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Autore: Francine    24/06/2014    2 recensioni
«Una sorta di super soldato?», chiese un giovane, dai capelli biondi e dall'accento sguaiato, con una cravatta da vaccaio al collo. «Come nei fumetti?»
«Esatto, mister Griffith», intervenne Volonskij, «solo che, questa volta, potreste ottenere dei dati concreti, invece che pagine disegnate per bambini delle elementari.»

Prima Pubblicazione: Settembre 2004
Genere: Avventura, Drammatico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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16.

 
 
La pioggia aveva iniziato a cadere a secchiate dal cielo plumbeo, rimbalzando sull’asfalto e scorrendo in lunghi rivoli per le strade deserte. Un lampo illuminò per un istante la stanza e il viso della ragazza che la fissava con gli occhi strabuzzati.
Che… che ci fai tu qui? «Sono Françoise… Françoise, mi riconosci?», provò a rassicurarla, scostando il diadema con la mano libera. Le lasciò la bocca, ma la ragazza iniziò a parlare in una lingua che lei non conosceva.
Cinese! E figuriamoci!, pensò provando a parlarle con più calma.
«Tesoro, non capisco una sola parola di quello che dici…»
Lei sembrò agitarsi ancor di più, terrorizzata oltre misura. Il nome di Shiryu, ripetuto più volte, fu l’unica cosa che riuscì a comprendere, in quel mare di sillabe accatastate l’una sull’altra.
«Avanti, andiamo da Shiryu…», disse sfilandole la flebo dal braccio e rompendo i lacci che le imprigionavano polsi e caviglie. L’aiutò a mettersi seduta e le avvolse sulle spalle una coperta che si trovava ai piedi del letto. E le sussurrò: «Tranquilla, è tutto finito…». 
Si diresse verso la finestra: erano al secondo piano e ritenere di poter saltare giù con lei in quelle condizioni avrebbe significato metter a morte certa il bambino che aveva in grembo e forse anche la madre. D’altra parte, non poteva certo uscire dalla porta principale come se niente fosse, giusto?
Espanse il cosmo, alla ricerca di qualcuno che potesse aiutarla. Servirebbe il teletrasporto, pensò; ma Mu era troppo lontano per sperare che le teletrasportasse direttamente a Kido Manor.
Due continenti ed un braccio di mare a separarli.
Decise di tentare il tutto per tutto. Scostò la tenda e guardò fuori, nascosta dietro un angolo. Sembrava non esserci nessuno ad aspettarle e la pioggia avrebbe garantito loro un piccolo vantaggio. Strappò la tenda e vi si avvolsero, avendo cura di coprire la gestante, proprio mentre la porta della stanza si apriva, sfondata da un calcio ben assestato.
Athena aiutami!, pregò cozzando contro il vetro, mentre la tenda svolazzava nell’aria. Atterrò sull’asfalto, il cosmo che cercava di proteggere la ragazza dai proiettili che stavano piovendo loro addosso dalla finestra del secondo piano.
Imbecilli! 
Schizzò via con Shunrei tra le braccia e la tenda come mantello.
 
 
Il corpo candido e morbido di Irina rispondeva come sempre alle sue carezze. Era come un violino, che vibrava se si toccavano le corde giuste: il collo sottile, le spalle ben delineate, il seno morbido, i fianchi torniti, le gambe che si stringevano con forza attorno a lui. Affondò il viso nell’incavo del collo di Irina, sprofondando nei suoi capelli biondi.
La scrivania del suo studio non era il posto migliore dove farlo. Spostare con una manata le carte impilate e sbatterla sulla superficie laccata per strapparle la camicia di dosso aveva in sé un sapore violento e maschio e sapeva che lei adorava questo modo di fare così animalesco; tuttavia le sue ginocchia protestavano ogni volta che sbattevano contro il legno pieno della costosissima scrivania. Farlo su un ampio letto a due piazze era molto più comodo, ma Irina sembrava non essere sfiorata da questi pensieri, adesso: mugolava, la testa all’indietro e gli occhi chiusi, lui lo sapeva, e le mani che correvano sulle spalle del suo uomo, stringendo la pelle e graffiandola con le unghie corte.
«Ja…lubja…tebia…», mormorò con la voce spezzata dal piacere, prima che la luce rossa dell’interfono cominciasse a lampeggiare impazzita.
Fece per voltarsi e rispondere quando la mano di lei lo fermò.
«Non adesso!», lo implorò spingendoselo contro e tenendolo stretto con le gambe. «Non adesso…»
Si liberò della mano di Irina e rispose all’interfono.
«Che succede?»
«Chiedo scusa, signore, ma la cavia 13792 è scappata.»
«Che cosa?», urlò mentre sgusciava fuori da lei e l’abbandonava sulla scrivania come fosse stata una bambola di pezza.
Irina chiuse gli occhi, sospirando nel tentativo di riprendere il pieno controllo di sé. Portò le gambe a terra e si alzò dal piano, sedendo sul bordo del mobile, la gonna ancora attorcigliata sull’addome.
«Com’è possibile che una donna al nono mese di gravidanza, legata mani e piedi, si lanci dal secondo piano di un palazzo?»
Volonskij urlava, fuori di sé, mentre si tirava su i pantaloni e si sistemava la camicia spiegazzata: ora la sua mente era a mille chilometri lontana da lei, concentrata sulla rogna che gli era appena capitata. Irina pensò che apprezzava questo suo carattere così concreto e poco incline a lasciarsi andare. Si sistemò i capelli con una penna mentre lui finiva d’inveire contro l’addetto alla sorveglianza.
«Trovatela, cazzo! Prendete anche il prototipo RX79 e portatelo a Kido Manor! Sono sicuro che si saranno rifugiati lì.»
«E del primo intruso che ne dobbiamo fare, signore?»
«Scioglietelo nell’acido, cazzo!», ruggì chiudendo la comunicazione. Portò entrambe le mani sulla scrivania, scaricando il peso del corpo sulle braccia per ritrovare la giusta lucidità. «Saori Kido… chi semina vento, raccoglie tempesta…»
 
 
«È andata da quella parte, presto!»
Sachiko correva nella direzione indicata dal suo superiore, mitra tra le braccia, mano sinistra sul grilletto e destra sul silenziatore. Ancora quei maledetti intrusi! Ancora quei pazzi terroristi che cercavano di impedire in tutti i modi le ricerche del dottor Volonskij. 
Prima quella traditrice della dottoressa Mc Namara, che era fuggita dalla base rapendo il malato che il dottore stava curando; e dire che era stato proprio lui ad offrirsi come volontario per sperimentare la cura che il dottore e la sua assistente Irina stavano perfezionando. E adesso, non paghi, si erano introdotti nel laboratorio di Minato per rapire la donna malata che aveva concepito un figlio sano. E che senza l’aiuto e i medicinali e del dottor Volonskij non sarebbe mai nato.
 Maledetti!, pensava stringendo i denti e correndo con i suoi compagni.
«Di là, avanti! È velocissima!», urlò l’uomo seguendo il segnale sul visore. Il puntino rosso svoltò a destra per poi sparire.
«Merda!»tuonò l’uomo raggiungendo il luogo della sparizione e trovando una leggera brina che decorava lampioni, strada e cassonetti.
 Ma che succede?, si chiese Sachiko notando dei cristalli di neve scendere dal cielo. 
«Com’è possibile?», si sentì dal gruppo di soldati che guardavano la neve come bambini la Vigilia di Natale.
«Restate uniti!», li esortò il comandante alzando la voce affinché non si lasciassero prendere dal panico.
«Là!», si sentì prima che una sventagliata di mitra partisse in direzione di un cassonetto.
«No, di là!», gridò qualcun altro crivellando di colpi una sagoma apparsa dal nulla.
«Fermi, pezzi d’imbecilli!», gridò, invano, il caposquadra, costretto ad alzare il mitra dei propri uomini prima che questi sprecassero tutti i proiettili in dotazione. O lasciassero uno di loro steso a terra. «Non vedete che è immondizia?»
«No, signore! Guardi lì!», disse Sachiko indicandogli la struttura dei bersagli trapassati dai proiettili: erano tutte sagome in cristallo, simile ad un giovane uomo con indosso delle protezioni.
«Ma che diavolo è?», scappò detto all’uomo, che si avvide solo in quel momento dell’ombra anomala proiettata dal lampione.
«Vedo che alla fine vi siete accorti di me…», disse una voce ridendo: era sicuramente uno straniero, anche se il suo giapponese era perfetto.
«Chi sei?», tuonò il comandante prima di vedere i fiocchi di neve aumentare d’intensità.
«Qualcuno che vi renderà inoffensivi per un po’…»
L’uomo si alzò dal sedile improvvisato e scese a terra con un balzo.
Sachiko rimase a fissarlo, perplessa: era un ragazzo, sì e no di vent’anni, e solo ora si accorgeva della straordinaria somiglianza con le sagome di cristallo. Portava indosso quelli che a Sachiko erano apparse delle protezioni: era invece una corazza bianca, un po’ ridicola forse, con quel gonnellino a pieghe e la testolina della paperella che faceva capolino dal diadema che teneva indietro una gran massa di capelli biondo oro.
È un vero peccato bucherellare un così bel pezzo di figliolo, si rammaricò Sachiko mentre notava l’azzurro intenso degli occhi del nemico. Alzò il mitra e lo tenne sotto tiro. Non fece in tempo a premere il grilletto che si trovò silenziatore e canna completamente ghiacciati. Qualcuno provò a sparare ugualmente, ma l'arma gli esplose in mano.
«Non voglio farvi del male!», tuonò il ragazzo. Si avvicinò al comandante del drappello e gli afferrò il bavero della tuta imbottita. «Ditemi dov’è Shun!»
«Di chi stai parlando?», chiese l’uomo in nero sostenendo lo sguardo di ghiaccio. «Sparate! Sparate!», ordinò poi ai suoi sottoposti.
«E con cosa di grazia?», ribatté lo straniero con un sorrisetto ironico. «Non ti sei ancora accorto che i tuoi uomini sono congelati fino alle ginocchia?»
L’uomo portò lo sguardo sul suo drappello, notando come le parole del nemico fossero vere. «Merda!» gli sfuggì realizzando come tutta la sua squadra fosse bloccata sul posto fino a metà gamba, le armi inutilizzabili.
«Te lo ripeto per l’ultima volta… Dov’è Shun?!»
L’uomo sorrise sprezzante e a Hyoga venne una voglia irrefrenabile di spiaccicargli sull’asfalto quel ghigno da maiale.
«Maledetti stronzi!», urlò sollevando in aria l’uomo. «Non vi bastavano Shiryu e Shun? C’era bisogno di rapire anche una donna incinta?»
«Macché rapita e rapita!», berciò Sachiko alzando la visiera del casco in dotazione. «Quella donna ha una grave malattia e suo figlio sarebbe nato sano grazie alle cure che…»
«Sta’ zitta!», le gridò il superiore prima che Hyoga lo sbattesse per terra e si avvicinasse a lei.
«Dimmi quello che sai. Tutto», sibilò a bassa voce fissandola negli occhi: Sachiko provò un freddo ancor più intenso, se possibile, rispetto quello che sentiva averle imprigionato le gambe, ricambiando l’azzurro profondo di quelle iridi d’acciaio.
«Il professor Volonskij è un luminare! Voi terroristi non potrete mai capire…», ribatté la ragazza sotto l’impeto di un crescente quanto inaspettato coraggio.
Hyoga le fece volare via l’arma con una manata.
«Se io fossi un terrorista, a quest’ora voi sareste tutti al Creatore, ci hai pensato? O non ti è passato nemmeno per l’anticamera di quel tuo cervellino ammuffito?»
Sachiko lo fissò stupita. 
«Non mi credi? E allora riflettici su, tanto ne avrete di tempo! E io non ne ho da perdere dietro a voi!», proseguì sorridendo con quelle labbra imbronciate, che Sachiko si chiese come dovevano baciare.
Saltò verso l’alto e sparì.
«Campo base, campo base, passo! Sono Rakamori, campo base mi sentite, passo?»
Rimase con la ricetrasmittente in mano fino a che non disse:«Ragazzi, le strumentazioni sono tutte fuori uso.»
«Lancio il razzo di segnalazione, signore?»
«Certo, geniale! Così ti esplode in mano!», ribatté il caposquadra, riluttante all’idea di aver perso la preda e di dover passare la notte all’addiaccio sotto la pioggia battente che aveva ricominciato a cadere fitta fitta dopo la partenza dello straniero.
 
 
Françoise era in piedi accanto al letto a baldacchino, l’armatura ancora indosso, e vegliava qualcuno, tenendogli la mano e sussurrando parole sottovoce. Al centro della stanza, erano ammonticchiati dei panni, bagnati fradici.
«Françoise…?», disse Saori entrando ed avvicinandosi. «Stai bene? Tatsumi mi ha detto…»
Le parole le morirono in gola non appena lanciò lo sguardo sulla ragazza semi svenuta adagiata sotto le lenzuola candide.
«Tatsumi ha chiamato un medico?», chiese Cancer fissando negli occhi Athena. «Serve un ginecologo…»
«Ma cosa…?»
«L’ho trovata in quel palazzo. Legata mani e piedi ad un letto d’ospedale. Aveva una flebo che la nutriva, credo, ed alcuni macchinari a cui era collegata… Ed è incinta… in stato avanzato.»
Lo vedo. «Povera cara…», commentò Saori accarezzando le guance rigate di pianto della ragazza distesa. «Adesso va tutto bene…»
«Non ho capito una sola parola di quello che ha detto, parla solo il suo dialetto», aggiunse Françoise sfilandosi il diadema dalla testa. «Ripeteva il nome di Shiryu, solo questo…»
«Shiryu…»
Shunrei la guardò come implorandole di vedere il suo amato. Rimase con gli occhi fissi sui suoi, chiamandola con un cenno del capo. «Shi…ryu…?», ripeté Shunrei, gli occhi blu accesi di speranza.
«Adesso arriva», le rispose Athena.
«Vado a prendertelo io, promesso!», disse Françoise mostrando alla ragazza il pollice della mano destra.
«Sono già andati in quattro al grattacielo F. Conviene aspettare il loro ritorno», rispose Saori stringendo le mani di Shunrei tra le sue. E il suo tono non ammetteva repliche.
«Ma…», provò ugualmente a ribattere, quando incontrò lo sguardo di Athena.
«Esci dalla stanza e dì a Tatsumi di chiamare il dottor Komatsubara. Subito. E poi aspetta insieme agli altri. Intesi?»
«Intesi.»


Hyoga arrivò sul retro del palazzo acquattandosi dietro il muro che delimitava l’edificio. Trovò la porta antincendio aperta e si introdusse nel palazzo. Salì un paio di rampe quando, attraverso la tromba delle scale, notò che queste scendevano anche nelle viscere dell’edificio. Fece marcia indietro, decidendo di provare la strada dei sotterranei, il percorso più rischioso.
È un suicidio, ma non li avranno certo messi all’attico!, pensò scendendo al primo seminterrato. Si nascose dietro la porta d’accesso e ascoltò: solo il ronzio di un vecchio ventilatore. Spinse la porta, che trovò chiusa. A mali estremi, si disse iniziando a congelarla. Bastò un solo colpo secco per mandarla in pezzi come fosse fatta di cristallo. Entrò di corsa, trovando una decina di porte che si affacciavano su un corridoio illuminato dalle luci d’emergenza.
«Hyoga! Hyoga!»
Il sussurro appena percettibile si rivelò essere una voce amica, che lo stava chiamando da dietro una porta.
«Shiryu, sei tu?», chiese cercando di forzare la serratura.
«Sì, sono qui dentro!»
«Ti libero subito!»
Shiryu era in condizioni pietose: magro, emaciato e pieno di lividi, era appeso per i polsi ad un gancio che pendeva dal soffitto. Era coperto da una specie di pigiama blu, di un paio di taglie più piccolo, strappato ai bordi e sulle maniche, e pieno di segni di bruciature. Accanto a lui, un uomo di cinquant’anni era nelle stesse condizioni: indossava un camice da laboratorio semi distrutto sopra un paio di pantaloni marroni. Il tanfo di urina e aria viziata avrebbe fatto vomitare chiunque.
Hyoga si riempì i polmoni d’aria ed entrò, raggiungendo Shiryu in pochi passi; mise le mani sui ceppi, congelandoli, quindi si volse verso l’amico.
«Ce la fai a romperli?»
Gli occhi di Shiryu, di un verde ancor più intenso nonostante lo stato malandato in cui versava, risposero di no. Hyoga esercitò una leggera pressione ed i congegni andarono in mille pezzi. Si caricò l’amico in spalla e lo avvicinò all’incavo della porta.
«Aspettami qui!», gli ordinò andando ad occuparsi dell’altro prigioniero; quando tornò, aiutò entrambi a raggiungere un posto sicuro.
«Dobbiamo sbrigarci ad andarcene, ce la fai a starmi dietro?», gli chiese mettendosi l’altro uomo in spalla.
«No… Io sono allo stremo delle forze», rispose Shiryu cercando di restare in posizione eretta. «Lascia perdere me, porta via Asamori.»
«Che cosa? Costui sarebbe…?», chiese Hyoga andando con gli occhi di ghiaccio da Shiryu all’uomo esanime che teneva sulle spalle.
«Sì», tagliò corto il Dragone e il Cigno si diede dell’idiota da solo. Ovvio che si trattasse di Asamori. Chi altri avrebbe potuto essere? Ivan Zarevič? «Non c’è tempo per le spiegazioni, adesso! Vai!»
Hyoga annuì. «Tornerò presto, tu intanto nasconditi!»
«Aspetta!», lo chiamo a sé come se si fosse improvvisamente ricordato qualcosa d’importante. «Rompi questo cerchio che ho sulla fronte, prima di andartene…»
Hyoga lo notò solo in quel momento, semi nascosto dai capelli di Shiryu incollati alla sua fronte: era un cerchio sottile, di un metallo che riproduceva i bagliori freddi dell’argento.
«Con questo affare addosso non posso espandere il mio cosmo…», spiegò indicandoglielo.
Hyoga fece per toccarlo, quando dal cerchio partì una scarica elettrica di micidiale intensità. Shiryu fu sbalzato a terra, tra la polvere e le ragnatele abitate da insetti ormai dissanguati, e Hyoga lasciò cadere a terra Asamori.
«Bastardi…», commentò il Cigno alzandosi e strofinandosi gli occhi. «Aspetta, lo congelo», e in pochi istanti un sottile strato di brina coprì il cerchio sulla fronte di Shiryu. Quando fu sicuro di aver neutralizzato ogni possibile minaccia, Hyoga lo ruppe.
«Adesso ascoltami», gli disse mentre lo aiutava a rialzarsi. «Seiya ed Ikki sono ancora qui dentro, anche se non percepisco bene il loro microcosmo; gli altri arriveranno tra poco. Tu espandi il tuo cosmo, vedrai che a breve qualcuno ti troverà…»
«Ok, ok…adesso vai…», gli rispose sorridendo. «Sono un rifiuto umano, ma so badare a me stesso…»
Hyoga si rimise Asamori in spalla e annuì. «Resta nascosto, ok? Non preoccuparti per Shunrei, Françoise l’ha portata via di qui.»
Shiryu strabuzzò gli occhi verdi. «Shunrei?»
«Sì», disse Hyoga. Vuoi vedere che non lo sapeva?, si chiese vagliando quell’ipotesi. «Lei e il bambino staranno bene, vedrai…»
«Bambino?? Quale bambino?»
 

L’umore di Milo si aggirava nei dintorni del nero cupissimo.
A fargli andare di traverso la giornata non era stato tanto il fatto che Seiya avesse agito di testa propria; a quell’evenienza era preparato dal momento stesso in cui aveva chiesto ad Aiolia di partire al posto suo, figuriamoci!
No, non era quello, né il fatto che quell’altra incosciente avesse deciso di far casino assieme a loro. Non solo, almeno. Quello che aveva abbassato di colpo l’umore, e la pazienza, del Santo dello Scorpione aveva un nome ben preciso: incertezza.
Se aveva accolto con un sorriso di finta accondiscendenza il racconto sghembo e zoppicante che gli aveva fatto Andrew, man mano che i minuti passavano, Milo si rendeva conto delle implicazioni che comportava trovarsi di fronte un nemico non convenzionale.
Che cosa avrebbero dovuto aspettarsi? Come rispondere? E soprattutto, erano certi che non vi fosse lo zampino di qualcun altro, oltre al manipolo di scienziati pazzi che si era dilettato a trattarli alla stregua di cavie da laboratorio?
Finiscila! Stai diventando paranoico!, si disse mettendo un freno a quei pensieri che rischiavano di sfociare nell’ossessione verso un solo, unico nome.
Loki.
Sebbene il dio dell’Inganno fosse ormai sconfitto da tempo, qualcosa dentro di lui gli suggeriva di non abbassare la guardia, non del tutto almeno. Ecco perché aveva chiesto ad Aiolia di partire al posto suo. Spera nel meglio e preparati al peggio, diceva sua nonna, e questo proverbio era una delle zavorre di cui non riusciva a fare a meno.
Anche se non vedo cos’altro potrebbe andare storto, pensò il ragazzo fissando le porte bianche dietro cui era sparita Athena da cinque minuti buoni. 
Tatsumi era caracollato nel salotto per avvisarla del ritorno all’ovile di Françoise.
«Oh, milady, milady», aveva ripetuto quello che minacciava di diventare il tormentone della serata, «Milady, presto! Cancer è tornata e ha bisogno di un medico! È… oh, quell’incosciente!», aveva detto, bianco come un lenzuolo.
E Saori l’aveva seguito, e lui con lei, sfiorando appena la guida rossa sotto di sé. Cosa poteva essere successo perché lei tornasse ferita? Che cosa? 
Tatsumi si era fermato davanti alla porta bianca a doppio battente e l’aveva aperta dicendo: «È qui, milady. Ho già chiamato un medico.»
Saori era scivolata all’interno della stanza, e Tatsumi aveva richiuso la porta.
«È meglio che tu resti qui», gli aveva detto, e per Milo era iniziata la più snervante delle attese.
Meglio? Meglio per chi?
Perché non poteva entrare? Non voleva? Era ridotta così male da non volersi far vedere da lui? Poi Milo aveva ricevuto un’illuminazione: uscite simili erano perfettamente in linea con il carattere di Françoise. Avrebbe dovuto, semmai, stupirsi del contrario.
Aveva anche pensato che potesse essere ferita, ma un rapido colpo d’occhio al pavimento aveva escluso questa possibilità. Non c’erano macchie di sangue, solo un pantano generico che insozzava la guida e il pavimento tirato a lucido. Anche se… avrebbe senso questo suo comportamento, aveva pensato, e la sua mente aveva iniziato a vagliare l’ipotesi che non vi fosse lo zampino di una vecchia conoscenza.
La porta si aprì che Milo ancora pensava a quali altri conigli stessero per spuntare fuori dal cilindro. Era Françoise. Sana, zuppa come un pulcino e visibilmente turbata, ma non presentava ferite, tagli o abrasioni. Non aveva nemmeno un graffio.
La prima ipotesi, quella del puro capriccio di una bambina offesa – non si sa bene per cosa – acquistò sempre più tridimensionalità, e ciò non fu un bene per l’umore dello Scorpione, che precipitò verso abissi ancora da esplorare.
«Milady ha detto di chiamare il dottor Komatsubara. Subito, per favore», disse lei a Tatsumi. Ignorandolo.
L’uomo annuì e filò dall’altra parte del corridoio, alla ricerca di un telefono.
Erano soli. Ora o mai più.
«Eccoti qui», disse Milo, inchiodandola a due passi dalla porta.
«Eccomi qui», rimbeccò lei, e questo non aiutò. 
Fece per allontanarsi – sembrava volesse mettere quanto più spazio possibile tra di loro – ma lui quasi le sbarrò la strada.
«Fammi passare.»
«Dove vai?»
«Prego?»
«Ti ho chiesto dove vai?»
«Non credo che sia…»
«… affar mio?», l’interruppe Milo.
«Esatto», rispose lei. Non era intenzionata ad ascoltarlo, men che meno a farsi zittire da lui. «Come hai fatto ad indovinare?»
Conosco i miei polli, pensò Milo, che invece disse:«Ti sbagli.»
«Prego?»
Milo sapeva cosa stesse per dirgli lei, una frase spiacevole che tuttavia non mancava mai di ripetergli ogni volta che litigavano. In pratica, ogni volta che s’incontravano. Tu non sei mio fratello, questo gli sibilava, fredda e tagliente come solo Camus sapeva essere, e a lui toccava incassare e starsene zitto.
Perché era vero. Lui non era e non poteva essere suo fratello, per quanto avesse giurato sulla tomba di Camus che si sarebbe preso cura di lei, e alla fine, anche se armato delle migliori intenzioni possibili, Milo doveva chinare la testa e dargliela vinta.
Ma c’era un aspetto della sua esistenza che Françoise non aveva mai dato segno di aver preso in considerazione, anche se avrebbe dovuto essere – almeno in teoria – l’unico aspetto della sua vita. Ed era proprio quell’aspetto che Milo voleva schiaffarle sotto agli occhi, attendendo il momento propizio con la pazienza di Giobbe.
«Ho detto che ti sbagli.»
«Ah, davvero?», domandò lei sorridendo sfrontata.
«Sì, davvero. Perché io non sono certo tuo fratello», disse lui prevenendola, «ma sono pur sempre un tuo pari. E come tale, mi trovo costretto a farti restare in questo palazzo.»
«E questo chi l’avrebbe deciso?»
«Athena», rispose lui. «E mi ci gioco la testa che ti ha ordinato di aspettare in silenzio assieme a noi altri.»
Colpito. Colpito e affondato, per giunta.
«Bene. E cosa si fa? Una partita a canasta?»
«Perché no?», rispose Milo indicandole la strada con la mano sinistra.
Françoise obbedì di malavoglia, seguendolo in una stanza del piano terra.
 

Dei quattro Bronze Saint mancanti, Ichi e Nachi, se ne stavano comodamente sprofondati in un ampio divano di pelle marrone, mentre Ban e Geki guardavano fuori dalla porta finestra che dava sul giardino buio. Milo entrò e rimase in piedi, appoggiandosi con un braccio all’ampio camino della stanza.
«Buonasera…», disse Geki sfoderando il migliore dei suoi sorrisi, ma Françoise non vi fece caso. Il suo sguardo fu catturato da una sola persona, comodamente seduta in poltrona, le mani nelle mani.
Ruy…?, pensò mentre non sentiva altro che il proprio cuore fermarsi per riprendere a battere all’impazzata.
Jimena alzò la testa verso di lei. Si limitò a sorriderle e a tornare ad immergersi nei propri pensieri come se niente fosse.
Se da un lato Milo si era sentito sollevato vedendo che godeva di ottima salute, dall’altro non gli era sfuggito lo sguardo di Françoise sul nuovo acquisto. Sull’armatura del nuovo acquisto. Simile in tutto e per tutto a quella del defunto Shura. I suoi occhi erano diventati ancor più grandi, il viso era impallidito e la bocca era rimasta aperta dalla sorpresa.
Fantasma evanescente un cazzo, pensò osservando la scena.
«Non ti hanno mai detto che non si fissano le persone?», le sussurrò all’orecchio. Vicino. Molto vicino. Al punto da sentire il profumo al cocco del suo balsamo per capelli.
A Françoise non sfuggì il tono usato da Milo; si ripromise di metterlo a tacere, ma non adesso, non adesso che aveva una sorta di visione davanti agli occhi.
«Salve. Sono Françoise di Cancer», le disse porgendole la mano. 
Mano che non fu accettata. Jimena si limitò a rispondere con un poco convinto:«Jimena di Capricornus. Salve.». E basta.
Françoise si sentì come se le avanzasse un pezzo.
Una volta il suo maestro aveva deciso di riparare la sveglia. L’aveva aperta e smontata, allineando ogni pezzo sul tavolo davanti a sé. Alla fine, sistemata l’anomalia e richiusa la sveglia, era avanzata una molla sottile sottile.
«E questa, maestro?», gli aveva fatto notare Andrea, chiamandolo col suo titolo. Nonostante lei conoscesse il modo in cui Andrea lo chiamava quando rimanevano da soli. Marco.
«Non serve», aveva risposto lui, e così Françoise considerava quella mano rimasta a mezz’aria, il braccio teso in posizione amichevole: un’inutile appendice, di cui non sapeva cosa farsene e dove metterla. Ad Andrea rispondeva sempre, pensò accomodandosi di fronte la nuova arrivata.
«Stai bene?», le chiese Geki, in piedi alle sue spalle. «Tatsumi ha detto che…»
«Sto bene. Era Shunrei ad aver bisogno di un medico.»
«Shunrei?», chiese Ichi.
«Sì, l’ho trovata in quel palazzo, legata ad un letto.»
«Ma che ci faceva lì?»
«Non ne ho la più pallida idea…», rispose sedendosi. E rabbrividendo. «Qualcuno m’illumina sulla situazione? Perché io penso di essermi persa qualcosa», disse Françoise ignorando le occhiatacce di Milo. 
 «È una lunga storia», disse lo Scorpione, prima che Geki facesse cenno all’Idra di alzarsi, si sedesse accanto al Cancro e le sorridesse.
«Penso che un brandy ti scalderebbe, sai? Anche se credo che dovresti toglierti di dosso questa roba bagnata…»
«Non bevo alcolici», rispose la ragazza ignorando gli sguardi del bestione seduto accanto a lei. «Allora? Chi mi faun riassunto?»
«Le presentazioni le abbiamo già fatte», disse Milo avvicinandosi al divano e posizionandosi alle spalle della ragazza.«Lei è la controparte femminile di Shura», o almeno di quello che io conoscevo con questo nome. Jimena sorrise, quasi a comando. «Credo che lei sia la più indicata per spiegare la situazione.» Anche se credo anche io che dovresti cambiarti, aggiunse tra sé e sé.
«Tocca a me illustrare come stanno le cose?» disse Jimena e nella sua voce aleggiava un seccato ancora una volta?, fatto di tedio e noia. «Da dove comincio?»
«Dal principio», le suggerì Milo, fissando il pezzo di ghiaccio che lo stava volutamente ignorando.
«Ok. Io sono la compagna di quello che tutti voi conoscevate come Shura del Capricorno.»
Tutti tranne mademoiselle, pensò Milo guardando le gocce sui capelli castani che ricadevano in morbide onde sulle spalle di Françoise. Françoise che aveva strabuzzato gli occhi alla parola compagna.
«Compagna?», chiese infatti. «Sì, compagna», rispose Jimena. «Abbiamo avuto lo stesso maestro. No, non sono spagnola, sono argentina.» «Ah.» Era sollievo, quello che Milo leggeva sul volto di Françoise?
«Mi sono recata a Naxos, a ritirare la mia Armatura da Athina di Virgo, qualche mese fa», proseguì Jimena. «Lì ho trovato anche Shaka. E una missione.»
E che ci faceva Shaka in casa di Athina?, si chiese Milo.
«Ossia?», domandò Françoise pendendo dalle labbra di Jimena.
«Patrick del Centauro era scomparso mentre investigava su alcune sparizioni tra gli abitanti di un paese sperduto nella campagna irlandese. Shaka aveva già inviato un altro suo allievo, Andrew di Perseo, in seguito alla sparizione segnalata dal Santo della Lucertola, Fiona; ma anche di questi due non c’era alcuna traccia…»
Françoise sentiva la sua voce, ma distrattamente, come fosse una nota di fondo o poco più. Più la guardava, più le somiglianze con Ruy diventavano evidenti: lo stesso modo di strascicare la fine delle parole, lo stesso accento marcato, la stessa hota profonda e lo stesso timbro musicale nella voce. Le sembrava di averlo lì davanti a lei, vedeva il volto di Ruy sovrapporsi a quello della sua ragazza. Sorrideva Jimena, e sorrideva lui. Parlava lei, e parlava anche lui. Avrebbe voluto gridare per dare libero sfogo alla pressione che le stava dilaniando lo stomaco. Qualcosa dentro di lei le ripeteva che non doveva pensare a lui, che ormai era morto e che lei era la sua compagna. Qualcosa che, nonostante le rassicurazioni di Jimena, suonava con il timbro secco e duro di un portone che si chiude. Per sempre.
Tuttavia, quell’accento del nord continuava a rimbombarle nel cervello come un’eco infinita.
«Trovai il Centauro troppo tardi, mentre riuscì a salvare solo Andrew e Fiona.»
«Lucertola e Perseo», tradusse Milo cercando di attirare l’attenzione di Françoise che sembrava essere una statua di sale morbosamente interessata al pavimento di marmo di Carrara.
«No. È il contrario», disse Jimena, paziente. «Andrew di Perseo e Fiona della Lucertola.» Silenzio. «Però, il lato positivo fu che venimmo a conoscenza delle ricerche del professor Volonskij sul Cosmo e su come questo sia veicolato attraverso il corpo umano.»
«Cosa?»
Jimena trattenne un sospiro seccato. Era la terza volta che ripeteva quella storia nel giro di due giorni e stava iniziando ad innervosirsi.
«Ogni essere umano possiede il cosmo. Ogni cosmo è veicolato nel sangue dal cosiddetto Fattore C, che porta il cosmo fino al cervello. Come fanno i globuli rossi con l’ossigeno. Solo che mentre tutti gli esseri umani, e forse anche tutti gli esseri viventi, possiedono il cosmo, solo in pochi riescono a riprodurre il Big Bang, e sono ben pochi quelli che riescono a sopportare una tale esplosione d’energia.»
«Questo non lo sapevo», rispose Françoise chinando di lato la testa.
«Aiolia non ti ha mai parlato di Galan, mademoiselle?», le chiese Milo, ma lei si limitò a scuotere la testa e a mormorare un frettoloso «No.» prima di rivolgersi nuovamente a Jimena.
«E questo Volonskij avrebbe trovato il modo di estrarre il cosmo dalle persone? E per farne che? E come sapeva…»
«Una cosa per volta…», la fermò Jimena, prima che la subissasse di domande.
«Volonskij collaborò con Asamori», intervenne Milo, seccato dal comportamento irritante che Françoise stava avendo nei suoi confronti. «E stando ai racconti dei Santi d'Acciaio, sparì ad un certo punto, portandosi dietro i progetti delle armature d’acciaio.»
«Giusto», riprese Jimena. «A quanto risulta dal diario del professor Asamori, sembra che questo Volonskij fosse molto interessato all’opportunità di ideare delle macchine che consentissero al corpo umano di creare le particelle C in grandi quantità.»
«E per farne cosa, di grazia?», chiese Françoise, un sopracciglio alzato.
«Ricreare il super soldato», rispose Jimena. Come se fosse la cosa più normale del mondo.
«Cosa, cosa? Ma è scappato da un film di fantascienza degli anni ’50?», chiese Geki incredulo.
«Più o meno», gli sorrise il Capricorno. «Volonskij era interessato a creare delle armature che avessero in dotazione questo congegno, in modo da rivendere la scoperta al miglior offerente.»
«Una spia del KGB?»
«No, non credo», rispose Milo guardando Ban. «Dubito che il KGB fosse a conoscenza delle sue scoperte. E se anche così fosse, le alte sfere di tutti i governi sono a conoscenza dell’esistenza del Santuario e c’è un accordo di non belligeranza. Anzi, il Santuario è un organismo super partes a cui i governi mondiali chiedono aiuto quando non sanno che pesci pigliare.»
«Come successe per Chernobyl», aggiunse Françoise chiudendo gli occhi. «Mio fratello fu inviato a fermare il reattore della centrale nucleare prima che facesse danni maggiori di quelli già provocati.»
«E va bene, non si tratta del KGB», intervenne Geki. «Ma allora questo Volonskij per conto di chi lavora? Devo credere che sia un free-lance
«Non credo», rispose Milo. «Se avesse proseguito  da solo i suoi studi, immagino che avrebbe dovuto avere  a sua disposizione delle cifre considerevoli. O trovare qualcuno disposto a pagargli i conti…»
Perché Athina non mi ha detto nulla?, si chiedeva Françoise fissando avida Jimena. 
«Possiamo solo avanzare delle ipotesi, ma quasi sicuramente sarà stato sovvenzionato da una multinazionale che commercia in armi», disse il Capricorno. Lo sguardo dell’altra addosso iniziava a darle fastidio. E anche parecchio. 
«Multinazionali che lo sovvenzionavano, nella speranza di rivendere la merce al migliore offerente», aggiunse Milo incrociando le braccia.
«Manca un passaggio…», intervenne Françoise.
«Ossia, mademoiselle Poirot?», le chiese Milo sporgendosi.
«Manca il collaudo, genio!» E Poirot è belga, non francese.
«Già e quale miglior collaudo di quello contro gli originali?», disse Nachi. «Maledetti…»
«La penso anch’io così. Loro sanno dove sia il nostro quartier generale, così come noi sappiamo dove si rintanino loro. È solo questione di tempo», concluse Jimena.
«Ha senso. Ma mi chiedo lo stesso come facciano a sapere chi siamo…», disse Ichi carezzandosi la rada peluria che gli ornava il mento e di cui sembrava andar molto fiero. «Voglio dire, non ce ne andiamo in giro con un cartello, no?»
«Semplice, amico mio», rispose Geki con l’aria di saperla lunga. «La Guerra Galattica…»
Le parole di Geki richiamarono dei ricordi ormai sbiaditi dal tempo. I dieci Bronze Saint tornati dall’addestramento con le armature nuove di zecca, che si battevano sul ring del Grado Colisseum, mentre dal Santuario di Athena giungeva loro la scomunica da parte del Sacerdote e la pena capitale decisa come punizione.
«Anche allora Shun era il più popolare di tutti noi», ricordò Nachi ripensando allo scontro tra Andromeda e Unicorno.«Cos’è che gli disse Jabu sul ring?»
«Sì, aspetta com’era…» ,fece Geki sforzandosi di ricordare le parole esatte.
«Sei molto popolare tra le ragazzine», tentò Ban con sicurezza.
«Sì, è vero! Ah, e poi disse In effetti il tuo viso ricorda più quello di un attore che di un prode guerriero!», concluse Ichi sghignazzando. «In quello è rimasto acido come una volta.»
«Adesso ci sono!»
Tutti si voltarono a fissare Nachi.
«Il merchandising! Come ho fatto a non pensarci prima!!»
Il Lupo si passò una mano tra i capelli che teneva a bada con il gel, mentre sul suo viso si andava dipingendo un’espressione incredula.
«Spiegati meglio», quasi gli ordinò Milo, perplesso dal gusto che Lupo dimostrava di possedere in fatto di abbigliamento: camicia a righe e giacca pied-de-poule era un accostamento che non l’aveva mai convinto.
«Verso la metà di Luglio scoprimmo del merchandising della Guerra Galattica in giacenza in alcuni magazzini. Visto che era materiale in eccedenza, decidemmo di tenerne un numero limitato da parte, e destinammo il resto al macero…»
«Come al macero?», intervenne un disperatissimo Ichi. «Non ci posso credere, hai osato mandare la mia bellissima faccia al macero? Sei un essere senza cuore!»
«E…?», chiese Milo ignorando l’infelice uscita dell’Idra.
«E dopo due settimane quegli stessi magazzini subirono un furto. Pensammo si trattasse di rqualcuno che non sapesse come ammazzare il tempo. E invece…»
«E invece c’era qualcun altro interessato al merchandising!», disse Geki, le braccia conserte davanti alla camicia a scacchi bordeaux. «Hanno rubato qualcosa di particolare?»
Nachi ci pensò su un paio di minuti.
«Non ne sono sicurissimo, ma credo che fossero più che altro delle trading card e dei poster…»
«Poster? Trading Card?», chiese Milo aggrottando le sopracciglia.
«Sì, sono delle carte plastificate di queste dimensioni», gli rispose Ichi, mimando con le mani la grandezza dell’oggetto. «Hanno delle immagini sul davanti e delle note sul retro… Età, altezza, gruppo sanguigno, segno zodiacale. Cose di questo tipo.»
«E perché dei Santi dovrebbero avere delle cose del genere sul loro conto?», chiese Jimena, con gli occhi sgranati dalla perplessità.
«Beh, fa parte del lato commerciale dell’evento. Non so se lo sai, ma la Guerra Galattica fu una manifestazione che richiamò tutte le televisioni del mondo!», riprese Geki con l’aria orgogliosa di chi dice io c’ero.
«Appunto…», fece Milo incrociando le braccia tra il clangore metallico dell’armatura.
Jimena guardò stupita i suoi compagni; più passava del tempo con loro, più l’idea che si era fatta di loro di primo acchito si andava rafforzando: era un gruppo eterogeneo, variegato come un gelato all’amarena, che non perdeva tempo per correre dietro a ciò che sembrava irrilevante, senza concentrarsi sulla pista più evidente.
Altro che combattere contro i mulini a vento!, pensò la ragazza assistendo al vivace battibecco sorto tra Scorpio e Orsa Maggiore che minacciava di degenerare velocemente in rissa. E intanto, la ragazza dai lunghi capelli bagnati continuava a fissarla.
«Quindi, questo Volonskij è tornato in Giappone e ha rapito Shun?»
Françoise lo chiese direttamente a Jimena, ignorando la discussione che stava avendo luogo sulla sua testa.
«Prima Asamori, poi Shun, poi Shiryu, poi Ikki…», contò Jimena usando le dita.
«Solo che Ikki è riuscito a scappare. Adesso torna tutto», disse Cancer fissando la punta dei propri schinieri.«Chi è stato mandato al salvataggio?»
«Fiona, Shaina, Jabu e June», rispose ancora una volta Milo, fulminando con gli occhi Geki che aveva distrattamente allungato un braccio proprio alle spalle di Françoise. «Perseo è a pattugliare i dintorni del palazzo.»
«Dimentichi Hyoga. Se non ci fosse stato lui…»
Se non ci fosse stato lui?, pensò Milo.
«Ci ha fornito copertura per la fuga. Diamo a Cesare, quel che è di Cesare», rispose la ragazza stiracchiandosi. «Mi scusate un secondo, vero?», disse poi alzandosi.
«Dove staresti andando?»
Il tono di Milo era più quello di un comando, che quello di una richiesta cortese. Françoise alzò la mano destra, indice e medio a formare una V e disse:«Alla toilette, signora maestra.».
«Ti accompagno…»
«Conosco la strada.»
Sì, come no. La strada per Minato, semmai. «Insisto.»
La prese per un polso, costringendola a seguirlo fuori dalla stanza.
Milo si chiese perché mai avesse dato retta a Shaina, anche solo per un attimo. Si vedeva lontano un miglio che il fantasma era ancora fatto di sangue e carne, e che anzi, il suo ricordo aveva messo radici profonde.
«Milo di Scorpio, lasciami immediatamente!»
Lui l’ignorò, ed uscì trascinandosela dietro, chiudendo fragorosamente la porta alle loro spalle.
«Ho detto di lasciarmi. So camminare da sola!»
«Ti lascerò quando la smetterai di comportarti da idiota.»
«Scusami?»
«Hai fissato quella povera ragazza per tutto il tempo. Guarda che non è il tuo Shura…»
Milo lo disse con un tono così acido e freddo che a Françoise ribollì il sangue nelle vene. Gli strattonò il braccio, costringendolo a voltarsi.
«Come ti permetti?» Gli regalò uno sguardo truce, e gli sibilò :«Che vuoi saperne tu, di Ruy, eh?», in un tono che lo fece andare letteralmente in tilt.
«Niente! Non voglio sapere niente! Né chi sia questo fantomatico Ruy, né tanto meno dove cazzo tu sia stata in questi tre giorni!»
«E vorrei vedere! Non sono fatti tuoi! Pensa, piuttosto, alla tua vita, ché mi sembra tu abbia sufficienti casini di cui occuparti!»
«La mia vita privata non è affar tuo!»
«Lo stesso vale per la mia!»
«Infatti!»
«Appunto!»
«Esatto!»
Tatsumi apparve nel corridoio, affannato e imbarazzato da tutto quel chiasso. «Un po’ di rispetto! Vi si sente fin dalle cucine! Si può sapere che avete da urlare così?»
«Niente!», risposero i due in coro senza degnarlo di uno sguardo, occupati com’erano a fulminarsi a vicenda.
«Io e la signorina stavamo amabilmente discutendo», rispose Milo quasi ringhiando.
«Non credo!», ribatté Françoise. «Io non ho nulla di cui conversare con quest’individuo
«Perché non ci calmiamo…», provò a dire Tatsumi mentre gli altri li fissavano dalla soglia del salotto. Preoccupatissimi.
«Io sono calmissima!» Françoise gli ruggì contro fissandolo negli occhi. Era furiosa, e se la stava prendendo con Tatsumi senza aver nemmeno compreso la ragione reale del suo malessere. Motivo che la prese per l’altro polso e le sibilò: «Vogliamo abbassare la voce, Phi?».
Si liberò dalla stretta di Milo, fissandolo con astio sempre più crescente.
«Non chiamarmi così», scandì lentamente fronteggiando lo sguardo magnetico di Scorpio.
«E come dovrei chiamarti? Gaviota, per caso?»
«Milo di Scorpio… Io ne ho conosciuti di esseri irritanti e stronzi, ma tu li batti tutti.»
«A chi avresti dato dello stronzo, signorina?», tuonò Milo. Glielo chiese parlandole in greco, nel suo greco, quello fatto di sole, sale e parole affastellate l’una all’altra. E afferrandola per un braccio. L’attirò a sé.
«Mi stai facendo male…»
«Rispondimi», l’incalzò, al limite della sopportazione. «A chi hai dato dello stronzo?»
«Ne vedi altri, in questo corridoio?»
Fu la goccia che fece traboccare il vaso; Milo alzò la mano sinistra, pronto a colpirla, quando lei sgranò gli occhi. E porse il viso.
Fu una questione di un secondo; appena Milo si accorse che lei stava aspettando lo schiaffo, Françoise lo sfidò:«Forza, che aspetti? Non mi colpisci? Avanti, non ne hai il coraggio, grand’uomo?».
La mano di Milo si fermò ad un centimetro dal suo viso, tramutando il ceffone in un buffetto. Le accarezzò la guancia con il pollice e si staccò da lei.
La prese per mano, mormorando uno: «Scusaci», rivolto a Tatsumi e si trascinò dietro un’attonita Françoise entrando in una stanza a caso.
Questi sono pazzi come cavalli, pensò Tatsumi. L’uomo si aggiustò il papillon e scese le scale. Doveva ricomporsi. Il dottor Komatsubara sarebbe arrivato da un momento all’altro. 


 Note:

«Ja lubja tebja» significa io ti amo in russo.

Ivan Zarevič (lett. Ivan lo Zarevič = figlio dello zar) è uno dei principali eroi del folklore russo. Figlio di Nastassja dalla treccia d'oro (vi ricorda qualcuno, per caso?) è il principe azzurro, nonché l'eroe per eccellenza. Se vi interessa conoscerlo, lo trovate a salvare fanciulle in Ivan Zarevič, l'Uccello di Fuoco e il Lupo Grigio, La principessa rana e Marja Morevna.

Al solito, grazie a Sen per l'aiuto e a tutti voi che leggete/recensite/piaciate(?)/ricordate/seguite questa storia.

A martedì prossimo.
 
   
 
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