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Autore: Hermione Weasley    06/07/2014    5 recensioni
Mi hanno sparato, pensò incredula, portandosi una mano alla spalla. Il dolore la investì nel momento esatto in cui si accorgeva di avere una freccia conficcata nella carne. Dischiuse le labbra in un'espressione di muto orrore, facendo saettare lo sguardo verso l'alto, ai tetti che incombevano sulla strada.
Un lampo improvviso disegnò nel cielo nero la sagoma di un uomo.
[Clint x Natasha] [Slow Building] [Completa]
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Altri, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Nick Fury
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Let me in the wall
You've built around
We can light a match
And burn it down

(The Civil Wars – Dust to Dust)

 

Il rientro sull'helicarrier era stato più tumultuoso del previsto. Natasha era stata trasportata d'urgenza nella baia medica del velivolo: erano riusciti a stabilizzarla sul quinjet, ma la situazione si era aggravata quando l'atterraggio era ormai imminente.

Clint, fatta eccezione per la disidratazione, la stanchezza, lividi sparsi più o meno ovunque, un paio di punti sulla nuca, non aveva avuto bisogno di grandi attenzioni.

I veri problemi erano arrivati dopo, quando – accorrendo alla piccola sala operatoria di cui il quartier generale volante disponeva – si era accorto che non solo la stanza era presidiata da due nerboruti agenti dello SHIELD, ma che Natasha, priva di sensi, era stata persino ammanettata al tavolo operatorio su cui era stata sistemata.

Aveva inutilmente chiesto spiegazioni, aveva chiamato a gran voce un qualche superiore affinché desse ordine di liberarla, ma tutto quello che aveva ottenuto era di essere rinchiuso in una delle cabine libere dell'area dormitorio. Letteralmente chiuso dentro. Se gli avessero detto che avevano persino buttato la chiave, non se ne sarebbe sorpreso.

Erano passate due ore buone prima che qualcuno si fosse deciso a farsi vivo. Tempo in cui non aveva fatto altro che pensare a quello che era successo, a come si era sentito quando aveva creduto che Natasha l'avesse tradito, a quel bacio (che non significava proprio niente, se ne rendeva perfettamente conto) che l'aveva liberato, al cadavere senza testa, al modo in cui la donna era scoppiata a piangere... tra tutti, era quello il ricordo che più lo tormentava. Fuori controllo, totalmente inconsapevole di se stessa, gli si era come sfaldata tra le braccia. Quando l'aveva trasportata, mentre raggiungevano il punto di ritrovo, aveva avuto l'impressione che se non l'avesse stretta abbastanza, sarebbe andata in mille pezzi. Una sensazione che, suo malgrado, conosceva fin troppo bene.

Se era riuscito ad assopirsi, durò solo per pochi minuti. Risvegliato dal bussare alla sua porta, era stato l'ennesimo mal di testa ad accoglierlo.

“Clint,” la voce di Coulson.

“E' inutile che bussi. Mi hanno chiuso dentro.”

“Lo so.”

Si rimise seduto su quel letto troppo piccolo, mentre la serratura scattava, informandolo che era finalmente libero (forse). Il palesarsi della figura del suo supervisore gli procurò più sollievo di quanto avrebbe voluto ammettere. Erano stati due giorni infernali.

“Come sta?” Si affrettò a chiedergli, sapendo che avrebbe capito di chi stava parlando.

“E' debole, ma si rimetterà,” se non altro Coulson aveva avuto il buon senso di iniziare con le buone notizie. “L'intervento si è concluso con successo. Adesso le stanno facendo delle trasfusioni... ha perso molto sangue.”

Clint si sforzò di metabolizzare la notizia: Natasha stava bene. Non era esattamente al massimo della forma, ma sarebbe sopravvissuta. Non c'era praticamente niente di cui preoccuparsi... o almeno credeva. L'espressione di Coulson, d'altro canto, non prometteva niente di buono.

“Che c'è?” Si risolse a chiedergli.

“Ci sarà un'indagine.”

“Un'indagine?”

“Sul presunto tradimento di Natasha.”

Impallidì mentre cercava di dar senso a quelle parole.

“Natasha non ha tradito.”

“Abbiamo un testimone oculare che dice il contrario.”

“Un testimone oculare? Che cazzo dici, Phil?” Le tempie avevano cominciato a pulsargli fastidiosamente: il nervosismo non avrebbe fatto proprio un bel niente per migliorare quel mal di testa. “Chi dovrebbe essere, ah? Il corrotto dello SHIELD che se la faceva con Shostakov?”

Prese il modo in cui Coulson serrò gravemente le labbra come una conferma.

“Andiamo! Le informazioni che Natasha ha recuperato lo incriminano, e adesso che ha finalmente deciso di parlare per pararsi il culo, avete intenzione di dargli retta?”

“Non è così semplice.”

“Vaffanculo, Phil,” l'imprecazione gli era uscita più astiosamente del previsto. “Se accusate Natasha di tradimento me ne vado.”

 

*

 

Camici e mascherine bianche, il bip-bip-bip dei macchinari...

 

Chi sei?”

Natalia Alianovna Romanova.”

“A chi sei fedele?”

“Alla Red Room.”

“Per chi lavori?”

“Per la Red Room.”

“Chi sei?”

“Natalia Alianovna Romanova.”

 

Aghi e punture sul braccio, l'odore del disinfettante, quello del sangue rappreso...

“Chi eri?”

Non lo so.”

Chi sei?”
Nessuno.”

Per chi lavori?”

Per la Red Room.”

A chi sei fedele?”

Alla Red Room.”

Chi sei?”

“Chiunque.”

 

Un fastidioso ronzio le riempì le orecchie. Lo riconobbe come il rumore che faceva la realtà quando tentava disperatamente di rientrarle nella testa, strapparla dalle braccia dell'incoscienza per riportarla coi piedi per terra. O quasi.

Il terrore la invase nell'esatto momento in cui ebbe riaperto gli occhi senza riconoscere il luogo in cui si trovava. Era una reazione consueta, viscerale, che non sentiva logiche o ragioni. Si sarebbe messa ad urlare se qualcuno non avesse acceso una piccola luce... il direttore Fury aveva appena palesato la sua presenza nella non più tanto oscura infermeria.

Natasha deglutì a vuoto, ricacciando indietro il grido che aveva minacciato di uscire. L'uomo si era alzato dalla sedia che aveva occupato fino a quel momento. Lo vide sparire dal suo campo visivo per ritornarvi poco dopo: le porse una bottiglia di plastica provvista di cannuccia che non esitò ad accettare. Bevve avidamente finché la gola e lo stomaco non cominciarono a farle male.

Il direttore era rimasto in silenzio, limitandosi a riprendere il suo posto e a guardarla. Natasha ricambiò il suo sguardo, non senza difficoltà.

“Sono nei guai?” Si decise a chiedergli, la voce più roca e bassa del solito. Per quanto tempo era rimasta fuoriuso? Quante ore erano passate? Quanti giorni? Che ne era stato di Clint?

“Dipende,” fu la laconica risposta del direttore.

“Da cosa?”

“Da te.”

Natasha trattenne il respiro, strinse i pugni, dimenticandosi di avere ancora la bottiglietta in mano. La plastica scricchiolò sotto la sua presa ancora precaria. Sapeva di essere nei guai fino al collo.

“Qualcuno è disposto a giurare di averti vista proteggere Boris Shostakov da un tentato omicidio.” Fury riprese a parlare pacatamente, ma con decisione. Natasha non poté far altro che annuire: evidentemente c'era stato davvero uno dei pezzi grossi dello SHIELD a quella disgustosa festa.

“Ora... non sono poi così impaziente di credere ciecamente a questa persona, ma...”

“Ma.”

“Ma... se hai compromesso la missione per interessi personali...” lasciò la frase in sospeso.

“L'ho fatto per interessi personali,” si era ritrovata a dire, prima ancora di poter formulare mentalmente una risposta adeguata. “Ma non credo di aver compromesso la missione.”

“Spiegati meglio.”

“La nostra copertura era saltata nel momento esatto in cui siamo entrati in quella villa, signore,” ci tenne a sottolineare. “C'erano dei cecchini a tenere gli invitati sotto tiro. Difficilmente l'attentatore sarebbe riuscito nel suo intento.”

“E hai pensato bene di intervenire?”

“Per guadagnarmi la fiducia di Shostakov,” confermò. “L'ucraino sarebbe morto comunque e Shostakov ne sarebbe uscito illeso in ogni caso.”

“La sua fiducia...” Fury non sembrava particolarmente impressionato da quella spiegazione.

“Volevo aspettare che Alexander Shostakov fosse a disposizione.”

“Per ucciderlo.” Natasha annuì senza aggiungere nient'altro. “Una vendetta personale.”

“L'agente Barton non era a conoscenza delle mie intenzioni,” si affrettò a stabilire.

“Sapevi chi era Shostakov prima di essere assegnata alla missione?” Le scoccò un'occhiata valutativa.

“Lo sapevo, signore.”

“Avresti dovuto informarne il tuo supervisore, Natasha.”

“Lo so.”

“Perché non l'hai fatto?”

“Perché non mi avreste permesso di ucciderli.”

“Meglio chiedere il perdono che il permesso? Non è così che funzionano le cose qui allo SHIELD.”

“Con tutto il dovuto rispetto, signore...,” si strinse nelle spalle. “Dice sempre che una persona può fare qualsiasi cosa, quando si accorge di essere parte di qualcosa di più grande.”

“Se hai seriamente intenzione di usare le mie parole contro di me ti consiglio di ripensarci.”

“Non potevo essere parte dello SHIELD se prima non smettevo di essere parte della Red Room.”

“Quel capitolo era già chiuso.”

“No,” Natasha pronunciò quel secco diniego con una certa urgenza. “Non ho mai smesso di essere un prodotto della Red Room.”

“E adesso?”

“Adesso non più.”

“Cos'è cambiato?”

“Attesa ed azione erano i due momenti di ogni incarico che mi hanno assegnato. Ho aspettato per tutta la mia vita, signore. Ma adesso...” cercò le parole più giuste, improvvisamente in difficoltà, “adesso anche quell'ultima missione si è conclusa.”

“Definitivamente?”

“Definitivamente.”

Il direttore rimase ad osservarla, evidentemente sovrappensiero. Natasha non era sicura di averlo convinto, ma piuttosto certa di averlo fatto incazzare. Fury si era rimesso in piedi, aveva spento la luce e sembrava del tutto intenzionato ad andarsene.

“Che ne è stato della villa?” Natasha si azzardò a chiedere, fermandolo prima che potesse uscire.

“Continuerà a bruciare ancora per giorni, forse settimane.”

“Bene... signore?” Il direttore si era fermato a metà tra la stanza e il corridoio: Natasha poteva a malapena scorgerne il profilo nel buio. “L'agente Barton non ha nessuna colpa.”

“Questa è una novità. Una novità che ho colto, agente Romanoff,” sospirò appena. Fury odiava sentirsi ripetere le cose. “Riposati, domani sarà un lungo giorno.”

L'uomo tornò a confondersi con l'oscurità circostante.

Il sonno non tardò a reclamarla.

 

*

 

Seduto su una delle sedie più dannatamente scomode che avesse mai sperimentato, Clint tamburellava forsennatamente un piede a terra, innervosito dal prolungarsi dell'attesa. Il brusio sommesso e indistinto della conversazione in atto nella sala adiacente, non faceva altro che peggiorare il suo stato d'animo.

Ci erano voluti quattro lunghissimi giorni perché l'indagine sulla missione Shostakov venisse conclusa. Il che non aveva fatto altro che ricordargli quanto esattamente detestasse l'aspetto giuridico-burocratico del suo lavoro. Sia sull'helicarrier che al Triskelion di Washington, gli era stato impedito di avere un qualsiasi contatto con Natasha, nella speranza di cancellare ogni rischio di storie concordate tra gli agenti sotto inchiesta. Non che ci sarebbe stato bisogno di imbastire chi sa che complicata spiegazione: non gli era stato concesso di assistere alla deposizione della donna, ma era piuttosto sicuro che avesse raccontato la verità, nuda e cruda. Quello che lo preoccupava era la totale refrattarietà di certi ambienti alle sfumature. Natasha aveva tradito, ma l'aveva fatto solo per finta. Aveva ucciso i suoi ex-datori di lavoro contravvenendo alle regole dello SHIELD, ma l'aveva fatto perché erano dei maledetti figli di puttana. Ci doveva pur essere un'attenuante, no? Chi, al suo posto, non avrebbe voluto cancellarli dalla faccia della terra?

Tirò fuori dalla tasca della giacca, per la quinta volta, una pallina di gomma trovata casualmente per strada – il gioco di un cane, forse, o di un bambino – facendola rimbalzare sul pavimento, da quello alla parete di fronte, dal muro alla sua mano. Alla terza ripetizione si ricordò perché avesse smesso le prime quattro volte: non aveva avuto grande successo in termini di distrazione.

Quel che era peggio era che l'avevano pure costretto ad indossare degli abiti adeguati a quel particolare contesto. Pantaloni eleganti, una giacca che non avesse l'aria di essere stata rubata da un feretro, una camicia che non somigliasse alla faccia raggrinzita dell'uomo più vecchio del mondo, e una cravatta. Aveva bellamente ignorato quell'ultimo punto, riuscendo ad accozzare tre capi d'abbigliamento che non avevano chiaramente niente a che vedere l'uno con l'altro. C'era stata una mezza idea di presentarsi in pigiama (vale a dire un paio di pantaloni troppo larghi e una t-shirt tutta bucherellata che usava anche per dormire), ma l'aveva scartata: inutile far imbestialire ulteriormente i musi lunghi che stavano decidendo della sorte di Natasha.

La porta si aprì nel momento esatto in cui Clint si era rimesso in piedi, determinato a sgranchire un po' le gambe. Si irrigidì sul posto, guardando mentre una serie di personalità più o meno conosciute sciamavano nel corridoio. Nessuno sembrò far caso a lui, nessuno pareva essere troppo soddisfatto o troppo contrito. Hanno tutti deciso di farsi crescere la faccia da poker, oggi?

Azzardò a rilassarsi un minimo quando Coulson si accodò ad un gruppo di assistenti, già scattati in una folle corsa per raggiungere i rispettivi superiori.

“Phil,” richiamò la sua attenzione con un rapido gesto della mano. “Allora?” Non aspettò neanche che gli fosse sufficientemente vicino per chiederglielo.

“E' andata bene,” il supervisore lo invitò a spostarsi leggermente di lato per permettere alla gente di defluire dalla sala. “Un mese di fermo forzato e poi potrà tornare operativa.”

Clint tirò un brusco sospiro di sollievo. Se non altro non si erano ancora rincitrulliti del tutto!

“Tu piuttosto,” Coulson stava passando in rassegna la sua pessima mise da tribunale, “ti sei fatto prestare i vestiti da un rifugio per senzatetto?”

“Ah ah. Non siamo mica tutti come te, Phil. Scommetto che hai anche un accappatoio a forma di completo elegante.”

“Lo sai, credo che qualcuno dovrebbe inventarlo. Ti senti in vena di una carriera alternativa?”

“No, grazie. Faccio già il cazzone a tempo pieno.”

“Un lavoro ingrato.”

“Che mi dà tante soddisfazioni.”

Un leggero colpo di tosse interruppe quel breve scambio. Natasha, vestita in modo un po' più consono di Clint (non che ci volesse molto), li stava osservando da pochi passi di distanza. Coulson abbozzò un sorriso, dandogli una leggera pacca sulla spalla.

“Ci vediamo più tardi.” Rivolse un cenno di saluto alla donna, dileguandosi subito dopo.

“Ehi,” era stata Natasha a farsi avanti per prima.

“Ehi,” le fece eco, mentre il cervello gli andava completamente in confusione nel tentativo di ricordare cosa dovesse dire e come e perché.

“Ti va di andare a prendere un caffè?” Fu lei a cavarlo da quell'impiccio.

“Certo,” la parola gli era uscita prima che potesse rendersi conto della straordinarietà di quel momento. Dopo mesi di lavoro fianco a fianco, Natasha Romanoff gli aveva esteso un invito: si ripromise di segnarselo sul calendario (e, bè, di comprarsi un calendario).

 

*

 

“Mi dispiace di non averti avvertito.”

Il fumo si alzava dalle tazze, rispettivamente di tè e caffè, che la cameriera aveva appena portato. Natasha non aveva perso tempo: si sarebbe scusata giorni prima se le regole dell'indagine non gliel'avessero impedito. Aver messo Clint in pericolo, tenerlo all'oscuro di ciò che sapeva su Shostakov già da prima di scendere sul campo, era stato l'unico dettaglio degli eventi appena trascorsi che l'aveva fatta sentire in colpa. Detestava quella sensazione, le era estranea: non si era mai fatta grandi problemi a trattare la gente con indifferenza. Nessuno le doveva niente e lei non doveva niente a nessuno. Ma con Clint era tutto diverso: il loro rapporto esulava da qualsiasi tipo di relazione prestabilita che si era voluta concedere col mondo esterno. Le risultava, in un certo senso, ancora incomprensibile.

“Perché non l'hai fatto?” Non suonava arrabbiato, solo... deluso, forse.

“Avevo paura che mi fermassi,” rispose sinceramente, tenendosi occupata con le bustine di zucchero per non doverlo guardare in faccia.

“Ti avrei coperto, lo sai.”

“Lo so,” si costrinse a lanciargli una rapida occhiata. “Non volevo neanche coinvolgerti.”

“Per non mettermi nei guai?”

“Per quello e perché... era una cosa che riguardava soltanto me.” Aveva iniziato con la Red Room da sola, non avrebbe potuto mettervi fine in nessun altro modo.

“Lo capisco.” Il tono incerto l'aveva spinta a guardarlo, guardarlo sul serio adesso.

“Lo so che posso fidarmi di te,” si ritrovò a dire con una certa urgenza. “E' solo che...”

“Che?”

“Mi riesce difficile.”

“Fidarti di me?”

“Fidarmi di chiunque,” lo corresse. “Detesto dover contare sugli altri,” preferiva di gran lunga avere il pieno e incontestato controllo della situazione.

“Ma non sei più sola,” obiettò debolmente, forse pentendosi di averlo detto ad alta voce.

Natasha si limitò ad osservarlo per qualche istante: si era sempre considerata un'ottima giudice di carattere e per quanto scavasse nel suo sguardo alla ricerca di un qualsiasi indizio che le suggerisse che stava mentendo, fu costretta ad ammettere che le sembrava sincero. Che probabilmente lo era.

“Tendo a dimenticarlo.”

“Non devi darmi spiegazioni,” finì col dirle con una leggera alzata di spalle. “Forse sono solo...” fece una breve pausa, alla ricerca della parola più adatta, “prevenuto.”

“Prevenuto,” ripeté, come per accertarsi di aver sentito bene.

“Prevenuto. Mi piace lavorare con te,” ammise, “mi piace lavorare con te più che con chiunque altro.”

“Anche a me piace lavorare con te.”

“Ma preferiresti lavorare da sola,” aggiunse, come a volerle completare la frase.

Natasha valutò la questione per qualche istante, decisa ad essere il più sincera possibile. Non era affatto sicura di poter dare una risposta definitiva, non lì su due piedi comunque.

“Non lo so.”

Rimasero in silenzio per un lunghissimo attimo, ognuno perso nei propri pensieri o a studiare di sfuggita l'altro.

“Non devi necessariamente lasciarti definire da quello che ti è successo,” fu lui il primo a riprendere la parola. “Abbiamo tutti dei segreti... più o meno oscuri o imbarazzanti.”

Gli rivolse un'occhiata perplessa. “Tipo?”

“Tipo...” alzò gli occhi al soffitto, come in cerca di ispirazione. “Tipo che non possiedo completi eleganti.”

“Questo non è un segreto,” protestò, alludendo agli abiti che stava indossando, “e comunque me n'ero accorta.” Bisognava essere ciechi per non averlo fatto.

“Va bene, va bene... ho lavorato al circo.”

“Questo me l'hai detto.”

“Ho un fratello maggiore.”

“Anche.”

“Visto?” Aveva allargato le braccia, un velo di divertimento ad accendergli gli occhi. “Sai già tutto di me, adesso tocca a te.”

“Questo è uno dei tentativi più patetici cui abbia mai assistito.”

“Che importa se è patetico? Basta che funzioni,” decretò con convinzione. Rimase a guardarla, come in attesa di qualcosa. “Sta funzionando?”

Natasha scosse il capo, inspiegabilmente compiaciuta dall'intera situazione. Era vero che conosceva molte più cose di Clint di quante lui ne sapesse sul suo conto, ma che non c'era granché da sapere lo era altrettanto. Conduceva una vita estremamente riservata, quasi del tutto priva di svaghi (e i pochi che aveva – ne era praticamente del tutto certa – l'uomo li avrebbe considerati noiosissimi).

“Cosa vuoi sapere?” Si arrese, bevendo un sorso del suo tè mentre valutava se pentirsi o meno di quell'inaspettata concessione.

“Non lo so. Qual è il tuo film preferito?”

“Non ho un film preferito.”

“Oh andiamo, Nat, così non vale.”

“Non è colpa mia se non ho un film preferito.” Barton aveva il dono di esasperarla, ecco cosa.

“Va bene, allora il tuo libro preferito.”

La morte di Ivan Il'ič.”

“Di che parla?” Non sembrava molto impressionato dal titolo.

“Di un uomo che, in punto di morte, si accorge della falsità della vita.”

“Suona inquietante.” Commentò, prima di mutare impercettibilmente impressione. Si era di nuovo fatto serio. “E' da lì che viene quel, ahm...” stava cercando di ricordare, “la verità non è sempre la stessa cosa per tutti. Ed io nemmeno.” Natasha comprese di essere appena stata citata.

“No,” abbozzò un microscopico sorriso di sorpresa. “Ma è vero, la verità è un punto di vista.”

“Una sfumatura?”

Annuì in risposta, mordendosi leggermente il labbro inferiore, sovrappensiero.

“Non tutto quello che ti ho detto alla villa era falso,” confessò quando ormai il silenzio si era prolungato fin troppo.

“Me ne sono accorto,” allungò un braccio sullo schienale della sua sedia, prendendo tempo. “Te l'ho detto, tutti hanno un lato oscuro.”

“Lo fai suonare come un blockbuster hollywoodiano.”

“Ma è vero,” si sporse in avanti, appoggiando entrambi i gomiti sul tavolo. “Non importa quello che senti quando fai qualcosa... quello che conta è sapersi dominare.”

“Tu non sai dominarti,” si ritrovò a ribattere. La sua spiccata tendenza ad infrangere le disposizioni ricevute era praticamente leggendaria.

“Lo so che non mi so dominare, è per questo che sono un esperto in materia.”

“Oh, un esperto,” sottolineò solennemente.

“Già. Tu in confronto sei capace di gestire qualsiasi cosa.”

“Non è vero.”

“Vorrei sapere come fai a non ignorare o sovvertire gli ordini più stupidi che ti danno. Perché sono sicuro che ne diano anche a te...”

“E io vorrei sapere come fai ad essere così... amichevole.”

“Essere stronzi è troppo faticoso.”

“Essere gentili è troppo faticoso.”

“Credo che dovremmo accettare di non essere d'accordo, allora.”

“Va bene,” si strinse nelle spalle, come a decretare la fine della conversazione. O almeno credeva.

“Chi è... Inessa?”

I muscoli della schiena le si contrassero bruscamente alla domanda di Clint. Tornò a fingere estremo interesse per la sua tazza di tè, ben sapendo che non avrebbe potuto eluderlo per sempre. E d'altro canto erano ormai un paio di giorni che si era resa conto di aver voglia di parlare. Parlare e basta. Forse era stato per colpa di tutto quello spiegarsi in conseguenza della missione, ma si era ritrovata addosso un gran desiderio di dire e spiegare chi fosse. Ma non a chiunque, solo a chi fosse stato in grado di capirla. Di capirla sul serio.

“Una ragazza che ho conosciuto alla Red Room,” riuscì a dire con estrema fatica.

“Una tua amica?”

“Oh, no,” sbuffò una risata tutt'altro che divertita, mentre un nodo le si stringeva alla gola. Rammentava di averla vista morta, sul prato, ma aveva irrazionalmente sperato si fosse trattato di un sogno, un incubo: i ricordi che aveva erano irreparabilmente sfocati e frammentari. “La detestavo. Era la più grande di tutte, la più brava, la preferita di tutti i nostri istruttori.” Si strinse nelle spalle, serrando la presa di entrambe le mani sulla tazza calda.

Non solo era stata la principale responsabile dell'esecuzione di Nadja, ma era anche più o meno risaputo che faceva regolarmente rapporto ad Alexander, rivelandogli piccoli segreti compromettenti scoperti tra le file delle reclute della Red Room. Tutte avevano pagato per quelle involontarie confidenze. “A quanto pare eravamo programmate per suicidarci se le cose si fossero compromesse irrimediabilmente.”

Clint pareva confuso. Lei stessa aveva dovuto trattenere la sorpresa quando Shostakov ne aveva informato il figlio, quello smidollato di Maksim: quella che aveva creduto essere la sua prima vera decisione autonoma, non era altro che un condizionamento imposto a tutte loro.

“Quando ha capito che aveva perso tutto, l'ha fatta finita,” si decise a dire. “Credevo di averli sconfitti una volta per tutte, eppure... sono riusciti a vincere per un'ultima volta.” Odiava Inessa, l'avrebbe volentieri presa a pugni in faccia se gliene fosse stata data l'occasione, ma era stata una vittima tanto quanto lei. Plasmata ad immagine e somiglianza del sicario perfetto. Tutto quello che aveva fatto alla Red Room, il modo in cui si era guadagnata il favore dei loro capi, l'aveva fatto per sopravvivere. Nient'altro.

Rialzò lo sguardo su Clint, come rendendosi conto solo in quell'istante di aver parlato ad alta voce. I suoi occhi, piuttosto che irritarla, per qualche assurdo motivo ebbero l'effetto di pacificarla. Non l'aveva mai raccontato a nessuno. Fu una piccola, colossale conquista.

L'avviso di notifica dei loro cellulari vibrò nell'aria.

“Ah, cazzo, avevo dimenticato che la nomina del secondo di Fury era oggi,” Clint era stato il più veloce.

“Ci vuole vedere subito dopo.”

“L'ennesima lavata di capo?”

“Non ne ho la più pallida idea.”

 
****************




Okay, stavolta il capitolo Shostakov si è concluso davvero :P Nonostante ciò, Fury deve ancora dire la sua... *tremiamo*
Per quanto riguarda il resto non ho granché da dire, a parte che mi piaceva l'idea che alla fine l'aver tenuto Clint all'oscuro sia l'unica cosa che Natasha "rimpiange" di tutta questa faccenda.
Per chi non lo sapesse,
La morte di Ivan Il'ič è un brevissimo romanzo di Tolstoj che consiglio a tutti!
La prossima parte ci porterà verso un capitolo di transizione e poi altri due mini-archi a completare il tutto.
Grazie a chi continua a leggere, commentare e farmi sapere che ne pensa <3 apprezzo tantissimo, lo sapete!
E in particolare all'indefessa Eli :3 as per usual!
Alla prossima!
S.
  
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