'aria, dandole l'aspetto di ologramma fatuo, di un'apparizione malinconica destinata a sparire con un sorriso e uno sbuffo di luna.
Ma quanta bellezza in questa apparizione evanescente! Quanta la grazia di quelle fragili braccia avvolte dal broccato lacerato, di quelle dita piccole come quelle di una bambina, eppure segnate da profondi solchi.
Quelli sulle mani, però, sono solo quelli visibili. Chissà quanti altri tagli nasconde il suo cuore perlaceo. Chissà quanta sabbia del tempo avrà sfiorato quelle ferite brucianti.

Il suo aspetto è strano e tetro, a dispetto del suo volto ingenuo, semplice. I suoi occhi, però, sono troppo grandi per non aver mai posato lo sguardo su di un luogo nascosto. Un luogo che neppure la morte può trargli fuori dal cuore.

Adesso i suoi occhi vagano sull'aria immobile della sala, dove le particelle di polvere si uniscono a quelle di Parigi, fremente e nebbiosa città in attesa di un racconto.
E' venuto il momento di parlare.

"Sono Colette, e sono nata nell'inverno del 1894, nel baluginio di candele da altare che si andavano spegnendo.
L'aria, quel giorno, era particolarmente profumata. La notte era limpida e chiara, fredda come una lama. E altrettanto tagliente era il suono del mondo intorno a me. Ancora non sapevo quale sarebbe stata la musica che avrebbe accompagnato la mia vita, se i suoni del violino, del pianoforte, dell'arpa di quella notte sarebbero entrati di nuovo nella mia esistenza decadente e bizzarra. Ma sapevo che questa città in cui danzano le stelle, questa città languida, turgida di bellezza e rigogliosa come un fiore, mi avrebbe condizionata. Per sempre.

Non ho mai saputo chi fosse mia madre. Mi piace pensare di essere nata da quelle candele, dal suono di quell'arpa. Mi piace pensare di essere nata dal torpore notturno e brumoso di Parigi, dal miele vischioso e tossico che rappresenta tutta la sua arcana sostanza.
Ho vissuto undici anni tra le vie della città di cui ora sono una presenza notturna e barocca.
Ho imparato che a Parigi puoi imbatterti in angoli dimenticati in pieno sole. Ho imparato che i suoi lumi ad olio danno riparo ad anime stravaganti, poetiche, artistiche.
Conosco ogni singolo ciottolo di queste vie di pietra, ogni singolo sfregio nell'anima di questa città. Ogni odore di cucina, di pane, di burro, ogni tovaglia a quadri.
Ma ancora, ad undici anni, non conoscevo il velluto, il suono lascivo del piano, una bettola fumosa e le perle maledette che mi hanno portato alla morte.

In una sera malinconica, in cui la luna fumosa sembrava giocare ad adagiarsi sui terrazzini di pietra ornati da fiori, inseguendo l'odore del cibo, di un lume, di un letto, ho fatto il mio primo passo nella nebbia.
Era una di quelle notti in cui il mondo si confonde, rimescolando le sue particelle malsane in un miscuglio in cui rimanere morbosamente invischiati.
Confusa dalle mie fantasie ed abbagliata dall'acetilene delle vecchie lampade, sono entrata in quella che, ad un primo sguardo, sembrava una bettola brumosa, stravagante e dal vago odore di birra.
Ragazze ben pettinate, fasciate dolcemente di broccato lacerato agli orli, tinte di belletto, offuscate dal lucore delle gemme, scivolavano tra i tavoli senza peso, oscure come lune di tregenda, come malinconia che regna sulla devastazione.
Guardavo il mondo di sghembo, per un tozzo di pane ho lasciato comprare la mia vanità.
Quella non era un'osteria, immagino che tutti voi l'avrete capito. No, signori miei, quella sera non ho trovato un riparo. Ho trovato l'ultima parte della mia vita, ho trovato il dolce veleno parigino al suono di perle sul legno.
Quella sera la luna e i fiori che la incorniciavano mi avevano tradita.

Il mio cuore di spettro freme ancora al delicato effluvio di quelle notti di seta.
Da quella volta, quel luogo è diventato la mia casa.
E’ vero, non ero altro che una puttana di lusso. Ma adesso anch’io vestivo di broccato e velluto, adesso anch’io sentivo il dolce e rotondo peso delle perle tra i miei capelli lunghi. Potevo gustare l’essenza più torbida di Parigi direttamente dall’interno, assaporarne la morbosità mesta, l’odore di pioggia confuso a quello della birra, e ogni tanto, quando un’artista capitava per caso nel mio regno di Rue de La Chapelle, il profumo di colori e di pittura, di mondo visto attraverso gli occhi di qualcun altro.

Ero diventata, col tempo, una ballerina. Avendo passato la mia vita a camminare in una città dove danzare al suono della vita è d’obbligo, scivolavo nel locale con la grazia di una stoffa di seta su un corpo morbido.
Intrattenevo i clienti con il mio passo sfuggente, con il fruscio dei miei abiti a terra, con un sussurro danzato all’orecchio. Era, nonostante tutto, una bella vita.
Avevo così tanti amanti. Mi adoravano, veneravano le mie forme, ritrovavano nel mio corpo una certa oscurità mesta, la stessa che si annidava in fondo alle loro anime.
Ma io, io avevo un’unica vera amante. Parigi.
Fino a quel giorno.

Lui si chiamava Jacques, ed era troppo persino per me. I capelli neri, gli occhi verdi come le foglie dei meli, il colorito eburneo di chi letteralmente beve la città solo di notte. Era magro, eppure non ho mai visto qualcuno di così solido. Un gran ciuffo notturno gli scivolava sugli occhi, nascondendo i suoi pensieri al resto del mondo.
Ricordo che entrò nella mia vita con il passo tranquillo che lo contraddistingueva, in una sera chiara e musicale come quella in cui io ero nata.
Pur cercando di stargli il più possibile lontana, la mia rovina fu il suo sguardo. Nei suoi occhi saliva lentamente la nebbia del fiume, nei suoi occhi scintille d’argento danzavano in cerchio, nei suoi occhi spettri di un passato che, lo sapevo, lo speravo, sarebbe stato mio.
Nonostante le apparenze, mi innamorai di lui a poco a poco.
Al tempo non sapevo ancora cosa volesse dire la parola amore. E quando mi sono accorta di quale fosse il guaio in cui mi ero cacciata, era troppo tardi.

Ho amato perdutamente Jacques, l’ho amato per ogni minuto della mia misera vita, l’ho amato più di quanto io stessa riuscissi a capire.
Il mio non era un amore sdolcinato. Non lo è mai stato, e non lo sarà mai, non violerò così il ricordo che di lui mi porto nell’eternità. Il mio forse non era neppure amore, chissà. Forse era solo l’ossessione di una donna innamorata di una visione, di uno sguardo, di un sorriso.
Eppure io sono sicura che ci fosse qualcosa di più. Non posso dire di aver amato Jacques più della mia stessa esistenza, perchè lui era la mia esistenza. Il mio respiro dipendeva dallo scorrere del sangue nelle sue vene. Era un amore oscuro, era un’ossessione.
Sì, Jacques era la mia ossessione, era un errore, era la voglia di accecarmi per non vederlo più, era il ticchettio dell’orologio che mi ricordava con angosciante precisione quanto tempo fosse che non lo vedevo.
Jacques era la morte, era la vita, era la mia follia, era il sorriso, la pioggia, il vento.
Jacques era il profumo.
Jacques era lo stesso destino, che mi diceva che per quanto avessi fatto, l’avrei amato per sempre. Era un volo alla fine del tempo, era un sorriso e il baluginio dorato impressosi nelle mie retine quando ero nata.
Ho offerto a lui ogni molecola del mio torbido amore.

Ma lui, lui non mi amava.

“Non ti amo, Colette, non ti amo. Non lo farò mai. Io non amo.
Non credere che io non possa amare. Non è così.
Io non voglio amare. Io non ti voglio amare”.

Sì, Jacques fu la mia follia.

- - -

L’amore non corrisposto. Quale clichè. Cosa c’è di più scontato alla fin fine? Una donna si innamora di un uomo, ma lui non la ama. Niente di più semplice da capire. Verissimo.
Se, dopo aver offerto la tua eternità in dono a un bastardo, riesci ancora a capire qualcosa.

Io non ce la feci. Non so quello che avreste fatto voi, signori, non so neppure se un tale amore sia ripetibile su questa terra, non so se abbiate ma visto il suo sguardo in ogni pietra, in ogni goccia di pioggia, in ogni perla. Io ho fatto di più. Ho visto il suo sguardo nella mia anima. Il suo sorriso marchiato a fuoco sul mio cuore. Ho visto il suo volto sovrapporsi a quello della luna che faceva capolino dai tetti, mentre mi guardavo morire.

Anche quando sono morta era una notte d’inverno. Vagavo per la città, folle di un profumo, ebbra di vita ad un passo dall’addio. Poche perle erano rimaste tra i capelli, le maniche del vestito si erano lacerate, le mani erano segnate da tagli profondi, che mi ero procurata nel tentativo di infliggere all’anima della città tanti sfregi quanti quelli del mio cuore, ormai talmente gonfio d’amore da sembrare pieno d’odio.
Era notte, erano i bassifondi di Parigi. Quartieri di artisti e di assassini.
E io ero pazza. Oh sì, ero pazza.
Talmente pazza da non accorgermi chi fosse a trafiggere il mio petto con una lama. Anche se, scavando nei miei ultimi ricordi, posso forse trovare un indizio.
Un paio di occhi verdi come le foglie dei meli.

Quando sono morta, le ultime perle che avevo tra i capelli sono scivolate via, rotolando lontano”.
  
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