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Autore: Ilarya Kiki    27/06/2014    2 recensioni
Esilarante, no?
E pensare, che questo è esattamente lo scopo per cui sono stata fatta venire al mondo, tanti anni fa. E pensare che lo sono diventata nell’esatto momento in cui avevo scelto di ribellarmi al destino che mi era stato imposto, e nei brevissimi istanti in cui ho avuto il pieno controllo, o almeno, credevo di averlo avuto, ho fatto l’impossibile per evitare che ciò accadesse. Comico, davvero, spudorato oserei dire. (...) Non posso essere viva per caso.
Mi rifiuto di crederlo.
Che dire, sarà divertente. (...)
A presto, Chrona è tornata.

Abbozzo per un seguito di "Just a simple story about a little crazy girl", o forse no, insomma, più o meno. In ogni caso, ambientata dopo la fine del manga. O della storia precedente a questa, che si supponeva dovesse finire in modo diverso da quella ufficiale, ma a quanto pare ne è molto più simile del previsto...
Dedicata a tutti gli amanti di quella folle creatura che è Chrona!
Genere: Dark, Introspettivo, Poesia | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai | Personaggi: Crona, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'Kurona, the Dark One.'
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Arise, my dear.


La prima cosa che ho sentito è stata il freddo.
Una sottile corrente di aria fredda, insinuante, che scorreva fastidiosa sul mio corpo - corpo?-, che raggiungeva persino gli anfratti più intimi delle mie narici, vi entrava e vi usciva, lentamente, gonfiando i miei polmoni. Sì, stavo davvero respirando.
Restai qualche minuto in questa nuova consapevolezza, pigra, ad ammirare stranita come le mie funzioni vitali lavorassero ancora, anche se debolmente, e non mi feci troppe domande su come fosse stato possibile che questo accadesse.
Presto, però, mi resi conto che quel freddo cominciava a penetrare più nel profondo, fino alle fibre più interne, e decisi di non essere più in grado di perseverare nella sopportazione. Così, contrassi quella parte di me che non è “testa”, per cacciare il gelo, cacciare la morte, e nel farlo un improvviso baleno di dolore attraversò tutto il mio essere, come se fossi stata spezzata contro ad uno spigolo di ferro. Trattenni per un secondo il respiro, e cacciai un gemito tra le labbra aride che mi giunse aspro e rauco come quello di un cane randagio.
In quel momento ne ebbi la conferma, ero viva. Il dolore fisico si annulla, nella morte.
Strana cosa, dato che in teoria dovrei essere morta.
Già, ricordavo benissimo di essere morta, era stato fantastico, uno dei miei momenti migliori in assoluto, e poi più nulla. Ma a quanto pare non tutto era andato come me l’ero aspettato.
Trassi un profondo sospiro, e schiusi le ciglia, ricoperte di sabbia e polvere. Mi accolse un blu trapunto di stelle, vicine e serene, luminose come anime che amano. Mio malgrado, sorrisi: erano bellissime. La loro luce mi trasmise una pace che colò sul mio cuore intontito come un balsamo profumato, e mi beai per qualche istante nel loro fulgido splendore.
Eh sì, ero viva. E se davvero la vita è bella come quelle stelle, allora forse non è stato così male che la morte mi abbia ingannata in questo modo, risputandomi indietro. Respirai di nuovo, e decisi di tentare una nuova sfida ai muscoli; sollevai appena la testa e posai lo sguardo appena più giù del cielo, per vedere cosa restava: attorno a me il paesaggio era candido e pacifico, come un deserto argenteo sotto la volta celeste. Il mio corpo, sembrava che fosse ancora intero, dopotutto. Vidi un paio di gambe scheletriche, lunghe e sporche, unirsi ad un ventre piatto e nudo, da cui sporgono le ossa delle anche come uncini. La mia pelle grigiastra era imbrattata di sangue rappreso, nero, e ricoperta di detriti e polveri. Cercai di muovere le dita dei piedi, e ci riuscii con un minor costo in dolore rispetto a quello che avevo dovuto pagare prima.
Passò poco tempo, prima che io fui riuscita a muovere ogni singolo membro del mio corpo. Con la testa che velocemente iniziò a ruotare insieme al paesaggio intorno mi issai sui gomiti, puntandoli nella fredda polvere, e piegai le gambe, sollevandomi in piedi. Il vento batté più forte sul mio corpo nudo ed emaciato, sporco e incrostato. Quanto tempo era passato?
Non ricordavo nulla.
Nulla, tranne la morte. Cosa era successo? Le ultime immagini riflesse dalla mia memoria erano le smorfie di terrore del Kishin, mentre lo mangiavo, e le sue grida animalesche. Mi faceva male la testa.
Con le gambe che tremavano mossi qualche passo sul terreno sabbioso, e lo sforzo per il mio povero corpo risultò tale che il respiro mi si mozzò ed il cuore prese a pulsarmi insistentemente nei timpani, offuscandomi l’udito e togliendomi la vista, quasi lo vidi sconquassarmi di colpi, sulla pelle pallida e sottile, sotto le costole a vista.
Davanti a me c’era una sorta di declivio, come una collinetta: arrancando e strascicando i piedi lo raggiunsi, ma crollai in ginocchio dalla stanchezza poco prima di potermi affacciare.
Allungando le mani mi aggrappai alla sua cima e sporsi la testa dall’altra parte.

Rimasi a bocca aperta.
Di fronte a me un’immensa luna, azzurra e verde, stava nascendo con una strana aurora multicolore: il cielo nero e blu si illuminava di onde azzurrine e bianche, attorno al suo diametro perfetto, e rischiarava le stelle, offuscandole. Luci brillanti si riflettevano sulla sua superficie liscissima azzurra, e si confondevano a macchie bianche che parevano gocce di tempera mischiate da un pittore distratto. Ci misi lunghi secondi a realizzare che stavo ammirando la Terra.
E, subito dopo, giunse la consapevolezza che il luogo bianco e brullo dove mi ero riscoperta viva era la Luna.

Sorgi, mia cara, siamo ancora qui.

Voce?

La nostra storia non è ancora finita, mia cara.
Quello che hai fatto è stato un atto nobile e di gran cuore, ma nello stesso tempo hai cucito i nostri destini a filo doppio con un’entità che non può permettersi di scomparire, perché è parte stessa dello spirito di questo mondo. Dovrai accettare le conseguenze del tuo coraggio.
Ora, guardati, guardami.

Stremata, chiusi gli occhi davanti alla luce accecante riflessa dall’atmosfera terrestre, e la vidi.
E sobbalzai.
La Voce, quella parte di me che continua a parlarmi in quella zona appena dietro l’orecchio con parole sussurrate, mi accompagnava da sempre, almeno da quanto io riuscissi a ricordare. Era una delicata fanciulla, o una bambina, o la mia coscienza, a seconda delle cose che voleva dirmi, e non mi aveva mai lasciata sola, nemmeno nei miei momenti di delirio peggiore: solo pochi momenti prima del mio sacrificio ero riuscita a riappacificarmi con lei, acquietando la bufera che si era scatenata nel mio cuore insieme ai nostri violenti litigi.
Ma allora, quando chiusi gli occhi e la vidi, non era più la stessa di prima.
Fui attraversata da un brivido di orrore.
Tre occhi, tre allungati occhi neri capeggiavano sul suo volto bianco, ora, il terzo aperto in verticale sull’ampia fronte. Rossi, accesi di fiamme infernale, ma nel frattempo oscuri, vibravano a ritmo con gli spostamenti delle loro orbite, ognuna per conto suo, strabica.
Sulle scapole, due immense ed ossute ali di sangue, i tendini di arti e dita tesi allo spasimo nell’atto di afferrare l’aria, il nulla, e poi quella sensazione…
Come se la mia ombra fosse originata da una fiammata di potere nascosto, che emanava da lei ad ondate come un’aura ardente e inarrestabile.
Questa sei tu, ora. Siamo noi.
Ce lo siamo mangiato e lui è entrato dentro di noi.

Solo allora mi resi conto, solo allora capii, e con la consapevolezza mi giunse anche la percezione di quell’incredibile potere nascosto dalla fame e dalla stanchezza.
Ero diventata il Kishin.
  
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