<img src=" https://scontent-b-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-xfp1/t1.0-9/10366297_803611643006879_7733098914770871731_n.jpg
" alt="testo" />
Questa
storia nasce su una canzone. Anzi su una musica. Questa: http://www.youtube.com/watch?v=QgaTQ5-XfMM
Dedico
questa storia a tutte le ragazze del gruppo di Have a
little fairy tale, per
essere le pazze scatenate che sono. E per essere la forza in sottofondo per imbarcarmi
sempre in cose del genere.
Ha l’odore del suo
sangue, addosso.
Ce l’ha da una settimana
piantato dentro: staziona, vegeta, alberga come un presagio sottile che non si
può estirpare, neanche provandoci, neanche volendo.
Si lava spesso le mani,
sfrega le dita sotto il getto gelido dell’acqua, facendole diventare livide e
bianche.
Draco ha persino
l’impressione confusa che sia allora il suo di sangue che prema per uscire,
forzando la barriera impercettibile della pelle.
Ma, invece del suo di
sangue, puro, innocente, virginale di colpe,
in compenso allora filtra l’odore del sangue di lei.
Affama, asseta, come se lui
fosse diventato un mostro della notte, dalle zanne aguzze, voglioso solo di
purpureo liquido tra i denti e sulla lingua.
Sa di che sa il sangue: rame, sale, ferro. Acre,
mortifero disgusto, ogni volta che ci pensa.
Per logica, a logica, ma
lui la logica ormai non la conosce… il sangue di Hermione Granger dovrebbe
essere preannunciato da un tanfo insopportabile, da un miasma velenoso, dal più
insopportabile e suppurante degli odori.
È sangue impuro, direbbe
qualcuno ormai vite fa.
È sangue e basta,
direbbe lui adesso, che di sangue per una vita intera ne ha visto anche troppo.
Ed invece il sangue di
lei, incastrato sotto le unghie, nella
piega delle falangi, nella curva tra pollice ed indice, e gratta, sfrega,
mastica di cura le sue mani, e quello non se ne va, anzi rimane, anzi resiste,
anzi lo sorprende ad alitare accanto, mentre distratto si porta una mano sotto
il mento e resta a fissare l’assente, a cui poi lo strappa il presente, quel
presente… il sangue di lei… ebbene
il sangue di Hermione Granger è diverso. Come lei è diversa: ed alla fine è
assioma scontato, conseguenza indubitabile; della diversità lei vive e si
nutre. E quindi anche il suo sangue è diverso.
Profuma dolce di
promesse, come vaniglia e tè nero.
Lei dorme, come una
principessa, e lei delle principesse non ha mai avuto niente.
Forse non avrà mai
niente.
Quindi, per logica, a
logica, ma lui la logica ormai non la conosce… il sonno di Hermione Granger non
può essere quello di un’eterea creatura delle fiabe, ma solo quello invece
accattivante e ghermente di una morte sempre più vicina. Una pozione non presa,
dimenticata. Uno squarcio nell’addome… e
poi tutto quel sangue … ed è così vicina ad andarsene che Draco Malfoy si
chiede se ci sia mai stata davvero.
Succede sempre con le
persone così rumorose, anzi con le donne così rumorose, perché dire donna è già dire un po’ di
quell’assordante fracasso che ti stampano nel cervello solo passandoti accanto
con la grazia innata di un tifone: e quando per un po’ ti abitui a quel
sottofondo di fruscio costante, ecco che loro, per dispetto, te lo negano.
Come il gioco che fai
per noia ad un bambino: ti ho preso il
naso.
In un paio di mosse da
prestigiatore che in realtà sono solo trucchi di quint’ordine, una cosa che
avevi sempre sotto gli occhi e che davi drammaticamente per scontata, sparisce
in un puff esagerato e grottesco.
Così era accaduto a lui
con tutta quella schiera di suoni, che provenivano da lei.
Puff.
E tutto era scomparso,
senza neanche l’eco ingannatore dei lustrini di un ciarlatano da strapazzo che
dice che la magia è perfettamente riuscita.
Avrebbe persino
sospirato di sollievo, allargando le braccia e imprecando soddisfatto, se non fosse
stato che, sconfitti i suoni, il silenzio non era affatto tornato quello che era
sempre stato.
Da amico, dopo essere
stato tradito e scomunicato, si era trasformato in un sinistro assassino,
trasformando le ore dilatate di rimorsi in poltiglia soffocante alle sue stesse
orecchie.
E lui non si meritava
questo trattamento. Insomma, aveva sempre ricoperto il silenzio di ogni lode ed
onore, garantendogli esclusività e fiducia all’interno della sua vita,
trattandolo con la confidenza confortante di un vecchio amico. Aveva persino
ammantato il respiro di Serenity e i suoi pianti da bambina in una forma che
non fosse del tutto a lui sgradita.
Ebbene, non era bastato.
Perché il silenzio
odiava Hermione Granger, ed Hermione Granger odiava il silenzio.
Si erano sempre trovati
antipatici.
Ed adesso il silenzio
stesso, libero da quella smania dialettica che lei aveva per ogni cosa, così
tesa ad argomentare sempre nella maniera più ineccepibile possibile, libero da
quella selva di gesti sempre malaccorti e distratti così da ripetersi decine di
volte nella sua testa… ecco, adesso, il silenzio sembrava dirgli “eccomi di nuovo qui, ma non sarà mai più la
stessa cosa tra me e te”.
Draco, allora, seduto in
una sedia del corridoio, la luce spenta, il respiro quasi assente, ringrazia
perlomeno che ci siano gli amici idioti della Granger a farle da corona e
contorno. Almeno il silenzio si accuccia in un angolo, come in castigo, come un
bambino scornato.
Però la notte se ne
vanno. La lasciano da sola, a dormire in una stanza come una principessa in una
selva di rovi, che però mai si sveglierà. Resterà muta per sempre.
Il silenzio grava, pesa,
schiaccia. Lo blocca nel letto ad occhi aperti.
Quindi si rassegna ad
alzarsi, a passare la notte nel corridoio che unisce la parte di appartamento
sua a quella di Seth. Le braccia conserte, gli occhi socchiusi, la posa di chi
fa la guardia, la noia di chi è semplicemente insonne da una settimana. Dalla
porta chiusa, distingue un respiro.
Non sa neanche come fa.
Un respiro spezzato,
rantolato, quasi impercettibile. Ma che ancora c’è.
E con quel respiro nelle
orecchie, un po’ si addormenta.
Un po’, ma non dorme
mai: nella testa non fa altro che sentire i passi sempre troppo pesanti che
aveva lei, le parole sempre troppo urlate che aveva lei, i respiri sempre
troppo trattenuti che aveva lei, le risate sempre troppo precoci che aveva lei.
E tutto batte, batte,
batte. E non lo lascia mai in pace.
Persino il sangue ha una
voce.
Ce l’ha pure il sangue,
e ci mancherebbe che di Hermione Granger non parli anche il sangue.
Ha una voce lieve,
sottile, da morto.
Ha una voce dolce, di tè
nero e vaniglia, e dice in un bisbiglio: “Stavi
solo recitando?”.
Stavi
solo recitando?
Se dovesse morire,
saranno state queste le sue ultime parole. A lui, a Draco Malfoy.
Gli viene da ridere, si
trattiene nel buio: se un giorno ci sarà un libro di storia che riporterà la
morte ingloriosa di Hermione Granger, allora ci sarà lo spazio di una nota a
margine per raccontare che ha parlato per l’ultima volta proprio a Draco
Malfoy, che fingeva di essere babbano e fingeva anche di essere occupato.
Strizza gli occhi, si
stropiccia le palpebre con il dorso della mano, così da non sentire profumi
molesti.
O ha parlato ancora? Ha
detto altro? Ci ripensa senza necessità apparente, in fondo non è che gli
importi tanto: è solo una maledetta notte insonne come ce ne sono state a
bizzeffe, e come sempre ci saranno. Alla fine, nelle notti insonni, i pensieri
idioti sono biglie colorate con cui dilettarsi, infantili imbecilli, fino
all’alba. Più sono inutili, meglio è: meno ti ricordano perché sei sveglio.
E lui, Draco Malfoy, è
sempre rimasto sveglio per Helena Jasmine Greengrass.
Sarà
così anche stavolta, no?
È anche meglio, quindi,
distrarsi adesso con le parole da moribonda di Hermione Jane Granger, pur di
non ripensare a quelle vere che la
donna amata ha detto, bruciando come foglia secca un anno prima.
Seduto su quella sedia
del corridoio, la testa reclinata indietro, gli occhi catturati dai riflessi di
luce morta del lucernario spento, sente l’eco di quelle parole dilatarsi nella
sua testa come se fossero elastici sotto tensione. Stavi solo recitando? Ha detto altre parole a qualcuno? L’ha
sentita parlare con qualcun altro, prima di svenire? Certo che no. Era con lui,
quando ha perso i sensi.
Era
con me quando ha perso i sensi, con le labbra appena dischiuse come se stesse
per dire qualcosa, e prendeva fiato, respirava forte, sospirava rumorosamente
che in silenzio non ci sa stare, ed allora respirava forte da quelle labbra
rosse di sangue che avevo appena finito di baciare, quelle labbra che sanno di
vaniglia e tè nero.
Draco sobbalza, si tira
a sedere, trova la quadra del cerchio. Sgrana gli occhi nel buio.
Non è il sangue. Non è
il sangue che non se ne va.
È lei. È lei che non se
ne va.
La sua camera, dopo il
buio del corridoio, sembra un palcoscenico con la luce piantata in faccia. Una
luce molesta, irritante, fastidiosa, che gli brucia le iridi. E che in realtà è
solo una minuscola lama contro l’oscurità, proveniente dalla lampada sul
comodino.
Draco si getta sul letto
ancora vestito, sfilandosi le scarpe senza slacciarle. Si guarda attorno, la
stanza sembra estranea, ogni cosa sembra avere un’ombra pronta a divorarlo.
La culla di Serenity è
vuota, la bimba dorme da Seth: si sentiva solo, senza la Granger.
Draco respira, chiude
gli occhi, respira ancora profondamente, cercando di disincagliare la mente
dalle secche in cui è naufragata. Il respiro, però, è sempre troppo veloce,
ansante, agitato. È davvero possibile
respirare così forte, e non stare soffocando? E il cuore… si porta una mano
distratta sul torace… il cuore… chi si
ricordava che potesse raggiungere quella velocità. Sbatte contro le costole
come una bestia in gabbia, con la bava alla bocca e gli occhi ciechi.
Si alza da letto, apre
una scatola rossa che sa di ciliegia. Fruga, scava, cerca, sposta. E poi la
trova.
La
foto di Helena. Occhi di mare, viso di terra bruciata, lei che se ne vola alla
vigilia di Natale.
Tutto si ghiaccia, tutto
agghiaccia… anche il cuore. E può riprendere a pensare con calma.
Si stende di nuovo
pigramente sul letto, un braccio piegato sugli occhi, spegne la luce, trova di
nuovo un’inspirazione normale. Piano, con
calma. Non farti prendere dall’ansia per queste stronzate.
Pensa
ad Helena, pensa a com’è morta. Niente, mai niente, sarà così.
Provare…
altro… per altro… è un insulto a lei.
Respira ancora, i
polmoni non sono mai sazi.
Che non vuole che la
Granger muoia ci può stare.
A logica, per logica,
anche se lui la logica ormai non la conosce… l’interesse alla sopravvivenza di
Hermione Granger ci può anche stare. Vive lì da qualche mese, è una sua
dipendente, ha ammesso che non lo odia, lui ha fatto altrettanto, non aveva
alcuna responsabilità né nella morte dei suoi, né in quella di Helena ed Amos.
La pietà umana è un sentimento a cui difficilmente ci si può sottrarre.
Neanche lui può, anche
con tutte le sue approssimazioni per difetto delle emozioni.
A rifletterci, forse la
stima pure. La Granger, insomma.
Hermione Granger,
d’altronde, è una donna che non cade mai, che non si piega mai, che si rialza
sempre, che giace sempre nelle coltri perfette di un’invulnerabilità esibita e
cesellata ad arte.
Di donne così, non ne ha
mai conosciuto nessuna. È una novità.
Sua madre piangeva.
Helena piangeva. Astoria piange.
La
Granger pure piange, ma solo se la baci e lei non vuole, ma non riesce a
scacciarti via perché sta morendo, e poi le tocchi la guancia, e le sfiori solo
le labbra, ed allenti la presa, e lei non piange più, si lascia baciare, se ne
sta tra le tue braccia come se ci fosse nata dentro, e non piange più.
La
Granger pure piange, ma solo se ti chiede morendo, prima di morire davvero di
uno squarcio nell’addome: “Stavi solo recitando?”.
Come andare sott’acqua,
come perdere contatto con l’ossigeno, come costringersi a saturarsi di vaniglia
e tè nero: riafferra la foto di Helena dal comodino, la guarda ancora, confonde
l’odore di ciliegia con quello della Granger, che non sa come e non sa perché,
non è risorto dalle mani, ma da qualcos’altro.
Solo
dai pensieri. Solo da essermi ricordato che l’ho baciata.
Solo
da essermi ricordato che ho desiderato che volesse baciarmi.
Chiude la foto di Helena
in un cassetto, bestemmia tra sé e sé, inforca la porta ed esce.
Deve finire, deve
smetterla.
Sa esattamente come
farla smettere.
Astoria non sapeva che
sarebbe arrivato, non lo stava aspettando.
Le aveva detto
chiaramente che non sapeva quando si sarebbero rivisti, che c’era troppa gente
al Petite Peste, che se ne doveva stare buona nell’appartamento al 76 di
Lancaster Road, facendosi vedere il meno possibile e fingendo che avesse ancora
la varicella.
Non lo stava aspettando,
ma, a dirla tutta, lei non l’aspettava mai.
Ma era sempre pronta:
alle tre di quella notte, come alle
tre di tantissime altre notti.
Aveva il viso truccato
in modo leggero, i capelli ben pettinati sulle spalle, il corpo morbido
fasciato in una camicia da notte di raso azzurro.
Quando lo vede davanti
alla porta, mentre ansima – e non so più
perché dannazione non riesco a respirare, per la corsa, per la stanchezza, per
il sonno, per questo odore che non se ne va mai - , Astoria semplicemente
sospira, piega la testa di lato e muove con finta distrazione i capelli biondi,
liberando un’ondata di costoso profumo alla lavanda e giglio, che, confondendolo,
gli cancella i pensieri.
Perché Astoria non lo
aspetta mai, ma è sempre pronta.
Pronta a fare la sua
parte fino in fondo.
Non fa nemmeno in tempo
a chiudere la porta, che le è già addosso. Non vuole arrivare fino alla camera
da letto, non gli importa, va bene anche quel maledetto divano che gli spacca
la schiena e che cigola un po’. Astoria sospira ancora e ha un dannato sorriso
da incantatrice che vuole solo strapparle dalla faccia a suon di morsi, sputi,
dileggi. È il solo momento in cui ho
bisogno di lei.
La carne è debole, la
carne degli uomini è peggio, e dello spirito non ne vuole neanche stare a
parlare. È aria, fiato, vento, e chissà dove diamine se n’è andato.
La stende con violenza
sul divano, non si preoccupa di non gravarle addosso, le morde la pelle del
collo con ingordigia, rabbrividendo ed arricciando il naso per quel profumo
fastidioso. Ogni cosa è meglio. Astoria
geme, gli passa le mani voraci sulla schiena, solleva la sua maglia liberando
il torace, si avvicina con le labbra dischiuse e la lingua scattante. Non ci
sta mai ad essere solo comparsa, deve fare sempre la prima attrice, sennò non è
contenta. Draco le prende i polsi, la tira disgustato indietro, la allontana da
sé, sospingendola in basso. Non mi
toccare, dannata puttana.
Astoria ride di cuore,
facendogli drizzare i capelli, scambia sempre quell’approccio con bramosia,
desiderio, passione. Già si vede indorata di una fede al dito e rinverginata da
un abito bianco, mentre si fa aprire ancora, indossando il cognome Malfoy.
E Draco invece, più ci
pensa, più vuole solo vomitare.
Le mani si avventurano
leste e rapaci sulle gambe, giocando con la pelle tenera dell’interno delle
cosce, tende con le dita la biancheria, gliela strapperebbe di dosso solo per
farla finita.
Ma poi lei ancora
riderebbe, lei ancora si sentirebbe voluta, lei ancora sarebbe padrona e
regina. E quindi si impone calma, si impone gelo, si impone sufficienza, si
impone sofferenza, si impone di spingere lei e lui al limite, così da punire sé
stesso per la sua debolezza e lei per la sua sola esistenza.
Le apre di scatto la
vestaglia, lo accolgono le trine e i merletti di un baby doll color blu notte.
Le
puttane sono sempre pronte. Non ti aspettano mai. Ma non hanno storia, futuro e
incombenze, oltre il punto preciso del tempo in cui tu le chiami, le prendi dai
capelli e te le scopi su un divano vecchio.
Nel
resto del tempo, forse, neanche esistono.
Si tuffa a lambirle con
la lingua il collo, ancora quell’olezzo
odioso, e lei ancora ride, trema la carotide, tremano le mani lungo le
linee dell’addome, tremano le gambe già artigliate attorno ai suoi fianchi.
Draco vede solo biondo, vede solo slavato ostaggio di luce negli occhi. Vuole
buio, oscurità, morbida notte, e quindi impreca mentalmente, freme, fa stridere
i denti, spinge con i fianchi inutilmente, facendole solo male, essendo ancora
vestito di tutto punto, solo con la maglia un po’ sollevata. Astoria fa per un
attimo forza per sfilargliela, lui la sospinge ancora in basso, lei ride
ancora. Ed, armata di potere, resa signora da quel corpo che lui sta per
prendere come già ha fatto decine di volte, riottoso e colpevole, si sporge
felina e maliziosa, cercando un bacio dalle sue labbra.
Draco si ritrae, si
spinge indietro, la guarda come guarderebbe un insetto. Ancora respira a fatica,
ancora ansima, ancora non riesce a prendere fiato, e non c’entra la corsa, non
c’entra il sesso, non c’entra la voglia, e non c’entra neanche lei.
Le
puttane non si baciano. Non te l’ha mai detto nessuno?
Astoria piega ancora la
testa di lato, ride ancora, perché lo conosce e sa anche questo. Piuttosto,
veloce, fa scorrere la lingua sui denti provocandolo ed accarezza i suoi
fianchi con la gamba nuda, spingendolo a continuare. Lei non ha mai saputo che
farsene dei baci, basta che la prende su un divano ed allora è contenta. Di
fondo, sa che l’unica che lui baciava era Helena, ma era sua sorella, quindi
una parte di lei è convinta che il sangue lo porterà, un giorno, a baciare
anche lei.
Draco sente l’eco del
vomito in bocca, non ce la può fare, non può continuare se la guarda ancora.
Estrae la bacchetta dai pantaloni, se la punta contro gli occhi, non dopo aver
finto un movimento più complesso che lei interpreti come un incantesimo
contraccettivo.
Le
puttane neanche pensano. Sei sterile, sei inutile. Perché dovrei aver bisogno
di un incantesimo di contraccezione? Per eccesso di zelo? E neanche quello ti
ferisce, neanche quello ti fa smettere di ridere? Iena, cagna, mostro.
Non
ti uccide che mi va bene anche un incanto complicato ed inutile, pur di non
avere un figlio da te?
Nei denti stretti di
Draco, però, non scivola quella formula.
Ne scivola un’altra.
Un inganno. Per sé.
Imago
cupidatis.
Ha scoperto
quell’incantesimo a diciotto anni, scritto su un libro della libreria di casa
sua. Scritto in calce, in grassetto, con una grafia veloce e disordinata. Una
piccola descrizione: durante l’amplesso,
dà forma dell’oggetto del desideri ad un qualsiasi soggetto, ingannando in
tutti e cinque i sensi solo l’amante che compie l’incanto. Usato dai soldati di
guerra per rievocare le mogli.
Se ne era scordato. Se
n’è ricordato la prima volta che ha avuto Astoria ed ha vomitato per ore nella
sua stanza. Non tradisce Helena così, lei compare, ha lo stesso odore, lo
stesso corpo, gli stessi indumenti, le stesse parole, gli stessi gemiti nelle
orecchie che aveva da viva.
Lui sta bene, Astoria
non si accorge di niente, neanche se la chiama Helena.
Anche allora Astoria si
dice ridendo che tanto quella era sua sorella.
Il sangue, infine, lo
chiamerà a lei.
E lui ride da solo, poi,
mentre si fa la doccia, sapendo che neanche quella soddisfazione le dà e
pregustando il momento in cui le negherà anche le nozze.
Di quell’insano incanto,
vive e prospera persino per giorni, mangiandosi la soddisfazione che Astoria ha
sul viso con l’acre consapevolezza di prenderla in giro.
Pregusta già l’infame
pasto della creduloneria cruda della Greengrass superstite, compie perfetta la
torsione del polso, chiude gli occhi, sapendo di dovergli riaprire solo dopo
qualche secondo dopo, per non essere accecato dallo sfarfallio dell’aspetto di
lei che cambia, diventando Helena.
Gli verranno le lacrime
agli occhi guardandola, e poi lei piangerà a sua volta, come piangeva sempre.
La prenderà con rabbia,
perché è morta e non c’è più, scavandole la pelle di graffi alla ricerca di
salvezza. E le tapperà la bocca al momento dell’orgasmo, temendo che la sua
voce si spezzi e somigli a quella di Astoria. Starà bene, così, per un giorno o
due.
Un
giorno o due di benessere e magari anche di sonno, adesso sarebbe una manna.
Riapre gli occhi con
lentezza, temendo che l’incantesimo non abbia ancora avuto effetto. Ed invece
ha avuto effetto, alla grande. Meglio di qualsiasi altra volta.
L’immagine è così
perfetta, reale, che il cuore gli schizza in gola e rischia di soffocare sul
serio adesso.
Ancora avvolta da un vestito
turchese da principessa, non sporco di sangue, i capelli castani sparsi a
corona sul cuscino del divano, gli occhi d’oro brunito dolcemente nei suoi, lei
lo guarda con le labbra dischiuse ed una domanda sospesa tra i denti: “Stavi
solo recitando?”.
Sotto di lui non c’è
Helena Jasmine Greengrass.
C’è Hermione Jane
Granger.
Cerca di scappare,
ovvio. Cerca di alzarsi e di andarsene, terrorizzato, atterrito, spaventato. Il
sudore freddo scivola sulla schiena, sugli occhi, tra i capelli, nello spazio
della mente che la guarda restare lì, immobile, sotto di lui. L’odore di
vaniglia e tè nero è così forte adesso, che ignorarlo non è più possibile,
neanche per scherzo, neanche per ipotesi, neanche per fingere la logica che
ormai non ha.
Lei non fa niente per
fermarlo, lei non ride, lei non sorride.
Si solleva lievemente
sul busto, mentre lui ancora sta cercando di alzarsi, di recuperare la
bacchetta, di andare via. E lo ferma, lo immobilizza, improvvisamente non
saprebbe muoversi neanche volendo, solo perché lo guarda, solo perché sta lì,
solo perché lo implora con lo sguardo.
Hermione chiude gli
occhi, poggia la fronte sulla sua, gli porta una mano sul viso. Una mano calda,
morbida, sottile. E lui neanche ci pensa più a che cosa sta facendo Astoria sul
serio, mentre lui è vittima di quell’illusione.
Vittima.
Sì, vittima. Da carnefice a vittima. Karma, cielo, fato e destino.
Ci
sta bene. Mi sta bene.
Dio…
fa persino bene.
“Non sei davvero qui…”
le sussurra piano, e la voce gli trema un po’, si spegne e smorza nell’avverbio
finale, imporporandogli il viso di quell’infame confessione. Hermione è così
vicina che può contare ogni ciglia delle sue palpebre che fremono, mentre lei
sorride lievemente.
“Lo so…” bisbiglia e ha
la sua voce, quella voce vellutata, dolce, tenera, quella che riserva per
parlare con Serenity e Seth, quella che con lui ha usato solo per dirgli che
gli dispiaceva di averlo messo nei guai con la sua improvvida disattenzione
mentre moriva.
“… ma sono qui…”
sussurra ancora, e riapre gli occhi, sfiorandogli con le dita le tempie,
alludendo alla sua mente “Stavi pensando a me. Stai pensando a me…”.
“Perché stai morendo,
Granger. E non voglio che muori. Ecco perché penso a te…” sussurra ancora,
piano, masticando le parole in silenzio, non preoccupato che Astoria, dal vero,
le senta. Il respiro di Hermione sulle labbra, vento caldo di settembre, si blocca
un po’, come se fosse trasalita. La mano che ha ancora poggiata sul suo zigomo
trema per un secondo, poi prende a descrivere piccoli cerchi sulla sua pelle
con il pollice, accarezzandolo piano, dolcemente, come se avesse tutto il tempo
del mondo. Lui chiude gli occhi, un pizzicore diffuso sotto le palpebre.
“Sai che non è così…”
mormora lei con voce netta, costringendolo ad aprire gli occhi di scatto.
Hermione, a sua volta, apre gli occhi, lo guarda con le lacrime già appese alle
ciglia, basterebbe solo un respiro per farle ruzzolare giù.
“E come sarebbe allora?
Dimmelo…” le bisbiglia ancora, il suo fiato le arrossa le labbra e la pelle del
viso. Hermione sembra pensarci, sembra rifletterci, la sua mano non smette mai
di accarezzargli la guancia neanche mentre chiede, con un tono tra la preghiera
e l’ingiunzione: “Stavi solo recitando? Mi hai baciato solo per ingannare Seth?
Tu… non mi vorrai mai, vero? Io… io non te lo chiederò mai, lo sai questo, no?
Mi conosci. Sai che avrò vergogna e timore, sai che non ammetterò mai di averti
voluto baciare. Ed allora dimmelo tu. Dillo tu a me. Dimmelo Draco. Stavi solo
recitando? Tu… non mi vorrai mai, vero?”.
“Non è a te che lo devo dire. È a me che lo devo dire…” le bisbiglia
ancora, prima di sospingerla delicatamente contro il divano, così che ricada
supina. Poggia una mano ai lati del suo viso, così da non gravarle addosso con
il suo peso, con l’altra le accarezza piano i capelli.
“E non lo vuoi dire a te
stesso?” sorride lei, inclinando la testa ed alzando le braccia per incrociare
le dita sulla sua nuca. Draco sorride, ha un broncio dispettoso da bambina, il
labbro inferiore sporgente, gli occhi affamati di risposte. La sua mente è
dannatamente brava, quando ci si mette.
“No, piccola
presuntuosa…” le sorride, piegando il braccio che gli teneva divisi e
ritrovandosi di nuovo con il viso a pochi centimetri dal suo “Sei qui. Non ho
bisogno di altre risposte…”, lei d’un tratto sorride ancora, raggiante, felice,
meravigliosa. La voce di Draco si spezza, mentre respira ed aggiunge grave:
“Tu… non ti azzardare a morire… per favore… non ti azzardare a morire…”.
“E
tu non smettere
di baciarmi… mai… Draco… ti prego… non farlo…”.
Non
aspettava altro, lei non aspettava altro, lui non aspettava altro.
Lo
stava aspettando, stava aspettando quel permesso.
Le
chiude la bocca con la propria, prima ancora che abbia finito di parlare. Ha le
labbra dolci, morbide, incanto di paradiso. Lei piange nelle sue labbra perché
è così che se la ricorda, che piangeva, e la sua mente adesso non riesce a
scindere le sue labbra dal sapore salato delle lacrime; come non riesce a separare che lei, nel
baciarlo, tremerebbe come in preda ai brividi; e come non riesce neanche a
dimenticare che lei, nel baciarlo, lo attirerebbe più vicino a sé, fregandosene
che le possa fare male, ma stringendo invece le braccia attorno alle sue
spalle. Non riesce neanche a dimenticare che tutto sommato così non sarebbe
neanche sufficiente, ed allora le solleva il busto piano solo per stringerla
sulla schiena, chiudendola tra le sue braccia, così che se ne stia vicina a lui
e non se ne scivoli via altrove, non ti azzardare a morire, per favore. E
d’un tratto, non sa come e non sa neanche perché, scopre un sapore diverso
nella bocca che esplora con raffinata lentezza la sua, saziandosi
apparentemente di respiri mescolati. Scopre il sapore di una lacrima, di una sua
di lacrima, perché lei forse adesso sta morendo e lui quelle labbra non le
conoscerà mai più, e, anche se vive, se anche si salva, se la strapperà come
un’unghia incarnita per impedirsi di volerla ancora.
La
lingua trova quella di lei con una facilità che lo sorprende, con un incanto
che lo frastorna, con nessuna necessità apparente di riprendere a respirare,
che tanto c’è la vaniglia e il tè nero nell’aria e va bene allora respirare
anche così, va bene respirare anche solo così. Le mani di lei, piccole,
affusolate, gentili, si posano sui suoi capelli, passandoci attraverso, e con
gli occhi, con le palpebre frementi, con un singulto nervoso della gola, gli
chiede sempre se gli fa male, se non è troppo, se deve fare più piano. Ma
Hermione è dolce, tenera, lieve di piuma e soave di nuvola.
Non ti azzardare a
morire, per favore.
Draco
non la perde un istante, la bacia ad occhi aperti, perché non può neanche
ricordare che in realtà non sia lì: se la lascia fuggire un istante, lei se ne
va via. Ed allora Hermione si sente guardata, e riapre gli occhi, e lo guarda
dietro le ciglia nere che ancora sono bagnate. E non smette di farlo, come non
smette di baciarlo, come l’implora di non farlo.
Oro
ed argento, assieme.
Come
li vedrà uniti solo un’Empatica settimane dopo, davanti all’edificio della
Gringott.
Lievi,
le mani di lei scendono lungo il suo collo, accarezzando i tendini tesi e
rilassandoli dell’eccitazione che li pervade. Le dita sono calde,
incandescenti, ma non fanno male, sono curiose, gentili, dolcissime, come se a
lasciare un solo centimetro di pelle senza toccarla, quella si sentirebbe solo
che sola. Draco, in risposta, le accarezza piano i capelli, scopre quanto sono
soffici a passarci attraverso le dita, ne distingue una nota di mandorle, e poi
prosegue lungo il collo, sulla scapola, sulla clavicola. Non ha fretta: la
vorrebbe tutta, subito, solo per riaverla ancora.
Ma
sa che non potrebbe, sa che lei sparirà tra poco, sa che se ne andrà via. Sa
che non l’avrà mai più.
Questa, qui, non
esiste.
Questa che mi bacia,
non esiste.
L’altra, lì, esiste
per chissà quanto altro ancora.
L’altra che dorme, lì,
esiste per chissà quanto altro ancora.
Quindi,
deve durare tutta la notte, deve averla lì tutta la notte. Si deve togliere lo
sfizio e scordarsela. Si deve togliere lo sfizio e scordarsela. Pure se lo
sfizio è miele, latte, caramella, fragola.
Vita
in una parentesi di morte. Estate in un gennaio perenne.
Pure
allora… lo sfizio si toglie una volta e poi se ne va via.
Fa
una vita da affamato, da assetato, da mendicante: tutto, da quando Helena è
morta.
Dunque
si può andare avanti anche senza uno sfizio.
Anche se lei ti
guarda così; anche se nei suoi occhi sembri persino puro e perfetto; anche se
sorride nelle lacrime; anche se ti fa desiderare di non avere che una vita
sola, intonsa, così da renderla fiera come invece non sarà ma; anche se ha un
destino incatenato ad uno sconosciuto qualunque che se la porterà via; anche se
non sa nulla di te; anche se solo parlando ti ricorda chi è e che cosa per
logica dovresti provare per lei.
Ma la logica ormai non
sai neanche cos’è.
È
timida, lenta, impacciata, quando dalle spalle scende lungo le sue braccia
contratte fino a raggiungere i fianchi, per sollevare la maglia leggera che
porta. Non ha smesso un secondo di baciarla, eppure l’aiuta a sfilare
l’indumento, sorride quando la vede imbarazzata mordersi il labbro inferiore
nel tentativo di guardarlo, ma non troppo, non con eccessiva attenzione. Lui,
invece, non riesce neanche a toccarla più del necessario, come se quello non
dovesse diventare qualcosa al limite della pornografia, al limite di qualcosa
che ha visto in televisione in filmacci di serie D, al limite di una meccanica incapace
di darle davvero onore e gloria.
Ed
Hermione è come se lo capisse tutt’un tratto, e si stacca da lui, e lo guarda
seria, e Draco lo sa, se lo ricorda che non è davvero lì, che è ovvio che
capisca, che è naturale che lo comprenda.
Lei
non esiste, è la sua mente, è lui a volere che capisca. E lei ovviamente lo fa.
Ed
allora si stacca bruscamente da lei, vorrebbe che solo finisse, non può
sopportarlo, non ce la fa. Deve andarsene, deve tornare in quel corridoio, c’è
il respiro vero di lei dietro una porta, deve sincerarsi che ci sia ancora quel
respiro, pronto a dirgli qualcosa di sgradevole, senza mutare la dolcezza
spavalda ed aggressiva degli occhi.
Ma
Hermione non lo lascia andare via, non lo farebbe mai, ed è come se
improvvisamente Draco sapesse che, anche dal vero, lei non lo farebbe mai, non
lo lascerebbe mai andare via, lei capirebbe sul serio. E, veloce, senza dargli
tempo di pensare o di interrompere l’incantesimo, lei si sfila in un colpo solo
il vestito di tulle azzurro che non le appartiene.
Ha
uno slancio improvviso di coraggio che muore quando nasconde il viso nel suo
torace, vergognandosi della sua nudità esibita in modo così dissoluto e
spavaldo, solo per non farlo andare via. E lui, adesso, non andrebbe via mai e
poi mai. Mai e poi mai.
E non ti azzardare a
morire, per favore, non ti azzardare a morire.
Nasconde
con ferocia e disperazione l’istinto di studiare le linee di quel corpo per
ore, non sa quanto tempo gli resta, sa che deve sbrigarsi, sa che non c’è
tempo. Le accarezza con delicatezza la nuca e i capelli, sorridendo, mentre
Hermione resta nascosta nel suo petto. Poi la fa stendere nuovamente, le
sussurra qualcosa nell’orecchio, rassicurazioni, promesse, scuse, tutto
quello che non le dirà mai, si libera degli indumenti rimasti. Ed allora
sono davvero uno contro l’altra, senza schermi, senza filtri, senza protezione,
senza niente che si frapponga a rovinare di bugie, rammarichi, rimpianti,
rimorsi e rigurgiti di passato. Sono vergini entrambi di qualsiasi cosa siano
stati, fino a quel momento.
E
Draco lo sa che, dal vero, non accadrebbe mai, sa che non l’avrebbe mai così,
disposta, meraviglia di immaginazione, a non fare domande, a non volere risposte,
a non dirgli che sarebbe sbagliato.
Lei
rovinerebbe tutto… e lui, peggio ancora, la spezzerebbe a metà.
Ma
così, che loro davvero non ci sono affatto, né lei che forse sta morendo in
un letto, né lui che non è in quel corridoio a pregare che non muoia, possono
essere tutto quello che non saranno mai.
Le
separa le ginocchia dolcemente, cercando conferma nei suoi occhi. Hermione
annuisce piano, gli accarezza lo zigomo, sorride, inarca la schiena
facilitandolo. Sussulta un po’ quando lo sente entrare dentro di lei, stringe
le braccia attorno alle sue spalle, attirandolo più vicino a sé, deposita un
bacio sulla pelle della clavicola, e lo lascia immoto lì, mentre lui si
appropria di lei a ritmo sempre più sostenuto, stringendo forte entrambe le sue
mani con le proprie.
Il
piacere si schiude rapido, come un fiore in boccio, risalendo dal suo addome ed
esplodendo in pancia, riscaldandolo di fuoco, magma, lava. E di un nome. Di un
nome che non è Helena, che non è Astoria, che non è neanche Hermione. Di un nome
che è il nome dell’amore, ma che Draco Malfoy ancora non conosce, ancora non sa
neanche com’è fatto.
Lo
capirà solo settimane dopo, un pugno contro un lampione, un dolore che non ha
pari con quello dentro, mentre sussurra di amare quella ragazza che adesso non
ama ancora, ma che vuole.
Viva.
La vuole viva. Non ti azzardare a morire.
In
un’ultima spinta, mentre la sente gemere assieme a lui, le labbra sempre
poggiate sulle sua clavicola, ricade su di lei, la fronte di nuovo poggiata
sulla sua. Le tiene il viso tra le palme, la guarda ancora, mentre lei sorride
di nuovo, implacabilmente gentile, mordendosi le labbra. Il respiro di Draco è
sempre corto, è sempre manchevole, è sempre affannato. Ed, ancora adesso, non
sa se è perché la vuole ancora, o è perché non l’avrà mai più.
Hermione
ha un luccichio di lacrime nascoste, gli passa il pollice per tutta la
lunghezza del labbro inferiore, lo attira in un altro lungo bacio. Poi, piega la
testa di lato e sussurra, tenendogli la mano sulla nuca: “Devo andare adesso”.
“Lo
so”.
I
suoi occhi sono già diventati blu come quelli di Astoria, mentre Hermione
sussurra languida: “Io esisto in lei. In Hermione. Non smettere di cercarmi. Non
lo fare”.
Ha
una piega da maliarda negli occhi mentre lo dice, mentre lo guarda famelica e
vogliosa.
È
già Astoria nello sguardo.
Per
quello, Draco non le crede.
Non
le crederà mai.
La
mattina dopo, tutto è uguale. Tutto. Persino lui. Non ci vuole granché a
rinnegare la notte alla luce del giorno. Non ci vuole neanche granché a fingere
che niente sia successo. Non ci vuole granché, soprattutto quando tutto sa di
voto, di fioretto, di promessa a Dio, di rinuncia insopprimibile ed
inesprimibile. Ha aperto gli occhi, lo sa adesso. Non può più fare finta di non
sapere. Non vuole che Hermione Granger muoia, e tanto basta. Tanto basta per
farla finita.
… stanotte è solo uno
stupido incidente.
Stanotte è solo la
sua mente che non conosce più logica alcuna.
E che sente la
mancanza di Helena, ed allora ne crea una copia malriuscita che gli va bene
avere adesso. Anche per incantesimo. Anche solo così.
Deve finire.
Non
toccherà Astoria mai più. Lo sa, lo sente.
Lei,
con il suo aspetto, non se la scoperebbe manco per disperazione.
E
l’incantesimo, ora per certo, non richiamerebbe più Helena.
Non dopo stanotte:
non dopo che ho lasciato che Hermione Granger diventasse mia.
Sistema
delle carte al Petite Peste, nella sua camera. Serenity giocherella spensierata
accanto a lui.
È
il solito simulacro di sé che saluta Potter, portandogli le ultime notizie.
È
però di nuovo sé stesso quando implora Potter di portarsi via la Granger, prima
che lui inizi a provare davvero qualcosa per lei.
…
il suo vero sé stesso, le sue fattezze morbide ed insicure di una notte rubata,
Hermione Granger le vedrà settimane dopo, quando Astoria reclamerà le loro vite
su una terrazza abbandonata di Hogsmeade.
Hermione
penserà che sarà la prima volta che lui la guarda così.
Non
sapendo di uno sguardo riservatole mentre era ad occhi chiusi, su una terrazza,
alla luce della luna piena, ancora dimentica del bacio che si erano scambiati.
Non
sapendo di un sollievo fiorito su un volto diafano e di un singulto grato di
preghiera.
Grazie per non
esserti azzardata a morire.