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Autore: Francine    01/07/2014    2 recensioni
«Una sorta di super soldato?», chiese un giovane, dai capelli biondi e dall'accento sguaiato, con una cravatta da vaccaio al collo. «Come nei fumetti?»
«Esatto, mister Griffith», intervenne Volonskij, «solo che, questa volta, potreste ottenere dei dati concreti, invece che pagine disegnate per bambini delle elementari.»

Prima Pubblicazione: Settembre 2004
Genere: Avventura, Drammatico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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17.
 
 
Il dottor Kazuo Komatsubara ripose il fonendoscopio nella sua borsa di pelle. Prese una torcia, la accese e divaricò le gambe di Shunrei. La ragazza mugolò.
«Non va bene. Affatto.»
Questo lo capivo da sola, pensò Saori attendendo che la visita finisse.
Komatsubara richiuse i suoi strumenti nella valigetta e si tolse il camice un po’ spiegazzato.
«Dottore, come sta?», chiese Saori, come in quei polizieschi di serie B che tanto piacevano a Tatsumi. Una parte di lei si rimproverò quest’uscita poco felice, mentre l’altra – la parte divina, forse - le ricordò che un medico come Komatsubara era ormai abituato a quel genere di domande. E con un onorario come il suo può anche sforzarsi di ascoltare battute trite e ritrite, sussurrò una voce dentro di lei. 
Stai parlando come Tatsumi, si disse.
Athena tacque.
Il medico scosse la testa e incrociò le braccia, poi si voltò verso Saori e le chiese: «Cosa state aspettando? Dovete portare la signora in ospedale, sta per partorire, non vedete? O vuol farlo nascere in casa?».
Saori non rispose. Che cosa avrebbe potuto dirgli? Fissò il medico cercare nella borsa ed estrarne un tubetto, aprirlo e mandar giù una manciata di pillole senz’acqua. Salute, pensò la ragazza.
«Ho la gastrite», spiegò l’uomo, come se avesse potuto sentire il suo pensiero. «Devo visitare la signora in ospedale, con le attrezzature adeguate, capisce?»
Saori annuì. «Ha perfettamente ragione. Tatsumi, avviseresti l’ospedale che stiamo arrivando?»
«Già che si trova, avviserebbe anche di preparare la sala parto?», aggiunse Komatsubara fissando la pancia della ragazza. «La cartella clinica della signora dov’è?»
«La… cosa
«La cartella clinica. Quella che contiene tutti gli esami che la signora ha fatto durante questi mesi. Analisi del sangue. Ecografie. La Flussimetria. Gli ultimi monitoraggi… Dov'è?»
«Io…»
«Non li ha?»
«No. La mia amica viene dalla Cina e… »
«E ha dimenticato laggiù gli esami? Non ne ha fatti altri qui in Giappone?», chiese sconcertato Komatsubara. «Ma è impazzita?»
«Sono sicura che ci sarà una spiegazione», disse Saori per tagliare corto. Dovevano andare in ospedale, giusto? Allora meglio non perdere altro tempo prezioso. Si voltò verso Tatsumi, che con un cenno del capo si allontanò. «Posso fare qualcosa?», chiese a Komatsubara. 
Costui, scuotendo la testa, rispose: «Fornirmi qualche dato in più sulla signora, ad esempio. Il suo gruppo sanguigno. La sua età. Se è allergica a qualche farmaco. Non so, un tipo di antibiotico. O l'acido acetilsalicilico. O la penicillina. Se soffre di cuore. O di diabete. Se questa è la sua prima gravidanza.». Fissò Saori dritto negli occhi. «Può rispondere a queste domande?»
«No. Io no», disse la ragazza. Cosa sapeva di lei? Nulla. Shunrei era l’angelo custode di Shiryu. Aveva gli occhi blu. I capelli corvini. Le piaceva vestire di rosa. Ma se cercava nella memoria qualche informazione più utile, Saori non trovava nulla su di lei. Il vuoto. 
«No», mormorò il medico.«Almeno, è possibile rintracciare qualcuno che ne sappia qualcosa? Non so, un parente? Oppure il marito della signora, ad esempio?»
Marito. Saori non capì. Non riusciva ad associare quella parola a Shiryu. Al suo Shiryu. Al suo Dragone. Suo e di nessun’altra. O forse no, visto che la ragazza distesa in quel letto portava in grembo suo figlio. 
«Ha avuto un incidente ed è in ospedale. La mia amica si è preoccupata e…»
«E non poteva dirmelo prima?», l’interruppe Komatsubara. 
Saori tacque. 
«Andiamo in ospedale», disse il medico prendendo la propria valigetta. «Ah, e un’altra cosa…»
Saori sperava che non volesse mettersi a discutere del suo compenso, non adesso. «Pagherò senza battere ciglio qualunque onorario, dottore. Ma adesso credo sia il caso di andare.» 
Komatsubara sorrise. «Sono lieto di sentirglielo dire, signorina. Ma c’è un però. O lei mi firma una liberatoria, oppure io questa signora non la sfioro nemmeno con un dito.» 


June gli stava mostrando cosa significasse volare sull’acqua. I suoi piedi scendevano a calpestare il terreno per poi risalire verso l’alto, senza peso. Lievi. E forti. E veloci. E precisi. La vedeva solcare l’asfalto bagnato come una nave che scivola su di un mare nero, tra la pioggia che rimbalzava a terra e lo stridio dei pneumatici delle vetture che inchiodavano per non investirla. June non sembrava farci caso. Lei correva via. Altrove. Verso Minato. Verso Shun. Adesso che l’hanno liberata chi la ferma più?, commentò tra sé e sé Jabu. Un po’ invidiava Shun per avere qualcuno che pensasse a lui come faceva June. Non poteva essere solo per il bel visino di Andromeda, no. C’era dell’altro. Qualcosa che era affetto e qualcos’altro ancora. Una totale e completa dedizione. Simbiosi. Necessità. Jabu scosse i riccioli bagnati allontanando la pioggia e quei pensieri. 
Minato. Un bel nome musicale, di quelli che fanno salire gli zeri del mercato immobiliare con la stessa leggerezza di un crescendo. Il posto ideale dove vivere e aprire una filiale di una solida banca, o di una lussuosa boutique. E allora perché mi sembra di star scendendo all’inferno?, pensò Jabu scavalcando in un attimo un muro di cinta alto venti metri. 
June si fermò, i capelli danzarono in aria nonostante il peso della pioggia. Un istante prima correva, braccia abbassate ed ampie falcate, come se avesse il sale sulla coda, ed ora era ferma immobile come una statua a fissare qualcosa davanti a sé. A Jabu ricordò Thomas, l’asino del suo maestro, quando s’intestardiva. Puntava gli zoccoli e non c’era verso di smuoverlo. Così era June, immobile sotto la pioggia, e la maschera non consentiva a Jabu di comprendere cosa avesse catturato la sua attenzione. 
«Che succede?», le chiese affiancandola. 
«Laggiù», rispose lei alzando il braccio destro. 
Jabu seguì l’indicazione fino a quando non lo vide. Eccoti qui. Finalmente, pensò. 
Avevano trovato Shun. Se ne stava sotto un ombrello rosso, appoggiato contro un’auto parcheggiata davanti al cancello di una casa a due piani. La luce rossa che brillava ed il nastro esile di fumo che si alzava nell’aria bagnata rivelarono una sigaretta accesa. 
Gli occhi scuri di Jabu incrociarono quelli inespressivi della maschera di June. Pensò: Non è lui. Non con quella sigaretta tra le mani. 
E poi: Avrà capito?
E anche: Come diamine farà a vederci con quell’affare sul viso?!
June disse:«Non è lui», e Jabu ottenne una risposta a tre quesiti, «ma potremmo sempre chiedergli di indicarci la strada più breve per trovarlo.». 
«Concordo», disse Jabu. Si avvicinò al ragazzo e lo chiamò: «Shun. Ehi, Shun. Sono io. Jabu.». 
Niente. Shun – o chi per lui – osservava rapito il rosso della sigaretta accesa e null’altro, neppure un energumeno in armatura viola fermo sotto l’acqua battente a pochi passi da lui avrebbe potuto distrarlo da quella contemplazione. 
Jabu avanzò ancora.
«Shun? Shun, mi senti? È tutto a posto?», ma Shun non diede segno di averlo sentito. L’Unicorno voltò la testa in direzione della sua compagna, ma fu abbastanza lesto da cogliere un movimento di Shun con la coda dell’occhio. Reagì, portandosi sulla difensiva, ma Shun non lo attaccò. Lasciò cadere la sigaretta in una pozzanghera ai suoi piedi e osservò la luce rossa sfrigolare al contatto con l’acqua e spegnersi. Poi alzò la testa, e regalò loro un sorriso di denti aguzzi e taglienti ed uno sguardo nero e profondo e vuoto. Jabu ebbe paura. Per la prima volta nella sua vita capì, sperimentandola sulla propria pelle, cosa significasse provare un terrore ancestrale, primordiale ed assoluto che gli artigliò ventre, reni e respiro in una gelida morsa d’acciaio. Esiste. Qualsiasi cosa sia, esiste, pensò in un angolo della sua mente. 
Shun lanciò via l’ombrello, con grazia, come in una coreografia da musical, e questo compì una lenta parabola all’indietro e cadde rovesciato sull’asfalto bagnato. Spiccò un balzo, da perfetto ginnasta, ed atterrò sul tetto della vettura. 
«Eh no!», disse June scattando in avanti. Afferrò la propria frusta e la fece danzare, catturando il polso di Shun. Jabu non reagì. «Tu non vai da nessuna parte.» 
June tirò la frusta a sé, ma la sua preda non si mosse. Le regalò un altro sorriso e ricambiò la stretta. Il Camaleonte si ritrovò con i piedi staccati dal suolo. Rovinò a terra e la maschera le cadde dal viso. Shun tirò ancora, trascinandola a sé come una rete piena di pesci. Così mi farò ammazzare, pensò June. E fece l’unica cosa che il suo Maestro le aveva ordinato di non fare mai: lasciò la presa sulla propria arma. 
 
Finché impugnerai la tua arma, sarai in vantaggio sul tuo avversario. Non permettere che te la strappino via. Non contare sul fatto che tu sei addestrata e il tuo nemico no. Permettigli di strapparti la frusta di mano e vedrai se non l’userà per ucciderti. Addestrato o no.
Lo sguardo di Cefeo era stato severo mentre le diceva queste cose e le metteva la frusta di canapa tra le mani.
Promettimi che non ti farai mai disarmare, June. 

Ma non esiste promessa che non possa essere infranta, e June lo scoprì sull’asfalto bagnato di una megalopoli dell’Estremo Oriente. Shun tirò ancora e si ritrovò la frusta di bronzo tra le mani. Non concedergli tempo per organizzarsi, si disse. Raccolse la maschera. 
Shun fece schioccare la frusta e caricò il braccio all’indietro. 
June corse verso Jabu, impietrito al centro del marciapiede. 
Shun fece partire il colpo. 
Lei posò sul viso dell’Unicorno la propria maschera. 
La frusta si arrotolò attorno al collo della ragazza. Shun tirò. 
June volò all’indietro assecondando il movimento, e cadde di schiena mentre l’avversario riprese a trascinarla verso di sé. 
«Jabu!», gridò lei, anche se il risultato fu più un suono strozzato. «Colpiscilo, Jabu! Colpiscilo! Non è Shun, ricordi?», aggiunse mentre Shun la tirava pian pianino a sé. Che fretta c’era, dopotutto? Il suo compagno aveva la stessa vitalità di un manichino. June si portò le mani al collo per liberarsi da quella stretta e respirare e sperare e pensare. Ti prego, Jabu!
Funzionò. Qualcosa dentro di lui scattò. L’Unicorno espanse il suo cosmo e scattò, tranciando in due il nemico con un poderoso colpo dei suoi zoccoli. Shun cadde per metà sul marciapiede oltre la vettura, mentre le sue gambe rimasero sul tettuccio dell’automobile. La presa attorno al collo di June si allentò. La ragazza tossì. Si alzò. Si massaggiò il collo.
Jabu le porse la sua maschera e la sua frusta. «Grazie.»
Lei la prese senza voltarsi.
«Stai… stai bene? », chiese lui, sentendosi un perfetto cretino. Era ovvio che non stava bene, che non potesse stare bene. È stata quasi ammazzata da un sosia del ragazzo che ama… ma che altro potevo dirle?
June annuì. Tossì ancora un paio di volte e ruotò il collo in un verso e poi nell’altro, quindi si sistemò la maschera e si voltò.
«Spellbinding glance», disse. «Ti ha stregato con un solo sguardo.» 
Jabu annuì. Poi spostò lo sguardo sul cadavere. Gli occhi, anche se assomigliavano più a due buchi neri, fissavano il vuoto e le gambe erano ripiegate in modo innaturale sul tettuccio. C’era sangue dappertutto. La pioggia lo laverà via.
Una luce illuminò la finestra di un abbaino. 
«Andiamo, prima che sia troppo tardi», disse Jabu. Ripresero a correre verso Minato. 


Ban non sapeva più dove guardare.
Il ritratto del vecchio Kido lo fissava severo, come a chiedergli conto e ragione della loro presenza nella sua biblioteca. Aveva già contato e ricontato la mole di volumi che affollavano la boiserie, e mettersi a leggerne uno era fuori discussione. Conosceva ormai a memoria tutte le sfaccettature delle gocce dell’enorme lampadario adagiato su un lenzuolo a terra, uno di quelli capace di fare una strage cadendo dal soffitto. La signora Bianchi, nello studio con il lampadario, pensò.
Fuori la pioggia era aumentata d’intensità e non c’era qualcosa di interessante da ammirare: i lampi squarciavano da est ad ovest un cielo nero solcato da nuvole ricolme d’acqua, e i lampioni accesi attorno a Kido Manor emanavano un lieve chiarore. 
Lei era sempre lì, a gambe incrociate sul pavimento, un accappatoio candido sopra le protezioni ed un asciugamano di spugna a frizionarsi i capelli ormai asciutti. Se continua così si staccherà la testa, pensò. E poi aggiunse: Che te ne importa?, tornando a guardare la sera scendere sulla città. 
Ban odiava quello che stava facendo. Non aveva mai amato avere contatti con il genere umano, un po’ come Ikki, e forse il timido Leone Minore era l’unico tra i dieci fratelli a comprendere fino in fondo il carattere della Fenice, pur non potendo vantare un simile carisma. Stai attento, si ripeteva nervoso, osservandola con la coda dell’occhio. Attento, o questa qui ti fregherà per bene.
Ban sapeva quanto fosse ingrato il suo compito, perché era matematicamente sicuro che lei avrebbe tentato la fuga. C’erano mille modi in cui lei avrebbe potuto eludere la sua sorveglianza, e anche se lui avesse previsto cento  scenari pronti per ogni caso, lei sarebbe stata in grado di escogitarne un altro ancora. A partire dalla scusa più vecchia del mondo. Quella che aveva provato a tirare fuori nello studio, prima che lo Scorpione la prendesse di peso e la rinchiudesse lì. Tremò, immaginandosela alzare la testa e fissarlo vergognosa, per poi richiamare la sua attenzione con un timido “ehm” e aggiungere: «Devo fare la pipì.».
Sì, era sicuro che avrebbe usato quell’espressione infantile per suscitare tenerezza e simpatia e convincerlo che no, non sarebbe mai e poi mai scappata via sotto la pioggia e perciò poteva tranquillamente lasciarla andare al bagno da sola. Con tanto di ciglia sfarfallanti e sguardo da cerbiatta. 
Sì, come no?
Ma d’altro canto, cosa avrebbe potuto fare? Seguirla fin sull’asse del wc? 
No, è fuori discussione.
E se lei ne avesse approfittato per scappare? Quale migliore occasione, dopotutto? Sì, avrebbe aperto il rubinetto, e poi la finestra e si sarebbe calata fuori. E lui sarebbe stato fottuto. 
«Non deve uscire da questa stanza», gli aveva intimato lo Scorpione affibbiandogli quella rogna prima di accompagnare Saori in ospedale, ed i suoi occhi azzurri erano stati molto, molto convincenti. 
Quello che Ban non poteva sapere era che la sua sorvegliata speciale non aveva la minima intenzione di andare da nessuna parte se non a casa sua e sprofondare in un bel sonno, né che volesse immischiarsi ancora in una faccenda da cui le era stato chiesto, per non dire intimato, di tirarsi fuori, e che se continuava a massacrarsi i capelli a quel modo era solo per rabbia. 
Françoise alzò la testa, piantandogli gli occhi nei suoi. Ecco, ci siamo!, pensò Ban fissando quello sguardo che faceva capolino tra una ciocca di capelli e il bianco dell’asciugamano. Trattenne il fiato. 
«Si può sapere che hai da guardare tanto? Non hai mai visto una ragazza?», domandò, prima di riprendere ad occuparsi della propria chioma. 
Era furiosa. Con lui, certo, ma anche con se stessa per avergli concesso di avvicinarsi tanto. 
Sarei dovuta ripartire subito per Atene. Non appena l’ho visto, pensò serrando la mascella. Oh, lui era stato furbo. Molto furbo. Aveva chiesto un rapporto. Aveva usato parole gentili. L’aveva trattata come un suo pari, non come una mocciosa. E lei gli aveva creduto. Gli aveva voluto credere.
E che tregua sia, aveva pensato.
E gli aveva raccontato la propria versione. Delle notti passate di ronda. Degli appostamenti – da sola, ma non c’era bisogno che lui lo sapesse – nei luoghi isolati per cercare quell’Essere. Di come Seiya l’avesse trovata – per caso, ma anche questo non era necessario ammetterlo – e di come Pegaso e Fenice fossero così convinti, e pronti e determinati a riprendersi Shun che a lei non era rimasta altra scelta se non seguirli fino a Minato. Per capire. Per osservare il luogo e tornare a riferire. 
«Purtroppo non sono riuscita a fermarli, e così ho ritenuto fosse più saggio accodarmi a loro. Per limitare i danni…», gli aveva detto, conscia del fatto che lui non le avrebbe creduto. Mai e poi mai.
E infatti Milo si era voltato con uno sguardo pericoloso e lei aveva capito non solo di essere caduta nel suo tranello come una farfalla spensierata cadrebbe nella tela del ragno, ma che il ghiaccio su cui si trovava si era spezzato e l'acqua, gelida, stava per ingoiarla.
«Ma come? Un Santo d'Oro forte ed esperto come te non riesce a tenere a bada un Santo di Bronzo e mezzo?», le aveva detto. Era stato spiacevole. E velenoso. E ingiustamente canzonatorio. E avevano ripreso ad insultarsi. A litigare. A sputarsi veleno addosso… e poi lei si era ritrovata con il viso a pochi centimetri dal suo, il mento stretto tra le sue dita. E quegli occhi. Così azzurri. Così assoluti. Così intensi da non offrirle scampo. 
Bastardo, pensò. Bastardo, bastardo, bastardobastardobastardobastardo…


Era uscito dal suo studio in fretta e furia e questo era stato un bene per lei. Gli aveva lasciato campo libero. Sarebbe stato scortese non approfittarne. Dopo essersi sistemata i collant e la gonna, e dopo aver fermato i capelli in uno chignon improvvisato grazie ad una matita azzurra, si sedette al suo posto ed estrasse un astuccio dalla borsa. Era un portarossetto, di velluto blu. Lo aprì, si passò lo stick sulle labbra e pigiò un tasto nascosto. 
«Regina delle Nevi a Yeti, passo. Regina delle Nevi a Yeti, passo.» 
«Qui Yeti. Che succede, Regina? Passo.»
«Succede che Gerda è arrivata a liberare Klaus. Passo.» 
Irina sentì una colorita imprecazione uscire dalla labbra sottili apparse sullo schermo, mentre gli occhi s’incupirono e rilucettero sinistri.
«Quanti sono? » 
«Per il momento tre, ma la cavalleria non tarderà ad arrivare. »
«E Volonskji? Dov’è? »
Irina fece spallucce. «È sceso nei sotterranei. Vuole prelevare entrambe le cavie.»
«Perché? Cosa ce ne facciamo? Abbiamo i risultati di tutti i test, giusto?» 
«Solo di una cavia. Hanno catturato uno degli intrusi e Volonskji vuole togliersi uno sfizio. Sai come diventa irascibile se gli rovinano il giocattolo, no?»
La donna dall’altra parte del video fece una smorfia di disappunto. «È molto stupido, non c’è il tempo. Tu, piuttosto. Hai quello che devi prendere?»
Irina mostrò soddisfatta una mezza dozzina di CD-rom. «Non stai certo parlando con una dilettante, cara.»
Yeti sorrise. «Perfetto, Regina. Assicurati di aver preso tutto il materiale. Il recupero avverrà tra un’ora al massimo sul tetto.» 
«Lui?»
«Solito modo.»
«Roger. Passo e chiudo.»
L’immagine dell’altra sfarfallò e poi si ridusse ad un puntino e lo schermo a cristalli liquidi tornò ad essere il solito, anonimo specchio di un porta rossetti di velluto blu.
Irina inforcò gli occhiali. Accese il computer che occupava un’ampia porzione della scrivania di Volonskji e copiò i dati e le ricerche su altri CD-Rom. Tanto per essere sicuri, pensò facendo due copie di ogni CD. Una copia da vendere al migliore offerente avrebbe fatto comodo, in tempi di magra. Attese che il computer le masterizzasse i primi due CD e poi premette il comando CANCELLA. 
 
Gran bella cosa i fondi svizzeri! 
 
Assaporava già il caldo sole delle Mauritius scottarle la pelle e la sabbia finissima accarezzarle i piedi.
 
Devo comprarmi un costume nuovo. Un bel bikini. Rosso. E sgambatissimo. Magari un modello con il reggiseno a fascia. E senza quella patetica imbottitura, pensava mentre lavorava. 


«Amore? »
«HN? »
«Avanti… lo so che sei sveglio. Dobbiamo alzarci, Amore…»
No, pensò. Io non devo fare proprio niente se non stare qui con te. 
«Dobbiamo andare», disse lei e lui pensò che stava così bene lì con lei, nel loro letto. 
«Agapê mou?», lo chiamò, ed un sorriso soddisfatto si allargò sul suo viso. Adorava sentirla parlare in greco, con quell’accento così… ammaliante, e davvero non capiva come gli altri uomini, al Santuario, non lo trovassero altrettanto sexy ed irresistibile. Meglio per lui, ovvio; tuttavia, non si capacitava della cosa, un po' come quando Galileo insegnava agli uomini che non era la terra al centro dell'universo, no; era il sole. 
«Hn…» Allungò un braccio e la fece sdraiare accanto a sé. Questa è la felicità, pensò tuffando il naso tra i suoi capelli. Profumavano di cocco, e le lenzuola di fiori di campo. 
«Menari mou!», protestò lei, e tanto fece da riuscire a svicolare dalla sua stretta gentile come un’anguilla e ad alzarsi dal letto. 
«Vado a prepararti il caffè», gli disse. Lui sapeva che quell’affermazione significava che doveva alzarsi. Subito. Prima che lei passasse alle maniere forti. Come un secchio d’acqua ghiacciata addosso. 
Mugugnando e stiracchiandosi aprì gli occhi. Era una bella giornata. Il sole splendeva caldo dietro le imposte accostate. La sentì canticchiare in cucina. Si strofinò gli occhi e si alzò. 
Lei era davanti al lavello, di spalle e armeggiava con la moka. Indossava una sua camicia che le stava tre volte, l’orlo fin quasi alle ginocchia e le maniche arrotolate oltre i gomiti, e lui sogghignò godendosi lo spettacolo del suo corpo in controluce. Si appoggiò allo stipite della porta, braccia conserte. Sì, avrebbero bevuto il caffè in cucina. E poi l’avrebbe sollevata di peso e riportata di là, in camera da letto. 
Abbracciarla e baciarle il collo fu una questione di tre piccoli passi. 
«Buongiorno», mormorò contro la sua pelle. Era calda. E fresca. E così morbida… «Come mai così mattiniera? »
«Perché abbiamo un appuntamento.»
Appuntamento? E con chi?, pensò lui aggrottando le sopracciglia, ma niente non riusciva a ricordare nulla. 
«Ho capito», la sentì sospirare. «Hai di nuovo alzato il gomito, ieri sera. Lo sai che non reggi bene l’alcol come Hyoga…»
Lui si sentì come se fosse appena atterrato da Marte. Perché? Sono uscito ieri sera? Con Hyoga?, si chiese, ma non ricordava nulla, se non di essersi spogliato guardandola dormire sotto le lenzuola. Forse sì. Forse era uscito davvero. Ricordava che dovesse festeggiare qualcosa. Sì, ma cosa?
«Su, vatti a lavare. La dottoressa Anteriotis ci aspetta.»
«Dottoressa? Amore, sei malata per caso?»
Lei rise. «Ma no, scioccone. Non sono malata, sto benissimo. È solo una visita di controllo ricordi?», rispose fissandolo con quei suoi occhi così dolci. «No, non te lo ricordi. Pazienza. Così impari a sbronzarti. E adesso vai. Non mi piace fare tardi.» 
«Agli ordini», disse lui posandole un bacio sulla fronte. Uscì dalla cucina scostando la tenda di perline e svoltò a sinistra verso la porta azzurro carico in fondo al corridoio. Entrò nel bagno e aprì i rubinetti. S’insaponò il viso, scoprendo una barbetta di tre giorni. A lei non avrebbe fatto piacere. Prese il rasoio e la schiuma da barba. Intanto lei cantava in cucina, mentre lui sentiva la moka borbottare sul fornello. 
Poi lei lo chiamò.
«Cosa hai detto?», le chiese tendendo l’orecchio. 
«Ti ho chiesto se hai già pensato ad un nome. »
Un nome per chi?, si domandò. Forse per il cucciolo che avevano deciso di adottare? «Non è meglio se aspettiamo di vedere che faccia ha?» Che senso ha decidere di chiamare un cane Scott se ha la faccia da Sparky?
«Sì, lo so. Ma la mia era solo una curiosità», disse lei apparendo sulla porta del bagno con i caffè.
«Hai pensato ad un nome?» Lei annuì. «Sentiamo.»
«Ho pensato», e Shaina posò il suo caffè sulla lavatrice, «ma tu non ridere, intesi? Ho pensato a Nausikáa, come tua madre. Oppure ad Aristotiles. Come tuo padre. Che ne dici?»
Ma se mia madre si chiamava Sumire?, pensò lui sciacquandosi i residui della schiuma da barba. Stava per rispondere quando i suoi occhi incrociarono il riflesso nello specchio, mozzandogli il fiato. C’era uno sconosciuto dall’altra parte del vetro. I suoi occhi erano azzurri. La mascella più decisa e volitiva. I capelli più lunghi. E scuri. E ricci. E il naso più marcato e deciso. Seiya vide con orrore Milo voltarsi ed attraversarlo, tagliandolo in due come una lama di ghiaccio, e raggiungere Shaina per abbracciarla.
«Che ne pensi?», chiese lei. La sua voce gli arrivava ora ovattata, lontana, distante. Disturbata.
«A parte Aristoteles, ci sto. Ma bisogna vedere che ne pensa lei.»
«Non sappiamo…», titubò Shaina, e nel vederla così arrendevole lui si sentì sciogliere di tenerezza.
«Io sì», le rispose Milo. Poi si inginocchiò, il viso all’altezza del ventre di Shaina e Seiya capì. Comprese perché ieri sera ci fosse bisogno di festeggiare. E perché non ricordava di essere stato invitato alla bevuta di gruppo. Una consapevolezza crudele, abbagliante e gelida lo riempì. Era stato Seiya a non essere stato invitato alla bevuta all’osteria di Kostas. Lo zio di Milo.
«Ehilà. Ti piacerebbe chiamarti Nausikáa? Nausikáa Papadopoulou, senti come suona bene?», disse lo Scorpione, dando un bacio sul ventre di Shaina.
Shaina che affondò le mani in quell’ammasso esploso di capelli e rise. E fu quella risata a ferirlo nel profondo, come se lei stesse spingendo un pugnale nel suo cuore e si stesse baloccando a rigirarlo nello squarcio aperto.
 «Tu sei matto da legare…»
«Oh sì», rispose lui alzandosi. «Sono pazzo di te.»
La baciò, e Seiya urlò mentre lui, lo specchio ed il lavabo venivano scagliati indietro, lontano da loro. Nel buio.



Note:
Capitolo più breve, per riprendere un po' il fiato. Prima di ricominciare il giro della morte. 

Il nome del ginecologo è un palese omaggio a Kazuo Komatsubara, character design e direttore dell'animazione prematuramente scomparso nel 2000, specializzato nelle serie robotiche, ma non solo: da Sally la maga all'Uomo Tigre, da Devilman a Starzinger, da Capitan Harlock a Goldrake, da Bryger a Gaiking a Nausicaa nella valle del vento. Insomma, un mostro sacro. Se siete curiosi di saperne di più, fate un salto qui.

La liberatoria. Come mi ha fatto notare Sen, se Shunrei è maggiorenne sta a lei firmare la liberatoria per entrare in sala parto (è un documento con cui viene reso noto al paziente la percentuale di rischio che comporta una singola operazione; si tratta di uno scarico di responsabilità da parte della struttura sanitaria e del personale medico, qualora qualcosa andasse storto.), magari avvalendosi di un interprete. O dando a Saori la delega per firmare a nome suo. Siccome non so che tipo di legislazione vigesse in Giappone all'epoca, e siccome mi serviva mantenere il pathos, e siccome Komatsubara m'è sembrato un tipo rude e spiccio, scopriranno - e scopriremo - come si risolverà la questione una volta giunti in ospedale. Che appartiene a Saori, per cui...

Agapê mou significa "amore mio" in greco. Menari mou, significa- o dovrebbe significare - "mio caro, mia cara".

Nausikáa (con due a finali, mi raccomando) è il nome della principessa dei Feaci che sulla spiaggia di Scheria soccorre lo spiaggiato Odisseo. L'etimologia è incerta, ma c'è una chiara assonanza con la nave (naús). Potrebbe trattarsi di un nome parlante, visto che sarà proprio Nausikáa a fornire ad Odisseo le navi per tornare ad Itaca.
 
 
Grazie a Sen per i preziosi consigli e a JG per avermi suggerito il nome del colpo del nemico.  
 
 
   
 
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