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Autore: KeyLimner    02/07/2014    0 recensioni
"Non c'è niente di più terribile che sentire le parole finire, quando non finisce affatto ciò che esse dovrebbero esprimere.
Le sento affievolirsi sempre più, mentre invece la mia angoscia cresce... cresce... Posso percepirla ribollirmi sotto la pelle come pece rovente, che mi lambisce le viscere con tocco insinuante al di sotto del sottile velo della cute. I suoi occhi demoniaci mi guardano dai recessi del mio animo con aria famelica. Non aspettano che il momento giusto per divorarmi.
Le pareti mi serrano fino a soffocarmi. A tratti le vedo chiudersi su di me, rompere la loro rigida geometria per venirmi incontro come per risucchiarmi nella loro struttura, trasformando anche il mio corpo in un agglomerato di intonaco secco.
Ma più di tutto mi opprime la tua immagine.
Potresti stringermi, abbracciarmi. Potresti darmi il tuo calore, come hai già fatto mille volte. Ma so... lo so quando le tue braccia mi abbandonano e resto sola, chiusa in una stanza che mi divora... so che quel calore non era che il mio stesso tepore che fuggiva, mentre tu me lo rubavi per restituirmi solo un freddo glaciale..."
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Vi capita mai, quando siete circondati da persone che parlano una lingua straniera, di avere l’impressione che gli altri vi stiano prendendo in giro? Che le incomprensibili sequenze di suoni che emettono altro non siano se non versi senza senso, elaborati al solo scopo di farsi beffe di voi?
Ricordo che qualche anno fa andai con alcuni miei amici in un college estivo a Cambridge. La sera ci riunivamo tutti in un parchetto dove ragazzi di ogni nazionalità andavano a ubriacarsi insieme allegramente. Si potevano sentire lingue di ogni tipo, come in una gigantesca Babele. Una sera eravamo un po’ alticci, e su iniziativa di uno dei più brilli dei miei compagni intraprendemmo un gioco piuttosto bizzarro: parlavamo fra noi rivolgendoci suoni inarticolati, come se anche noi stessimo confabulando in una nostra lingua sconosciuta agli altri… mentre in realtà facevamo solo i cretini. Il pensiero che la gente intorno avrebbe potuto effettivamente crederci stranieri, originari di chissà quale lontano Paese, ci divertiva a tal punto che non potevamo fare a meno di parlare a gran voce e ridere sguaiatamente.
Di tal genere appunto erano i pensieri che mi attraversavano la mente, mentre con i miei compagni mi incamminavo lungo i corridoi dell’aeroporto di Parigi e vedevo la gente fluire accanto a me come mossa da una qualche forza invisibile. Mi sarebbe piaciuto studiare il francese, pensai, sentendo per l’ennesima volta quelle parole dal suono così musicale fluire dalle labbra di una signora di mezza età che mi sfrecciava accanto tirando per il braccio una ragazzina urlante. Purtroppo, nella mia scuola alle medie si studiava solo spagnolo. Non che in quella lingua avessi acquisito chissà quale competenza, in quei tre anni; quando lo avevo rivenduto, il mio libro di testo era praticamente nuovo.
Mi guardai intorno in modo apparentemente casuale, simulando una certa nonchalance. In realtà, sapevo perfettamente cosa stavo cercando.
I nostri occhi s’incontrarono a mezz’aria, come si scontrano le nubi durante le tempeste.
I suoi erano inconfondibili come sempre. Come sempre spalancati e attenti, neanche avessero deciso di assumersi il gravoso incarico di scrutare in ogni angolo per captare tutti i particolari… quelli che sfuggono ai più, e che solo qualcuno si sforza di trovare. La loro forma, il loro colore, facevano pensare a dei cavalloni impetuosi coperti di spuma, che si levavano dal buco nero della pupilla irrompendo verso l’esterno in un atto di ribellione… fuggendo coraggiosamente al vuoto che tentava di ingoiarli.
Mi sorrise appena, tanto per dimostrare di avermi visto. Quel sorriso bastò a far battere il mio cuore come un tamburo. Poi lui si voltò, e avvicinandosi prese a salutare gli altri ad uno ad uno.

Quella sera ci riunimmo tutti in una piazzetta nei pressi del nostro albergo. Venne anche lui.
Non saprei dire perché quando aveva saputo la meta del nostro camposcuola avesse deciso di seguirci. Di rado riuscivo a spiegarmi le sue azioni… e forse questa era una delle ragioni che lo rendevano tanto affascinante ai miei occhi. Non frequentava più la nostra scuola ormai: aveva fatto la maturità l’anno precedente, e per quanto ne sapevo si era iscritto alla facoltà di Filosofia. Era lì a Parigi già da un paio di giorni. Era arrivato con un paio di amici che conoscevo solo di vista, e che in quel momento non erano con lui.
Non parlammo granché. Per un po' mi limitai a osservarlo da lontano. Lui di tanto in tanto si voltava a fronteggiare il mio sguardo, e ci guardavamo a lungo, intensamente, finché uno dei due non si decideva a mollare la presa. 
Ricordavo come fosse ieri quel giorno, l’anno precedente… quando nell’aureola del tramonto vermiglio, sul terrazzino della casa al mare di Susanna, mentre tutti gli altri erano al piano di sotto e potevamo sentire le loro risa sguaiate… i nostri occhi erano sprofondati gli uni negli altri fino a fondersi… la sua mano mi aveva accarezzato dolcemente i capelli… e le nostre labbra si erano incontrate. Le sue erano morbide come un fiore di pesco.
Non so perché allora mi ritrassi. Forse fu perché la sua mano, pian piano, dai capelli aveva preso a scendere sempre più giù… sempre più giù… e a un certo punto era arrivata troppo in basso, e non avevo avuto il coraggio di prolungare ancora quel bacio. Fatto sta, che da allora non l’avevo più rivisto. E avevo passato mesi interi a riassaporare nel ricordo il sapore di quel bacio, e a mangiarmi le mani per aver permesso che mi sfuggisse. E adesso… era di nuovo qui. Sembrava così irreale…
Dopo un po’, rientrammo in albergo. Lui ci venne dietro. Si nascose fra di noi perché i professori non lo vedessero entrare.
Eravamo già tutti piuttosto brilli. Perduta ogni inibizione, quando mi ritrovai distesa vicino a lui, non provavo più un filo di imbarazzo. Cominciammo a parlare come due vecchi amici. Io ridevo stupidamente; solo dopo mi sarei vergognata ripensando a quanto apparissi sciocca in quel momento. Lui mi sussurrava con voce profonda. Non ricordo più cosa disse. Solo la sua voce vellutata, che mi risuonava nel petto come fossi uno strumento che lui faceva vibrare con dolcezza.
Ad un tratto, gli altri cominciarono ad andarsene pian piano a dormire. Erano le tre passate. Ci fu una mezzoretta di baccano generale, mentre ciascuno cercava il proprio letto premurandosi di buttare giù gli eventuali occupanti o trascinandosi alla ricerca di un altro giaciglio libero.
Quando scese il silenzio, lui si voltò piano verso di me… e mi guardò senza dire una parola. I suoi occhi erano come le maree. Come un mare ghiacciato, ma non nel suo stato di quiete: il gelo del suo sguardo pietrificava le onde proprio quando erano sul punto di rifrangersi sulla riva dell’iride… le catturava nell’istante di massima violenza, quando stavano per dilaniare il bianco della cornea con le loro zanne acuminate e la spuma spruzzava da ogni parte come bava dalle fauci di una bestia famelica; a contenerle, un solido cerchio di metallo scintillante. Le gocce d’acqua erano congelate in tanti piccoli e minacciosi cristalli che scintillavano sotto la luce come minuscoli diamanti.
Impossibile non restare incantati.
Quegli occhi mi stavano rivolgendo un’implicita domanda. E sapevo… lo sapevo anche se in quel momento non ero lucida e capivo poco o niente (ma “capire”, nel senso in cui lo si intende comunemente, era una cosa inutile, specialmente allora, che ero consapevole di non poter fare affidamento sul mio cervello, ma sapevo che in ogni caso mi sarebbe servito a poco o a niente, anzi, mi sarebbe probabilmente stato di impaccio…)… sapevo che i miei occhi gli stavano rispondendo di sì.
Sorrisi. Abbassai lo sguardo, e non era per il vino.
Dopo un po’, chiusi gli occhi. Sospirai. Stavo proprio bene. Come avrei voluto restare così per sempre… La mia testa girava… girava… I rumori erano confusi. Le sensazioni che mi giungevano dal mondo formavano una strana amalgama, in cui mi era difficile distinguerle. Ma stavo bene.
Quando cominciai a sentire un solletichio al polpaccio, ci misi un po’ a rendermi conto che era la sua mano. No… ti pego, no…, pensai. Era tutto così perfetto che avevo paura che adesso rovinasse tutto. Ma per un po’ mi sfiorò in modo così lieve che potevo fingere si trattasse di un contatto casuale. Pian piano, però, la mano si fece più insistente. Tutt’a un tratto, cambiò posizione, e appoggiò la testa sulla mia pancia. Trattenni il respiro.
La mano saliva. Io continuavo a restare immobile, senza reagire in alcun modo.
D’un tratto, sentii il mio atteggiamento cambiare. Il corpo rilassarsi. Ora volevo che continuasse. Volevo che avesse la meglio su di me. Non avevo intenzione di arrendermi, però. Semplicemente, cessai di oppormi, ponendomi in un atteggiamento di sfida.
Vediamo se ci riesci, disse una vocetta maliziosa nella mia testa.
Si spostò ancora. Salì ancora di più. Ora era dietro di me. Gli davo le spalle.
Ecco, è il momento, pensai. Sapevo cosa voleva. E sapevo di volerlo anch’io. Ma avevo paura. Paura di cosa sarebbe accaduto. Se lo avessi assecondato, avrei mandato in frantumi il mio alibi: quel che mi stava chiedendo era una risposta. E chi risponde non può più restare neutrale…
Mi sfiorò le labbra. Io le dischiusi, ma non mi voltai. Poi lui iniziò a chiamarmi, piano, con un filo di voce.
Alla fine, cedetti. Mi girai verso di lui, e per la seconda volta le nostre labbra si incontrarono. Fu un bacio lungo… più lungo di quello precedente. E stavolta, quando la sua mano iniziò a scendere, non la fermai…
  
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