«Ehi!».
Rivederlo così fu strano. Non me lo aspettavo. Tante volte la mia mente aveva dipinto lo scenario di quell’incontro, e col tempo aveva finito per esagerare i colori, le sfumature. Le tinte di quel giorno, invece, erano molto più tenui. Più gentili.
Mi sorrise. C’era qualcosa di infinitamente tenero in quel sorriso. Sembrava un bambino che dopo aver rubato una caramella tornava dalla mamma mortificato e un po’ imbarazzato.
«Come va?».
«Si tira avanti».
Pausa.
«Tu come te la passi?».
«Bah. Fra una cosa e l’altra, non ho neanche il tempo di chiedermelo. Ho ripreso a seguire i corsi all’università. Mi ero preso una piccola pausa. Tu? Con la scuola? Tutto a posto?».
«Al solito. La prof di matematica è una stronza. Ho paura che quest’anno mi metterà il debito…».
«Greve… I quadri non sono ancora usciti?».
«No. Escono la settimana prossima. Sto strippando…».
«Vabbè, dai. Se anche te lo mette, hai una materia sola. Gli esami sono a settembre quest’anno, no? Hai tutto il tempo per recuperare».
«Sì… c’è ancora tempo per recuperare».
Lo guardai. Mi guardò. C’era nei miei occhi un’implicita richiesta… un’attesa ansiosa e un po’ titubante. Mi sorrise, e si avvicinò per baciarmi.
Quando si allontanò, scoppiai a ridere. Lui rimase un po’ interdetto. Poi sogghignò, e infine rise anche lui.
Fu allora… guardando il suo sorriso, che sentii quel brivido rivelatore percorrermi la schiena come un ragnetto dispettoso. E allora seppi.
Clara aveva ragione. In fondo, non si stava poi così male in quel corridoio…
Qualche ora dopo, ero a casa.
Guardai la scrivania. Stavolta non ci fu esitazione. Mi diressi a passo deciso verso il comodino. Primo cassetto, quello in alto. Il diario, penna alla mano… e via!
Per me la scrittura era una forma di anarchia, scoprii, mentre scrivevo… scrivevo… finché la mano non cominciò a dolermi per lo sforzo. Scrivevo febbrilmente, come se le tante parole che mi erano sfuggite fino ad allora mi assalissero ora tutte assieme. Sapevo dentro di me che scrivere, in quel momento, non avrebbe avuto senso se avessi cercato di direzionare quelle parole, di dare loro una forma… Perciò le lasciai andare. Fiduciosa che infine sarebbero arrivate da qualche parte.
Penna! Corri sul foglio! Non ti curare di lasciarmi indietro. Chissà, forse arriverai a destinazione prima di me…
Rivederlo così fu strano. Non me lo aspettavo. Tante volte la mia mente aveva dipinto lo scenario di quell’incontro, e col tempo aveva finito per esagerare i colori, le sfumature. Le tinte di quel giorno, invece, erano molto più tenui. Più gentili.
Mi sorrise. C’era qualcosa di infinitamente tenero in quel sorriso. Sembrava un bambino che dopo aver rubato una caramella tornava dalla mamma mortificato e un po’ imbarazzato.
«Come va?».
«Si tira avanti».
Pausa.
«Tu come te la passi?».
«Bah. Fra una cosa e l’altra, non ho neanche il tempo di chiedermelo. Ho ripreso a seguire i corsi all’università. Mi ero preso una piccola pausa. Tu? Con la scuola? Tutto a posto?».
«Al solito. La prof di matematica è una stronza. Ho paura che quest’anno mi metterà il debito…».
«Greve… I quadri non sono ancora usciti?».
«No. Escono la settimana prossima. Sto strippando…».
«Vabbè, dai. Se anche te lo mette, hai una materia sola. Gli esami sono a settembre quest’anno, no? Hai tutto il tempo per recuperare».
«Sì… c’è ancora tempo per recuperare».
Lo guardai. Mi guardò. C’era nei miei occhi un’implicita richiesta… un’attesa ansiosa e un po’ titubante. Mi sorrise, e si avvicinò per baciarmi.
Quando si allontanò, scoppiai a ridere. Lui rimase un po’ interdetto. Poi sogghignò, e infine rise anche lui.
Fu allora… guardando il suo sorriso, che sentii quel brivido rivelatore percorrermi la schiena come un ragnetto dispettoso. E allora seppi.
Clara aveva ragione. In fondo, non si stava poi così male in quel corridoio…
Qualche ora dopo, ero a casa.
Guardai la scrivania. Stavolta non ci fu esitazione. Mi diressi a passo deciso verso il comodino. Primo cassetto, quello in alto. Il diario, penna alla mano… e via!
Per me la scrittura era una forma di anarchia, scoprii, mentre scrivevo… scrivevo… finché la mano non cominciò a dolermi per lo sforzo. Scrivevo febbrilmente, come se le tante parole che mi erano sfuggite fino ad allora mi assalissero ora tutte assieme. Sapevo dentro di me che scrivere, in quel momento, non avrebbe avuto senso se avessi cercato di direzionare quelle parole, di dare loro una forma… Perciò le lasciai andare. Fiduciosa che infine sarebbero arrivate da qualche parte.
Penna! Corri sul foglio! Non ti curare di lasciarmi indietro. Chissà, forse arriverai a destinazione prima di me…