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Autore: Catnip_    03/07/2014    5 recensioni
“Solo continuo ad augurarmi di trovare un modo per... per dimostrare a quelli di Capitol City che non sono di loro proprietà. Che sono più di una semplice pedina.'
Peeta Mellark non fu il primo a pensarla così.
64° Hunger Games, il tributo femmina del distretto 7 è Rain Wayland, una ragazzina, con un bel caratterino ma soli 13 anni.
Consapevole del fatto che le sue possibilità di vincere sono praticamente insesistenti, lotterà per ingannare la legge del più forte, sopravvivere il più possibile e quindi poter mostrare al mondo la sua lotta contro gli Hunger Games, per dimostrare che lei e tutti gli altri che hanno condiviso il suo stesso destino sono più di semplici pedine.
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È la mia prima fanfiction, siate clementi xD
Genere: Avventura, Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Tributi edizioni passate
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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- Mietitura -

Today, fate play dice with our lives

 


 









Rain fissava la propria immagine nello specchio.

Gli occhi fissi nelle iridi del suo riflesso, grigie come una tempesta di pioggia.

Sembravano così grandi e così belle, su quel viso da bambina.

Era lei, ma non era lei. Il viso dai tratti ancora infantili sembrava più dolce, privato della solita aria furbetta e dello sguardo corrucciato.

I capelli rossi che tanto amava, di solito sciolti in una chioma ribelle, erano legati in un tenero chignon, che le incorniciava il viso in modo differente. Così risaltavano gli occhi, gli zigomi alti, i lineamenti morbidi.

Non era mai stata vanitosa, ma non riusciva a smettere di fissare quell'immagine. Era lei, ma non era lei.

Per non parlare poi del vestitino: corto, così che fosse libera di muoversi, ma incredibilmente fine. Di pizzo, rosa confetto, con un nastrino nero in vita.

Era un vestito che il diavoletto dai capelli rossi non avrebbe mai indossato, che non le si addiceva, ma -cosa strana- le piaceva.

Forse era quello che non riusciva a spiegarsi: non riusciva a staccare gli occhi da quell'immagine di sè stessa perchè le piaceva.

Alla fine era un'altro effetto della mietitura: riportava alla luce gli aspetti più umani di ognuno di loro. La paura, il folle terrore di incontrare un destino difficile. L'affetto, l'affetto per i famigliari, per gli amici, per il luogo in cui si è nati. Lo spirito di ribellione, la rabbia verso chi ci opprime. E anche il semplice e frivolo piacere di indossare, una volta all'anno, qualcosa di carino. Di essere carina.

No, quella non era lei. Rain Wayland indossa aderenti pantaloni di cuoio, maschili, e i suoi capelli non sono un dolce chignon da brava ragazza: sono una zazzera spettinata di fili ramati, pieni di foglioline, rametti, e quant'altro.

Distolse lo sguardo dallo specchio e uscì dal bagno sbattendo la porta.

Fuori la attendevano, con aria interrogativa dipinta in volto, Matthew e il vecchio padre Adam.

- Andiamo. - rispose lei semplicemente.

Non rispondendo alle domande non espresse, ma ben chiare nelle loro espressioni, Rain aprì la porta della piccola e sghangerata casetta di boscaioli e si diresse in piazza a passo di marcia.

 

 

 

Ore 12:00, Piazza

Rain arrivò in piazza senza un minuto d'anticipo.

Camminava a passo svelto, per quanto le scarpette -che non era abituata ad indossare – glielo consentissero.

Era pieno di persone, davanti a lei un'enorme massa di ragazzi e ragazze, tutti ben vestiti e pettinati, sfilava a testa bassa davanti ai pacificatori che pungevano loro il dito.

Non appena fece il suo ingresso, si sentì osservata.

Molte facce si girarono verso di lei, alcune conosciute, altre no, alcune la notarono semplicemente per il suo lieve ritardo, altri scrutando senza ritegno la nuova pelle della ragazzina ribelle.

Non aveva mai dato peso a chi la guardava così, gli passava davanti a testa alta, orgogliosa del proprio spirito ribelle, della propria lingua bisbetica e della chioma fulva che, intrisa di rametti e foglioline, tradiva la sua attività nei boschi.

Ma ora, con il corto vestitino di pizzo rosa, lo sguardo da bambina e i capelli raccolti, si sentiva improvvisamente nuda, troppo femminile per il suo solito, e troppo poco ribelle per non riuscire a credere “normali” quegli sguardi.

Sbuffando, si mise in coda per farsi pungere il dito.

La massa di ragazzi che la circondava ricordava un gruppo di detenuti portati al patibolo. D'altra parte, non c'era paragone migliore per descrivere la mietitura. Ragazze bellissime nei loro candidi vestiti, rovinate dall'espressione triste e lo sguardo chino. I ragazzi più spavaldi piegati anche loro dalla paura, dal terrore che i dittatori esercitavano sul popolo sottomesso.

Non riusciva ad avere paura Rain, provava solo rabbia. Forse perchè l'idea di essere estratta non la toccava veramente. Funziona anche un po'così per chi non ha mai avuto a che fare con gli Hunger Games in famiglia, si comincia involontariamente a credere che sia una sciagura che capita agli altri, non a te, che tu sarai destinato a vedere gli altri morire e ad odiare sempre di più chi muove i fili di quella triste commedia.

Prese a guardarsi intorno, osservando tristemente i numerosi ragazzini che si radunavano davanti al palco, notando i loro occhi imploranti guardare la boccia colma di biglietti, e leggendo sui volti dei loro genitori la preoccupazione.

Erano tanti i dodicenni che affrontavano per la prima volta la paura della mietitura, si erano tutti radunati in prima fila, alcuni si tenevano per mano, altri fissavano la gente sul palco.

Così come erano tanti i diciottenni, che ormai abituati a quella preoccupazione, speravano ardentemente di poter scampare anche l'ultimo anno, ed esentarsi definitivamente da quell'incubo.

La fila che aveva davanti procedette velocemente, poichè erano rimasti in pochi, e Rain si trovò davanti ai pacificatori.

Le punsero il dito, strappandole una smorfia, poi la lasciarono andare.

Si fece strada tra la folla e andò a mettesi vicino a quelli del suo anno, appena in tempo per l'inizio dell'inno.

Il solito noiosissimo inno, che non avrebbe potuto essere più falso.

Di certo Capitol City non credeva davvero che i distretti si bevessero quella roba, era solo un altro modo per prenderli in giro, un modo per mostrare che loro potevano tutto, che si accorgevano delle ingiustizie che facevano ma che non gliene poteva fregare di meno.

Non era la sola a non ascoltare, altri accanto a lei fissavano la boccia colma di pezzi di carta.

Pezzi di carta con dei nomi scritti sopra, estratti da una sottospecie di folletto bizzarro di nome Daphne: ecco a cosa era affidato il loro destino. Roba da pazzi.

Finalmemte quello srazio terminò, e Daphne si avvicinò alla boccia camminando impettita sui suoi tacchi alti.

Dio com'era ridicola quella donna...

Come ogni anno, per l'occasione della mietitura nel distretto dei boschi, si era vestita di verde.

Quest'anno indossava un abitino che sembrava di cartapesta, verde muschio, con un enorme fiocco sul retro della gonna, tanto grande che si vedeva anche guardandola di fronte.

Sopra i capelli, biondi e ricci, indossava un cappello che sembrava di corteccia di betulla, con pendagli qua e là a forma di foglie.

Per non parlare del trucco, verde ed esagerato....più che una donna sembrava un folletto.

Esibendo un sorriso smagliante, -il folletto- Ophelia si avvicinò alla boccia, ed esclamò con voce acuta:

- Bene bene, siamo pronti per estrarre i nostri coraggiosi volontari!

Tsk...volontari...

- Come sempre, prima le signore!

Rain la osservò fare ancora un passettino su quei tacchi vertiginosi, per sporgersi e allungare la mano dentro la boccia.

Fissò la sua mano girare sulla marea di biglietti, col chiaro intento di aumentare la suspance.

Gli occhi grigi della ragazza la fissavano con decisione e con rabbia, ma in realtà aspettava solo di sentire quel nome, quel nome che per un altro anno le avrebbe risparmiato gli Hunger Games.

Ci saranno state poco meno di un migliaio di nomine, di cui solo 8 erano sue.

13 anni, 8 nomine.

Una morsa di tensione le prese lo stomaco: poche, molto poche, le possibilità di essere estratta erano minime, ma non inesistenti. Quello era il momento in cui anche i più spavaldi cedevano alla paura, al terrore folle.

Il momento in cui le dita di Daphne aprivano il biglietto, il momento in cui le sue labbra lucide di rossetto si aprivano per pronunciare quel nome, quello era il momento in cui il mondo tratteneva il fiato.

Finalmente l'odiosa vocetta di Daphne ruppe il silenzio disumano che si era formato, annunciando il nome della fortunata.

Rain Wayland.

 

 

 

Rain Wayland.

Quello era il suo nome.

Si guardò un attimo intorno, disorientata.

No, non poteva essere vero, quello era solo uno dei suoi incubi. Adesso si sarebbe svegliata, il palco sarebbe sparito e...e...No!...non poteva essere lei.

Rifate, ripescate, dev'essere un altro nome, non posso essere io! No no no no no...!

Si accorse che tutti si erano voltati a guardarla, Daphne le sorrideva con quella sua stupida smorfia, la gente si stava spostando per farla passare.

No, quelle erano cose che succedevano agli altri, lei aveva solo 8 nomine. Il suo destino era guardare quelle oscenità in televisione, soffrire per i compagni di distretto, non partecipare.

Si accorse che il suo cuore stava battendo a mille, che il suo battito sovrastava tutti i suoni, i mormorii della gente, le paroline frivole di Daphne che la invitava a salire.

Era vero. Non era un'incubo.

Lei, Rain Wayland, era appena divenuta il tributo femmina del distretto 7 dei 64° Hunger Games.

Deglutì, e camminò lentamente verso il palco.

Si vide sul piedistallo della cornucopia, con l'ansia alle stelle, pronta a correre verso quel bagno di sangue. Si vide con un coltello in mano, guardare negli occhi qualcuno che aveva appena ucciso, con un vuoto sapeventoso nello stomaco.

Si vide a terra, senza scampo, mentre un favorito le correva incontro brandendo una spada, sentì la lama conficcarsi nel ventre, un dolore lancinante, la vita che l'abbandonava...

Si vide negli Hunger Games, quello era il suo destino.

Le gambe parevano di piombo mentre saliva i gradini, dirigendosi verso una sorridente Daphne che le allungava una mano.

Non sentiva ciò che le diceva, non riusciva nemmeno ad odiarla, sentiva solo il grosso peso della situazione che incombeva su di lei.

Nel distretto 7 non c'erano favoriti, tutti temevano gli Hunger Games, nessuno si sarebbe offerto volontario al suo posto. Niente e nessuno avrebbero potuto salvarla ora.

Cercò di non piangere, ma non dovette sforzarsi: il vuoto che aveva dentro era troppo forte persino per le lacrime.

Cercò di scacciare l'espressione sgomenta che aveva in viso, di mostrarsi forte, ma i suoi muscoli facciali erano come bloccati.

Non ascoltò una parola di quello che disse Daphne: lei guardava in fondo, nella fila degli uomini. Matthew era avanzato di qualche passo, stava venendo verso il palco, suo padre non riusciva a vederlo.

Poi un nome la riportò alla realtà:

- Ethan Shane!

Si voltò di scatto, e vide il ragazzo che sarebbe stato suo compagno di sventura. Capelli castani, fisico robusto, e il suo stesso sguardo disorientato: era sicuramente più grande di lei, sui 17 anni. Lo guardò mentre saliva sul palco: non lo conosceva, ma era quasi triste per lui, ora erano compagni di uno stesso destino.

Ophelia fece stringere loro la mano, e Rain incrociò il suo sguardo. Occhi ambrati, profondi, oscurati da un velo di tristezza che, ne era certa, c'era anche nei suoi.

- Eccoli qui, i tributi del distretto 7 per i 64° Hunger Games: Rain Wayland, e Ethan Shane!

Migliaia di facce tristi si levarono a guardarli, chi sconsolato, chi sollevato di non essere al loro posto. Era così tutti gli anni, loro erano solo i malcapitati di turno. A nessuno importava chi fossero, pensava solo “poveri ragazzi” e nascondeva il sollievo con un cenno di dissenso, uno sguardo impotente volto all'asfalto della strada.

Rain non desiderava altro di essere portata dentro al più presto, perchè faticava a reprimere le lacrime. No, lei non era un tributo qualunque. In quel momento voleva solo veder l'affetto del suo distretto, un ultimo incoraggiamento da portare con sè, ma non arrivò.

Si chiese se tutti i tributi prima di lei avessero provato la stessa cosa, un tragico protagonismo che non vedevano rispecchiato nella reazione della folla. Era del loro destino che si parlava, della loro vita e -molto più probabile- della loro morte. In pochi sarebbero stati veramente colpiti chi fossero i tributi estratti, erano solo le vittime di turno.

Cercò con gli occhi suo padre, e quando lo trovò volle non averlo mai fatto.

I loro occhi si incontrarono, grigi etrambi, e pieni di tristezza.

Quello sguardo di tristezza era dipinto su tutto il suo volto, segnato dalle rughe e dal tempo, ma che sempre era stato pieno di vita. In quel momento Rain capì quante ne avesse passate suo padre in quegli anni, quando avesse sofferto: prima sua madre, strappata alla vita da una malattia, ora lei, estratta per gli Hunger Games.

Quando ormai gli occhi le stavano diventando lucidi vide Matthew, che era riuscito a farsi strada tra la folla fino ad arrivare al palco, e ormai li separavano soli pochi metri.

Lui alzò lo sguardo, lei fece un passo in avanti, poi un pacificatore la portò via.

 

 

 

 

Venne cacciata dentro a forza, spinta dal pacificatore che la trattava come una marionetta priva di capacità di movimento.

In altre occasione avrebbe protestato, ora no.

Era troppo sconvolta.

Si concesse un attimo per guardarsi intorno: era in una stanza piccola, dall'odore di chiuso e scarsamente illuminata, con un divanetto rosa antico alla sua sinistra.

Era la stanza degli ultimi saluti.

Camminò un po', portandosi davanti alla finestra.

Non sapeva cosa pensare, non riusciva a ragionare, l'unica immagine che le veniva in mente era quella pensata prima mentre saliva le scale.

La cornucopia, la tensione, l'omicidio, la morte...

Si prese il viso tra le mani, lasciando finalmente uscire le lacrime.

Pianse in silenzio, senza un singhiozzo nè un rumore, semplicemente pianse.

Lasciò che le lacrime rigassero il suo volto, che scorressero sulle sue guance come una torrente, imperterrito nel seguire il suo corso.

Perchè....perchè proprio a lei? Aveva sempre odiato così tanto gli Hunger Games, non avrebbe mai immaginato di venire davvero estratta.

Ora come avrebbe fatto?

Era agile è vero, e veloce anche, ma aveva solo 13 anni...

Sapeva arrampicarsi sugli alberi, correre nel bosco, riconoscere piante e bacche, costruire semplici trappole per scoiattoli...ma sarebbe bastato nell'arena? Cosa avrebbe potuto un po' di esperienza nei boschi contro le armi dei favoriti?

La sua morte era segnata, era inutile negarlo...

Ma perchè...perchè doveva morire così? Perchè! Dentro di se, il suo spirito ribelle prese il sopravvento su tutte le altre emozioni, si accese come fuoco. No, lei non sarebbe morta.

O forse sarebbe morta, ma non avrebbe sprecato 13 anni di vita per morire in un Hunger Games. L'odio verso Capitol City non era mai stato tanto forte quanto in quel momento, la frustrazione e l'ira alimentarono quel fuoco che si era acceso dentro di lei fino a far divampare un vero e proprio incendio. Voleva rompere qualcosa, doveva rompere qualcosa o avrebbe finito per strapparsi tutti i capelli. Riniziò a piangere, lacrime salate, lacrime di frustrazione e di rabbia, lacrime liberatorie. Era triste, sconvolta, ma non più persa in sè stessa. Ora aveva quella fiamma nel petto, le pareva quasi di sentirne il calore, quella fiamma che sarebbe stata la sua guida: qualcunque cosa avrebbe fatto, qualunque cosa sarebbe successa, avrebbe lottato con le unghie e con i denti per non morire invano. Era stata condannata a dei giochi tanto crudeli, almeno aveva il diritto di provare a sopravvivere.

Scacciò le lacrime, si asciugò gli occhi con la manica del vestito e si sforzò di cambiare espressione: primo passo, non mostrarsi debole.

Non doveva essere pessimista, aveva già un vantaggio contro chi veniva dal 10 o dal 12, un'abilità che compensava con la sua giovane età, una forza di spirito che sostituiva quella fisica. Sarebbe stato sufficiente? Probabilmente no, ma se lo sarebbe fatta bastare.

- Pap...!

Si voltò di scatto, aspettandosi di veder entrare Matthew e suo padre, ma non erano loro.

Era Ronald, un vecchio amico del padre.

In un certo senso si stupì di vederlo li per lei: l'altro ragazzo, Ethan, lavorava da poco con loro, pensava fosse andato a salutare lui...

Era uno dei tagliaboschi che lavorava vicino alla sua zona di bosco, ogni giorno la incotrava, e anzichè denunciarla ai pacificatori la salutava con un amichevole “Heilà Rain!”

Quante chiacchierate avevano fatto, quante volte l'aveva coperta con i pacificatori...!

In fondo, Ronald era un vecchio amico.

Entrò nella stanza quasi trascinando i piedi, tenendo la testa bassa.

La ragazza gli si avvicinò, e timidamente lui tirò fuori qualcosa dalla tasca.

- Io...ecco io ho pensato che...beh, tutti i tributi hanno un portaforuna no? Pensavo che anche tu ne volessi uno, qualcosa...qualcosa che ti ricordasse il tuo distretto...

Tirò fuori dalla tasca un sacchettino sbiadito, e lo aprì con mani tremanti.

Ne tirò fuori un a collana, un ciondolo di giada, verde, come la sua amata foresta.

Rain restò a bocca aperta.

- Era di Rebecca...vorrei che lo avessi anche tu – le disse.

Per poco non si commose.

Rebecca era la figlia di Ronald, morta molti anni prima negli Hunger Games.

Quel ciondolo era il suo portafortuna, probabilmente l'unica cosa che gli avevano restituito di lei.

- Ronald...grazie, non sai quanto ti sia riconoscente -.

Il vecchio e la ragazza si abbracciarono:

- Sii forte diavoletto, ti aspettiamo tutti qui al 7. Faremo di tutto per aiutarti, tu torna vincitrice – le sussurrò, poi un pacificatore venne a prenderlo e lo portò via.

 




Era commossa.

Si rigirava tra le mani il ciondolo di Rebecca, capendo quanto fosse importante il gesto di Ronald. E poi quella frase...sii forte diavoletto, ti aspettiamo tutti qui al 7...davvero pensavano che ce l'avrebbe fatta? Faremo di tutto per aiutarti, tu torna vincitrice...probabilmente no, ma a quanto pare nessuno si era ancora rassegnato all'idea di vederla morta.

In quella collana sentì tutto l'affetto del suo distretto: era il portafortuna perfetto, ovunque fosse finita le avrebbe ricordato che tutti contavano su di lei.

Mentre rinfilava in tasca il sacchettino, la porta si aprì di nuovo.

Come un fulmine, Matthew entrò di slancio, e lei si gettò tra le sue braccia.

Tutti i tentativi di non piangere andarono a farsi benedire.

- Matthew io... - iniziò a dire, scoppiando in lacrime.

No, dov'era finita tutta la determinazione di prima? Possibile che il solo vedere il fratello le provocasse tanto dolore? *Forse perchè non lo rivedrai mai più...*

- Shh...ascoltami – le disse.

Le prese il viso tra le mani e la guardò negli occhi, fissando le sue iridi verdi in quelle grigie di lei. Erano così belli gli occhi di Matthew...ricordavano la foresta, racchiudevano in quel piccolo cerchio di pochi millimetri tutte le sfumature di verde che la foresta poteva offrire.

C'era il verde acceso e brillante dell'erba di primavera, quello scuro degli aghi di pino che riempivano il paesaggio invernale, persino il verde del muschio, che sembrava riportarle alla mente la freschezza delle sue minuscole e morbidissime foglioline.

- Tu puoi farcela. Non importa se sei solo una ragazzina, tu conosci i boschi e...

- Ma se l'arena non è un bosco?

- Gli alberi ci saranno, devono esserci, tutte le volte che non li hanno messi la gente moriva nel giro di due giorni: una zona di bosco ci sarà.

- Ma Matthew io...

- Shh! Ascoltami Rain. Ricordati tutto quello che ti ho insegnato, costruisci trappole, imparane di nuove, cerca di evitare la cornucopia e procurati piante e bacche, poi...

- Matthew...

- Trova qualcosa per scaldarti, dormi sugli alberi, non scendere mai a terra e non farti trovare dai favoriti...

- Matthew...

- Non ti fidare di nessuno, non cercare alleati, bada a te stessa, tu puoi farcela, lo sai e...

- Matthew!

Il ragazzo ammutolì.

Rain lo guardò negli occhi, lucidi come i suoi. E in quel momento si rese conto della cosa più importante di tutte, della difficoltà più grave, al di sopra della sua giovane età, dei muscoli dei favoriti, del sadismo degli strateghi:

- Io non sarò in grado di uccidere nessuno... – gli sussurrò.

Lui fece un grosso sospiro.

- Rain...non devi per forza uccidere.

- No Matt! Nessuna persona per bene vince gli Hunger Games!

- Si invece...e se non è così, allora dovrai ucciderli. Rain non puoi pensare all'etica in una situazione del genere, tu devi tornare a casa -.

Quelle ultime parole erano così colme di decisione, di forte determinazione, quasi volesse incidergliele nel cervello in modo incancellabile, che la ragazza capì quanto suo fratello tenesse a lei.

Non era come gli altri, che rattristati dalla sua imminente morte la guardavano con compassione e le auguravano buona fortuna, lui credeva veramente in lei.

La ragazza annuì.

Lui tirò un sospiro di sollievo, sollevato dal fatto che la sorella avesse capito, di essere riuscito a farle capire ciò che voleva e di averle dato la determinazione di cui aveva bisogno, e la abbracciò. Rimasero così qualche istante, poi Rain si staccò piano piano e si avvicinò a suo padre. Era in piedi, dietro a Matthew, e la guardava con occhi tristi.

Occhi stanchi, occhi di chi ne ha viste troppe per sopportarne ancora. Era un uomo forte nonostante l'età avanzata, ma avrebbe sopportato anche questo? Con gli occhi colmi di pianto, lo abbracciò. Doveva mostrarsi forte, anche per lui, così represse le lacrime. Il vecchio padre le accarezzò la testa:

- Rain...la mia piccola Rain...la mia donna di casa...

Anche se non aveva un talento per le faccende domestiche, appunto per questo affidate a suo padre, dopo la morte della madre Rain era l'unica donna di casa.

Prima sua madre, poi lei. Il mondo gli aveva portato via troppe persone, ma lui era ancora li, quell'uomo era una persona straordinaria.

- Sii forte papà – gli disse – tornerò.

E mentre lo diceva, si rese conto di crederci davvero: quella non era una consolazione, era una promessa.

  
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