Storie originali > Storico
Ricorda la storia  |      
Autore: MadLucy    06/07/2014    5 recensioni
{Periodo Tudor | anni 1537-1554 | Edward Tudor/Jane Grey}
Edward VI Tudor è figlio di Henry VIII e Jane Seymour, unico erede maschio al trono d'Inghilterra. Alla morte di suo padre, ha nove anni e un dovere soverchiante: governare il regno. Orfano, cresce nel ginepraio impossibile delle cospirazioni di palazzo, dei loschi intrighi, dei sotterfugi fraudolenti, senza sapere in chi riporre la propria fiducia, mentre le ombre dei ministri cercano di manovrarlo per i loro scopi; in questa partita le sue sorelle, Mary ed Elizabeth Tudor, sono a loro volta giocatrici e competono l'una con l'altra. Inoltre Edward soffre per la propria cagionevole salute e, riemergendo dalle frequenti convalescenze, assiste con sguardo apatico e rassegnato al destino dell'Inghilterra, incurante del futuro che lo attende. Però tutto cambia quando fa la conoscenza di sua cugina, lady Jane Grey: il loro è un incontro fatale, che rivoluziona l'ambiente della corte e scompiglia la vita del re, fino a suscitare in lui il coraggio d'opporsi e lasciare il segno nella storia. Da Edward ad Elizabeth, le vicende familiari della scandalosa dinastia inglese, nelle sue ultime, tragiche, insanguinate pagine.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Periodo Tudor/Inghilterra
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Edward

La sfioritura della rosa rossa.



Idem per diversa.
Edward VI Tudor's motto.



Di mia madre avevo un ritratto. Non si trovava nelle mie stanze, come quand'ero bambino mi appariva logico dovesse essere: in una sala da cerimonie dispersiva quanto un cortile e inzaccherata d'oro barocco, ch'era aggrappato da ogni parte come un venefico rampicante. Sapeva di freddo, di pagine ammuffite di liturgia, di fiori avvizziti e di ombra. Detestavo andarci. Padre Bresbury dice che Sua Maestà mia madre mi guarda dall'alto e veglia sul mio sonno. Ma non potrebbe farlo più facilmente se fosse di fronte al mio letto? Ero davvero perplesso: un uomo intelligente come mio padre, che conduceva guerre, a cui l'intero popolo inglese affidava la patria, eppure incapace di comprendere qualcosa di così banale. Era fuori discussione che mia madre riuscisse a vedermi, con tutte quelle porte e quei muri di mezzo, figuriamoci a proteggermi da eventuali pericoli. Non ebbi l'ardire di rivelare i miei pensieri al riguardo: le attenzioni che mi venivano rivolte con pervicacia mi resero un bambino timido. Quando ne parlavo con la governante, lei mi diceva che mia madre era in cielo e dal cielo si può vedere chiunque, da qualsiasi parte sia, e che dovevo lasciar perdere il ritratto. Ma non l'ascoltavo. Quell'ammasso di tela e colore era magia, ai miei occhi. Era l'unica prova esistente al mondo che dimostrasse che sì, anche io avevo avuto una madre, molto tempo fa. Perchè, a forza di sentirla nominare solo dalle labbra altrui, avevo iniziato a considerarla la protagonista della mia favola preferita. Era mia madre, quel ritratto.
Lo andavo a rimirare solo se ero di buon umore. Perchè se ero di cattivo umore, cosa che capitava di rado -ma se capitava era spietata ed irreversibile, subito mi sorgeva il pensiero che non me importava nulla che mia madre fosse proprio quella. Era solo un disegno. Avrebbe potuto essere anche diverso. Quella fisionomia rotonda ed affabile, quella collana di minuscole perle coltivate, quelle acconciature bionde e morbide, avrebbero potuto essere quelli di chiunque. Non avevo un buon motivo per amarla. L'amavo perchè mi era stato detto quella è tua madre. Se avessero indicato il dipinto di una contadina, avrei amato quello. Era un'idolatria senza significato, come quella dei bambini per i loro pupazzi di pezza. Il ritratto non poteva scorgermi. Il ritratto non poteva salvarmi.
Fino ai cinque anni, non seppi in quale città abitassi. Non seppi cos'era una città. Conoscevo quello che vedevo, e io vedevo il castello di Windsor. Ero confinato là come un pestifero contagioso. Nulla doveva nuocermi, nessuno poteva sfiorarmi. Il mio mondo bianco. I dottori liquefacevano la realtà con medicine che sapevano di sughero e ferro. Le mie giornate trascorrevano metà in sogno, metà a letto -ad attendere il prossimo sogno. Se mi alzavo, lo facevo per percorrere il corridoio e tornare indietro. I contorni del marmo erano netti e vividi, la luce era come nebbia, mi impediva di respirare. Chiazze di opalescente candore bucherellavano la pareti. Le malattie erano ronzii vaghi ed inspiegabili che sospiravano nelle mie orecchie. Passavano, poi, una alla volta. Io aspettavo e rigiravo le lenzuola nelle mani. La mia infanzia è un'esperienza onirica. Tutti dovevano lavarsi le mani prima e dopo avermi toccato.
Dove abiti? A Windsor castle. E dov'è Windsor castle? Avevo la lingua secca. Mi sembra di essere in una prigione, qui non vi sono gallerie e nemmeno giardini dove passeggiare. Perlomeno, non per me. Mio padre non prese in considerazione le mie lamentele. Lì è al sicuro, lì è in salvo. Lui si cullava in questa certezza, io dormivo in questa gabbia. Volti attorno al mio letto, a debita distanza. Alito di medicina. Le dita che formicolano. La testa che vortica, imbottita di cotone. Qualche passo fievole, l'immensità mostruosa del pavimento, con le sue piastrelle acuminate. Mani pronte ad afferrarmi, nel caso in cui cadessi. Di nuovo il letto, di nuovo il sonno, di nuovo la nausea. Il mio anno aveva stagioni brevi, dai termini labili.
Nei racconti altrui, Jane Seymour non era solo bella, ma anche gentile, saggia ed intelligente. Non mi stupiva che le fosse capitata una disgrazia. A sentire la sua descrizione ineccepibile, sembrava proprio il capro espiatorio perfetto per una fiaba. La regina era bella, gentile, saggia ed intelligente, però... Però era morta. Se le somigliavo? Sì, ma nel peggio. Era Mary la bella della famiglia. Io non avevo nel viso l'imperio dei Tudor, bensì la signorile contea dei Seymour. Non un viso da re. Di Henry VIII, Mary aveva la fredda intelligenza, Elisabeth il fiammante carisma; io niente, io avevo tutta la patetica, bionda mitezza di mia madre, la sua ingenuità di sole, il suo mansueto, innocuo, incorrotto lindore, la sventatezza senza gloria delle anime quiete.
Mary aveva anche quella fiera bellezza, che -se solo l'avesse desiderato- le avrebbe offerto il cuore di qualsiasi lord, ma la mania che le deturpava il viso era quella di Caterina d'Aragona. Nella madre, quella follia era quiescente, sopita, domata da un'educazione rigida ed intransigente, impartitale da uomini che s'erano premurati di cucirle la passione nel cuore, così che essa traspariva, insana e ringhiante, soltanto quando la luna si rifletteva nelle sue iridi offuscate; Mary no, Mary non l'avevano domata, le avevano insegnato a giocare, e quello sarebbe stato l'errore fatale dell'Inghilterra; sapeva schierare le sue pedine con la maestria di qualsiasi cardinale. Era perseguitata da un furore tragico, che sapevo paragonare soltanto alle scabre ninfe di Skopas ed alla cera disciolta delle candele. Un'ombra di scontentezza solcava perennemente quelle labbra carnose, ad indicare i sintomi di un tormento che non avrebbe mai saputo risolvere. A me, da bambino, sembrava che portasse costantemente un severo e dignitoso lutto per qualche personalità insigne. Quando s'infervorava di rabbia, cosa che non accadeva spesso per via del suo tenace autocontrollo, vedevo sul suo volto la furia di Henry Tudor, la furia che aveva spazzato via Paesi e forgiato la politica del nostro tempo, la furia che aveva ucciso tre regine e spanto mari di sangue. Se le avessero dato una spada, avrebbe saputo uccidere. Un giorno molto lontano da quelli che sto raccontando, Mary annunciò radiosa la sua prima gravidanza. In seguito, scoprì che quello che le cresceva dentro non era un bambino, ma un tumore. A quel tempo, io non ero giù più lì, ad assistere alla sua rovina.
Elisabeth era diversa. Aveva i capelli fulvi e il viso allungato: della leggendaria bellezza di Anne Boleyn non c'era traccia. Aveva l'indole di fuoco di Henry Tudor, e fin dalla fanciullezza le istitutrici lo compresero. La sua esuberanza le faceva apprezzare le scampagnate a briglia sciolta, a cavallo, così come i ricevimenti di corte, in cui dimostrava la compita amabilità e la remissiva gentilezza tipiche di una nobildonna, una veste che, invece di andarle stretta, le calzava a pennello. Era versatile come un saltimbanco, con l'eleganza delle trapeziste. Tutti e tre noi fratelli eravamo così, affezionati, ligi e diligenti all'etichetta di corte, e nessuno si lamentò mai delle infinite cerimonie e delle cene di famiglia appestate di burocrazia reale. Eravamo troppo assuefatti a quel clima per immaginare di vivere senza. Elisabeth, comunque, era di certo quella che prediligeva maggiormente i giochi all'aria aperta. Mary era troppo introversa, io troppo indolente: non riuscivamo mai a superarla, quando galoppava davanti a noi, con quel manto di capelli rossi al vento che non tagliò mai, dalla morte di nostro padre.
Crescendo, diventando giovinetta, quest'animo ardente le offuscò a tratti la via. Più acquisiva malizia, più fomentava il desiderio di stemperarla. Invitata a trascorrere del tempo con Catherine Parr, ultima moglie di nostro padre, come dama di compagnia, ebbe una tresca con mio zio Thomas Seymour, fratello della mia defunta madre, un uomo che aveva abbondantemente il doppio della sua età. Non guardava mai i suoi coetanei, Elisabeth: forse vedeva in loro un'immatura adolescenza che lei non percepiva già più. Ma, nonostante le laide voci che giravano su di lei, quando veniva a trovarmi il suo viso era sempre lo stesso, lindo e sorridente, e non diceva mai di no ad una scampagnata a cavallo. Non dico che fosse diventata un'anima libertina: era solo una ragazza a cui piaceva evadere dagli schemi più delle altre. Comunque fosse, nonostante lei sia stata ricordata in seguito come la regina vergine, non potevo dichiararmi d'accordo.
Le mie sorelle mi venivano a trovare più spesso di chiunque. Cenavano con me, s'interessavano della mia salute e dei miei progressi nello studio, imbastivano partite a scacchi. Mary era amabile, ma mi parlava come ad un principe, senza risparmio d'inchini e titoli; Elizabeth mi prendeva in braccio, mi faceva il solletico e diceva ch'ero cresciuto come un fungo. Quand'era con me, si dimenticava il suo ruolo, la sua situazione, le sue battaglie. Acconsentiva sempre a tornare ragazzina.
Ho conosciuto mio padre quando di lui non rimaneva niente, solo voci di un'altra epoca che entravano dalla finestra, un tormento sconosciuto che divorava la sua antica bellezza come i tarli rodono le scarpe dei poveri. La sua maledizione degenerava con lui. Aveva smesso di guardarsi allo specchio e chiamarsi per nome. Viveva al buio, diluendo i ricordi nei boccali di vino, e a volte si dimenticava anche di me. Non poteva farlo per molto, ero il suo unico erede. Mi abbracciava come se temesse di mandarmi in pezzi. Preferiva sorridermi da lontano, come se si considerasse in qualche modo nocivo per la mia persona. Forse era solo stanco. Forse era solo vecchio. Gli volevo bene, ma era un affetto torpido, distratto, quello delle libellule per gli stagni. La profondità che risiedeva in me la dedicai ad altro. Non mi smarrivo in elucubrazioni mentali, non pensavo troppo a me. Anzi, tentavo di farlo il meno possibile. Mi immergevo nelle pozzanghere del giardino, piuttosto, precipitavo nelle fessure del legno. Mi invaghivo delle piccole cose. Degli scatti con cui i fringuelli voltavano il capo, dei pori sulla corolla dei funghi ispidi e marroni, dei percorsi invisibili del muschio in ogni anfratto umido. Passavo ore ad imparare a memoria le spille delle nobildonne, la forma dei cappelli delle duchesse, i mantelli dei lord acciambellati per terra come animali vivi. Ci trovavo un'enciclopedia di significati nascosti, eppure segretamente chiari. Una parte di me capiva qualcosa che non saprei spiegare. Per me aveva perfettamente senso. Cercai di rifarlo, in seguito: affondare nella pelle del tacchino arrosto, nel piumaggio un po' giallastro dei cigni da allevamento, nell'imbottitura antiquata di sedie inutili. Ma la vita, ad un certo punto, divenne troppo rumorosa ed esigente per poterla solo relegare ad una tranquilla scenografia sopita nella sua rappresentazione. Forse non sono stato un bambino di acuta intelligenza, ma certo incline alle distrazioni ed ai vagheggiamenti.
Solo una volta mio padre mi parlò davvero, senza formule, senza etichetta, senza il branco dei cortigiani attorno. Aveva bevuto un po'. Aveva chiesto alla tavolata di lasciarci soli. Io continuavo a riempirmi il bicchiere d'acqua, per avere qualcosa da fare. Ero imbarazzato. Mio padre taceva, scuoteva il vino con dispetto. Sospirava. Infine si raddrizzò contro lo schienale, si schiarì la voce e bofonchiò: -Edward. Edward, ascoltami.-
Io mi allungai sulla mia sedia il più possibile, cercando di carpire le sue parole biascicate fra le labbra.
-Tua madre è morta per darti alla luce. Perciò... sii sempre degno del suo sacrificio, d'accordo?-
Quella specie di richiesta non riuscì a suonare come una minaccia, nè come un ordine. Sembrava appena un tentennamento, una debolezza. D'accordo? Avevo annuito più veloce che potevo, mi scricchiolava tutto il collo. Certo sua Maestà, naturalmente sua Maestà. A volte lo sognai anche in futuro. Lui era lì, su quella poltrona, e mormorava senza posa Edward? Mi ascolti, Edward? Ascoltami. Morì pochi mesi dopo. Si dice che furono i suoi spettri ad assisterlo. Avevo nove anni, e per me quella mattina fu una come tutte le altre. Mangiai le stesse cose e vestii quasi allo stesso modo. Il fiocco di velluto nero che portavo appeso al bavero della giacca s'afflosciò sotto il peso delle prime gocce di pioggia. La scomparsa di mio padre mi causò quasi un sollievo, come se non fosse altro che il termine d'una lunga agonia. La governante mi sussurrò all'orecchio che sarei diventato re, poi mi diede in pasto ai ministri, che mi sballottarono da una parte all'altra, e al funerale e all'incoronazione e al banchetto. Avevo nove anni, e l'unica cosa che pensai fu che avrei potuto tenere la corona in testa. Sembrava divertente. Le mie sorelle erano in prima fila, a osservarmi con gravità, e io sorrisi con agitazione, cercando un conforto. Eppure non riuscivo mai ad incrociare il loro sguardo. Poi capii che stavano fissando il trono su cui ero seduto. Una strana sensazione abbrancò la bocca del mio stomaco.
Finì il tempo delle malattie. Non ero più la bambola di cera sotto una campana di vetro. Cominciarono a vestirmi di granati e smeraldi, a chiamarmi Maestà, a fiutarmi come cani da caccia. Prima non ero nulla, adesso ero la preda. Sembrava che fosse un gioco, in verità: tutti dovevano fingere di ossequiarmi, di rispettarmi, di ascoltarmi e riverirmi, dovevano ostentare questo di facciata, però quando mi voltavo dovevano scombinare completamente la scacchiera -in un modo così abile che io non mi accorgessi nemmeno che qualcosa era cambiato. Io acconsentivo a questa farsa con rassegnazione ed indifferenza. Gli intrighi di corte non mi interessavano, e non li capivo. Li ignoravo, cercando di dimenticare il sordo frastuono del suo alveare, di tenermi impegnato in altro. Non mi importava del trono, non mi importava del regno. Non mi importava nemmeno più di quella corona ch'ero così ansioso di provare sul capo. Non avevo il carattere di Henry, la sua ostinazione. Non m'imponevo mai. Non facevo mai sentire la mia voce. Tacevo. Accondiscendevo. Stetti sul trono per sei anni, e non fui re neppure per un istante.
Al contrario, l'arte militare mi affascinava, forse proprio perchè, a causa della mia debole costituzione, non avrei mai potuto praticarla. Anche da guardare era bella. Era potente. Come io non ero. Tutto ciò che era piaciuto a mio padre piaceva anche a me. Era un modo per sentirlo più vicino, per comprenderlo meglio, nonostante le eterne differenze che ci dividevano.
Elisabeth amava incondizionatamente nostro padre -osannava il suo ricordo fino a distorcerlo, fino a plasmarlo nella sua mente, a rifinirlo togliendogli ogni difetto ed elevandolo all'aureo mondo degli dèi. Mary, invece, provava per lui una sprezzante deferenza, una cortese disapprovazione, che ho sempre paragonato ad un conflitto interiore. Il loro rapporto era un mosaico indistricabile di pozzi neri come il petrolio e stelle di luce iridescente, anni di disdegno e d'abbandono e anni di sorrisi bonari, anni di pomeriggi sprecati ad attenderlo invano in stanze vuote, anni di ricongiungimenti che non sapevano di vittoria, e che comunque non duravano mai abbastanza a lungo. Non so cosa Henry Tudor provasse davvero per lei, e non voglio insuperbirmi al punto di pretendere di poterlo scoprire: nemmeno lui ne aveva idea. La scacciava ed abbracciava al modo del moto delle nuvole, senz'ordine, con la bocca amara e gli occhi asciutti. In Elisabeth cercava Anne Boleyn: in Mary cercava se stesso, un'impresa che non trovò mai il coraggio di portare a termine. Entrambe si ripresero in fretta dalla sua morte. Da allora, ci incontrammo ancora più di frequente. Le mie sorelle erano fanciulle estremamente intelligenti, perciò le loro conversazioni erano perlopiù battibecchi. Che non corresse buon sangue, fra loro, era risaputo da un po'. Il dissapore per motivi religiosi venne più tardi: prima si trattò di argomenti disparati, di semplici incomprensioni, di vecchie gelosie. Era quasi divertente ascoltare l'una ribattere all'altra, ostinate come muli, con lo charme e l'eleganza di vere principesse inglesi, senza mai scomporsi o abbandonare il dolce sorriso di convenzione. Mary era fredda e Elisabeth quasi impertinente, uno spettacolo spassoso per me e i miei lunghi pomeriggi di noia. Vennero molto dopo i tempi in cui dovevo urlare per farle smettere di ringhiarsi contro, in cui dovevo minacciarle di rinchiuderle in prigione tutt'e due se non l'avessero smessa di minacciarsi a vicenda. Vennero dopo i tempi dell'odio -prima non ci fu altro che una Mary vagamente benevola seppur intimamente scostante e una Elisabeth allegra e ciarliera, con la sua irresistibile ironia, e poi c'ero io. Neppure io rimasi lo stesso. Cambiai.
Poi c'era la questione religiosa. Nella mia mente, associavo il cattolicesimo al volto triste, rancoroso ed invecchiato di Caterina d'Aragona, che durante i cortei reali inveiva contro tutti gli inglesi con la sua voce bassa e rauca ed il suo idioma svelto e sferzante, ch'era morta sola e consumata in un castello buio e pieno di spifferi -prima che io nascessi. Nel mio secolo, cattolicesimo significava massacri. Quella religione estranea, intrigante e tanto disprezzata m'ispirava un timore immeritato, eppure intuitivo, che non mi abbandonò col tempo. Non avrei mai tradito il credo di mio padre: questo, almeno questo, glie lo dovevo. Ciò mi attirò l'antipatia di Mary. Nei primi anni della mia vita si era sempre presa cura di me, se ce n'era stato bisogno, mi parlava e mi carezzava i riccioli con le dita: quando divenni re, furono le raffinate formalità di corte a nascondere, come una patina di brina, un ombroso disappunto nei miei confronti, un'inquietudine che si limitava al fatto che ero un miscredente, un protestante. Bramava già il trono per sè? Non ne avevo idea. Era un sospetto troppo ignobile perchè accettassi di prenderlo in considerazione. Mary non era ambiziosa quanto Elisabeth, però la vita l'aveva costretta, per legittima difesa, a diventare calcolatrice. Guardava le persone come pedine, senza volto nè identità, così come le persone avevano guardato lei quand'era bambina. La scelta che feci mi costò la sua amicizia. Lo ritenni un peccato. Inutile chiedersi se, decidendo diversamente, avrei potuto cambiare il corso degli eventi. Quel che si sa è solo quel che è stato. Il resto ha la consistenza dei miei deliri febbrili.
Si chiamava Jane Grey. Aveva solo nove anni quando la vidi la prima volta, io appena uno di meno. Catherine Parr, ultima moglie di mio padre, l'aveva invitata a corte come dama di compagnia. Non so se l'amavo. Mi piaceva il suo dolce riserbo, il suo modo di ridere. Magari mi affascinava l'omonimia con mia madre. Ero ancora troppo piccolo. A pranzo, mi scordavo di mangiare per starla a guardare, tanto che la governante doveva picchiettare ferocemente sulla mia spalla per farmi tornare in me. Quando i nostri sguardi s'incrociavano, Jane arrossiva tutta e mi salutava con la mano. Io andavo a dormire ridendo. Il suo sorriso mi faceva contento. Era una bambina schiva, si nascondeva volentieri dove nessuno poteva trovarla. Ci assomigliavamo, sotto certi punti di vista. Al contrario di me, quando i maestri parlavano Jane pendeva dalle loro labbra. Scribacchiava appunti con una concentrazione che le aggrottava tutta la fronte, china sul foglio, con la schiena storta. Ascoltava lezioni di matematica e greco come fossero favole. Un giorno le scivolò di mano la piuma da scrivere, e con il cuore in gola mi accorsi ch'era la mia occasione. Mi abbassai sulle ginocchia più velocemente di quanto avessi mai fatto e la raccolsi. Jane, dall'alto della sedia, seguiva i miei movimenti con stupore. Quando le porsi la piuma, insieme a qualche parola accatastata all'ultimo momento, questadev'esserevostramialady, mi fece dono della sua gratitudine senza remore.
-Siete molto gentile, vostra grazia.-
Avvampai come se fosse la prima volta che qualcuno mi chiamava così. Quel titolo, sulle sue labbra, assumeva un nuovo significato, un nuovo sapore, una nuova grandezza. L'anno successivo ero re. Jane si trasferì a Whitehall, insieme a Catherine Parr, e lì studiava insieme a Mary ed Elizabeth. Con il pretesto di andare a trovare le mie cugine, mi ci recavo non appena gli impegni reali me lo concedevano. Crescendo Jane si faceva davvero bella. Aveva lunghi, esili riccioli ramati, avvitati su se stessi, una bocca piccola e un collo sottile. Gli occhi erano azzurri, penetranti e molto espressivi, con la tendenza ad inumidirsi spesso. Il petto era lattescente, le mani rosate. Il purpureo velo di pudore, discrezione e discernimento che la schermava la rendeva ancora più graziosa. In mezzo alle mie sorelle, alle sue dame di compagnia, sembrava appartenere ad un'altra specie. Non avevamo molto tempo per vederci, comunque, e quasi mai eravamo soli. Spesso accampavamo come pretesto quello di ripetere una lezione particolarmente difficile. Lei si prendeva gioco della mia pronuncia, che di italiano aveva solo l'intento; ed io non riuscivo ad offendermi, quasi abbacinato dalla strana magia della sua persona. Sorrideva con una grazia così fluida, che la linea tenera delle labbra pareva essere stata disegnata per incurvarsi a quel modo così morbido, melodioso e allo stesso tempo confidenziale e modesto: un modo in cui le mie sorelle non avrebbero mai sorriso. In cui nessuna ragazza al mondo avrebbe sorriso. Le si formavano due fossette nelle guance, quando lo faceva. Amava leggere opere erudite, più di qualsiasi altra cosa. Era sia colta che intelligente, però non faceva notare al suo ascoltatore nessuna delle due cose, e non risultava mai noiosa o saccente o arrogante. Spesso si rincantucciava agli angoli in compagnia di un buon libro, la testa piegata all'ingiù, la copertina premuta sulle ginocchia. Avrei potuto rimirarla in eterno, ma dopo due minuti lei sollevava la testa di scatto, allarmata, come se avesse udito una voce chiamarla, e sorrideva imbarazzata, quasi fosse stata colta in flagrante nel compiere qualcosa di proibito. Scambiavamo poche parole, eppure mi sembrava di conoscerla meglio di chiunque altro. Condividevamo qualcosa di intimo ed inespresso, a cui non sapevo dare un nome.
Jane aveva ormai undici anni quando mio zio Thomas Seymour mi sussurrò all'orecchio: ho chiesto ai genitori la sua tutela, e me l'hanno accordata. Presto sarà tua moglie. Quelle parole mi schiusero le labbra dalla meraviglia. L'idea di sposarla mi appariva terribilmente giusta -perchè questo è quello che un marito dovrebbe sentire per la propria moglie- eppure aliena, come un desiderio che si esprime guardando le stelle cadenti, qualcosa di irriconducibile alla realtà. La prima volta che rividi Jane dopo quella rivelazione, fu strano. Lei bisbigliò prometto che vi darò molti figli, sani e maschi. Io ero sbalordito, e parlai avventatamente, senza nemmeno calibrare la frase, senza pensare.
-Anche delle figlie andranno benissimo. Sicuramente sarebbero belle e delicate come voi.-
Furono mesi fatti di nuvola. Mi svegliavo canticchiando e attendevo con un sorriso raggiante che la giornata trascorresse. Io e Jane parlottavamo di nascosto, pianificavamo i nomi dei futuri principini. Un piccolo Henry, pensavamo, e una piccola Margaret. Intrecciavamo le dita sotto il tavolo da pranzo. Facevamo lunghe passeggiate in giardino, chiacchierando senza sosta; lei prediligeva i temi filosofici, e io adoravo parlare di tutti i posti che non avevo mai visto, ma che avrei tanto voluto visitare. Per spiegarle questa mia passione, posavo un dito sul mappamondo nello studio e lo facevo roteare vorticosamente, indicando questo o quel frammento di terra sconosciuta, con scritto sopra, a minute lettere cubitali, Africa, Cina, Australia.
-Pensa quanto grande è l'universo e quanto poco ne abbiamo visto, pensa quante persone esistono e quanto poche ne abbiamo conosciute. Ovunque qua ci sono foreste, deserti, città che non compaiono nemmeno negli atlanti. Che non possiamo nemmeno immaginare... Vorrei esplorare tutto. Vorrei fare tutto mio. Essere cittadino del mondo intero.-
Jane ascoltava con gli occhi che brillavano. E ci piaceva andare a teatro, anche. Una volta diedi scandalo. Stavamo assistendo ad una rappresentazione, e Jane allungò una mano sfiorando la mia. Quando poi chinò appena la testa per posarla sulla mia spalla -mentre il cuore minacciava semplicemente di esplodermi- le guardie reali scattarono, combinarono un gran trambusto, fecero accendere tutte le luci, interrompere lo spettacolo. Avevano visto dei movimenti sospetti e pensavano volesse uccidermi. Tutto quello che videro furono le nostre mani intrecciate, le nostre guance paonazze e il mio fiato corto. Elizabeth mi prese in giro in eterno. Da allora, raccontava questa storia a tutti gli ospiti in visita, terminandola con un -... vostra grazia stava solo approfittando del favore delle tenebre per divertirsi un po'.- Udendola spifferare la vicenda, provavo allo stesso tempo una gran voglia di ucciderla e un caloroso moto d'affetto. A Mary, Jane non stava simpatica, ma nemmeno l'odiava. Spesso avevano dei dibattiti religiosi: in quelle occasioni, Jane dimostrava una grinta che non avrei mai immaginato celasse in quel corpicino gracile. Teneva testa a Mary in maniera ammirevole, al punto che mia sorella le fece addirittura i complimenti per la sua cultura -a denti stretti, perchè era pur sempre una miscredente, ai suoi occhi.
Quando avevo tredici anni, mi fecero un ritratto. Il ragazzino della tela non era nè biondo, nè riccio: aveva radi capelli bruni e corti. Piccole modifiche atte a farmi sembrare più simile a mio padre. Il viso era pallido e smunto, con un mento pronunciato e un'espressione come impaurita. Mi augurai fortemente di non essere così brutto.
-Che ve ne pare?- domandai affabilmente, sedendomi sul divano accanto ad Elisabeth, ed esaminando a mia volta il dipinto con aria critica. Era strano pensare che quella, così nuova ed estranea ed inconsapevole di me, era l'unica cosa che sarebbe sopravvissuta della mia esistenza; che i posteri, un giorno, avrebbero guardato quell'immagine e avrebbero detto lui era così. Non sapevo se l'idea mi piacesse. Mary aveva inarcato le sopracciglia, con sussiego.
-Vi fa apparire giovane, Vostra Maestà, troppo giovane. Infantile, quasi.-   
-Ma Vostra Maestà è ancora un bambino. Non c'è niente di male se lo sembra.- sogghignò Elisabeth.  
-Non c'è niente di male ad essere giovani.- le feci eco io. -Anzi, magari fosse possibile rimanere così oltre il tempo prestabilito. Saremmo tutti un po' più felici.-
Ad ogni modo, il ritratto fu tenuto. Non c'era modo di chiederne uno più rassomigliante.
Mi ero accorto di una cosa orribile, inoltre. Capitò che la scollatura d'un vestito di Jane, per caso, se ella si piegava in un certo modo, non riuscisse a coprire un grosso livido bluastro. Ciò mi turbò un po', perchè somigliava tanto agli ematomi che Elizabeth si procurava a cavallo, però non le chiesi nulla. Avrei dimostrato molta impertinenza, sarebbe stato come ammettere di aver sbirciato sotto al suo abito. Qualche tempo più tardi, vidi un grosso segno nero contornato di giallo sul suo polso. Questa volta domandai, con noncuranza, come se lo fosse procurato. La vidi impallidire, e compresi che qualcosa non andava. Ci vollero diversi giorni prima che confessasse. Sua madre, lady Frances Brandon, la picchiava. Picchiava quell'indifesa, fragile creatura che si rifugiava nei libri. Picchiava quella ragazzina dai riccioli di rame e gli occhi sempre umidi. Per la prima volta nella mia vita, mi sentii davvero infuriato. Questo non succederà più quando saremo sposati, le promettevo con foga. Se oserà metterti ancora le mani addosso, la farò arrestare.
Ma quel quando non si realizzò mai. Un anno più tardi Thomas Seymour fu arrestato con l'accusa di tradimento e le sue trame andarono in fumo. Jane tornò sotto la tutela dei genitori, e tremavo al pensiero di cosa potessero farle quei vermi. Cominciò l'incubo. Cercai di parlare con John Dudley, mio nuovo consigliere. Ci doveva essere un modo per rimettere le cose a posto. Ero il re, no? Potevo decidere io. Fu la prima volta che mi trovai a pensarlo, e anche l'ultima.
-Tu sposai la figlia di un re scandinavo, Edward.- mi rispose Dudley, con una rudezza quasi annoiata. Quando la mia vita diventava storia, allora sì che non erano solo affari miei.
L'aria nella mia bocca diventò sabbia. Spesso le figlie del re di Danimarca, Svezia e Norvegia erano giunte in visita: fanciulle dal viso di neve, gli occhi azzurri e pungenti come il sole del Nord e piatti capelli di platino strizzati in trecce rigorose come leggi, che a malapena rivolgevano sguardi scontrosi nella mia direzione, per poi accostarsi di più fra loro e borbottare nei loro arcani dialetti dalle vocali spietate e il suono tagliente. All'idea di prendere in moglie una di loro, sentii le ginocchia vacillare dal panico. O Jane o nessuna, dissi a Dudley.
-Queste sono beghe infantili.- ribattè. -Non permetterò che il regno vada di nuovo in rovina per una donna.-
Pensava a Henry, dicendo queste parole, vedeva Anne Boleyn con la corona in capo e la pozza di sangue sempre più vasta. Io mi sentivo folle. Se l'Inghilterra deve bruciare affinchè io possa sposare Jane, l'Inghilterra brucerà. Mi sentivo capace di qualsiasi cosa. Avevo paura di me.
In quei giorni, non riuscii a pensare ad altro. La volevo mia, era un'ossessione che mi tormentava dall'alba a mezzanotte, che mi sbarrava gli occhi nel buio. Il fermento incandescente, inesploso dell'adolescenza si mischiava ai primi sintomi della mia ultima malattia. Alle feste, la testa che follemente girava, la stringevo a me con gelosia, le sfioravo il collo con le labbra, e sentivo l'incendio nella carne. La corte sparlava, io udivo solo la mia pira ruggire nelle orecchie.
Jane amava i libri da sempre, ma solo un giorno trovai il coraggio di chiederle cosa leggesse.
-È un'opera di filosofia greca di nome Fedone.- spiegò. -Parla di un uomo che trascorre la sua ultima giornata di vita e riflette su ciò che lo aspetta.-                  -Sembra bello,- mormorai, -e triste.-        
-Cosa ne sarà di noi, Edward?-    
Era la prima volta che mi chiamava così, ed io rabbrividii. 
-Non tutto è perduto, lady Jane.-  
Non rispose. Volevo asciugare la sua malinconia con un fazzoletto da taschino, volevo risolvere i suoi guai con le mie stesse mani, scacciare i suoi spettri e proteggere il suo sonno. Vederla soffrire e non poterla consolare mi mandava in bestia. Ero sempre più malato, sempre più arrabbiato, consumavo le giornate a morsi e le inghiottivo boccheggiando, esaurivo le mie forze gridando come non avevo mai fatto, pestando i piedi e sputando per terra, percuotendo il marmo e alzando le tasse. Jane stava male, io stavo male, il mondo tremava.
Ad un certo punto, mi guardai allo specchio e sussultai. Cosa stavo facendo? Ricadevo negli errori dei miei avi, come nelle leggende moraleggianti dei preti. Avevo cominciato a pensare a Jane come ad un possesso, a tentare unicamente d'appagare la mia volontà, cancellando il mondo intero, zittendo la ragione. Io non ero Henry, anche se per qualche tempo il sangue mi aveva offuscato lo sguardo. Guardai la realtà con occhi d'estraneo e appresi tutto in un attimo. La verità franò irreparabile sotto i miei piedi. Stavo deviando dal sentiero sterrato per inerpicarmi su rocce scoscese, in attesa di precipitare, stavo commettendo imprudenze giovanili. Ma fu John Dudley a risolvere il quesito, a capitolare e far tornare tutti i conti, a spegnere ogni spietata speranza.
-Tu stai morendo, Edward.- mi disse, senza un pizzico di commiserazione. -Che futuro darai a Jane? Vuoi renderla vedova a tre mesi dal matrimonio? Vuoi piantarle in pancia un bambino che soffocheranno nella culla? Risparmiale tutta questa sofferenza, lo dico per voi.-
Chiusi gli occhi. Era vero. Era tutto vero. Nel vortice della mia passione egoista avevo perso di vista la priorità, il bene di Jane. Così vero che non riuscivo a credere in cosa la mia vita si fosse trasformata, da banale, noiosa quotidianità scandita da riti e abitudini a questo. Quando capii di stare rinunciando a Jane, mi sentii come se il mio cuore annaspasse nella cenere. Era la cosa migliore da fare. Era la cosa migliore, ma quelle erano parole e non mi impedirono di piangere.
Sposò un altro, Jane Grey. I suoi genitori avevano fretta di trovarle marito. Dudley propose un matrimonio fra lei e suo figlio, Guilford, e io non trovai nulla da ridire. Lo conoscevo vagamente, un ragazzo tranquillo e insicuro di sè, che non beveva e non frequentava le taverne, un tipo a posto. Un uomo che non l'avrebbe mai picchiata. In compenso, ci pensò sempre sua madre.
Poco prima che andasse all'altare, gli sussurrai: -Abbi cura di lei. È la cosa più preziosa della mia vita.- Mi lanciò un'occhiata atterrita, forse temeva rivalse da parte mia.
Eppure, a Jane non andava per nulla bene. Vestì l'abito bianco, partecipò alla cerimonia, tacque per tutto il tempo e schiuse le labbra solo per dire sì, ma quella sera si fece scortare dalle sue damigelle in un'altra stanza e dormì sola, involta fra le lenzuola, barricata fra le coperte. E così fece per molte altre notti che seguirono. Ogni giorno tornava a corte, da me, a implorarmi di annullare quel matrimonio.
Mi si spezzava il cuore, eppure mi costringevo ad essere forte per lei. Volevo esserle di conforto, non devastarla ulteriormente. Non avrebbe mai visto il mio dolore, la mia amarezza, decisi. Per cui sorrisi, saldo, imperterrito. Doveva farlo, le ripetevo, era suo dovere. Era fortunata a stare con uno come Guilford, che pazientava e rispettava il suo volere. Un altro, più vecchio e più presuntuoso, l'avrebbe buttata per terra e le avrebbe aperto le gambe senza troppi complimenti. Anche se adesso non le sembrava così, in realtà lei voleva questo -un matrimonio conveniente con un esponente d'alto rango, un marito, dei figli- e, se ora vi avesse rinunciato, in futuro se ne sarebbe pentita. Il mio tempo era quasi scaduto, in fondo. Ma Jane dava sempre la stessa risposta, con la neutralità vitrea d'una sfinge.
-No, non voglio.- No, non voglio, ogni sera lo diceva, forte d'un rinnovato coraggio che non sapevo dove trovasse. Ed ogni mattina sua madre la veniva a trovare, per controllare, e ogni mattina Jane aveva un livido nuovo. Stava diventando una sagoma ritorta su se stessa, il viso sempre più gonfio e viola, l'espressione della bocca sempre più inasprita. Io morivo giornalmente, come lei. Arrivai a supplicarla, a piangere.
-Ti prego, Jane, basta. Fallo. Fa' quello che vogliono. Smettila di opporti. Quella donna ti ucciderà.- A gettarmi ai suoi piedi affinchè si concedesse ad un altro uomo. Mi chiedevo se quel dolore un giorno avrebbe avuto fine, e non capivo come avrebbe potuto. Jane e Guilford consumarono il matrimonio un mese dopo le nozze. Tirai un sospiro di sollievo, perchè significava che i suoi lividi avrebbero potuto cominciare a guarire. Jane piangeva in silenzio. La sua sofferenza mi faceva impazzire, mi sarei volentieri roso le falangi con i denti.
La mia malattia peggiorò progressivamente, giorno per giorno. I medici diagnosticarono tubercolosi, e ormai passavo le mie giornate a letto, di nuovo tornato a quello stadio infantile e tanto assuefante -consapevolezza ed incoscienza intermittenti, senza troppa differenza fra uno stadio e l'altro. Jane, quando le era possibile, veniva a leggermi qualcosa: aveva degli orari da rispettare, era una donna sposata, ora. Se anche prese atto della gravità delle mie condizioni -e sicuramente era così, perchè lei era un'osservatrice acuta- non lo diede a vedere. Sfogliava quei suoi libri di filosofia. Nemmeno una parola mi raggiungeva, però mi beavo ascoltando la melodia della sua voce e ciò bastava a condurmi in un sogno senza dolore. Un giorno, sul punto di andarsene, mi uccise. Fece così: si alzò dalla seggiola dov'era seduta, strinse il libro in grembo, si chinò vicino al mio orecchio e sussurrò: Ti stai rimettendo. Domani starai molto meglio. Avrei voluto piangere, ma ero disidratato. Finsi di dormire per non urlare.
Incombette il momento di dettare il testamento. Non ci avevo nemmeno pensato, con tutto quello ch'era successo. De iure, non c'erano dubbi su chi avrebbe dovuto succedermi... L'immagine della corona foderata di velluto rosso adagiata sui riccioli di Mary Tudor mi faceva accapponare la pelle. Era una fanciulla colta ed intelligente, ma io sapevo fino a che punto perdesse la testa quando si trattava di religione. Per diffondere la propria fede, era disposta a qualsiasi follia -e non mi sentivo nemmeno in diritto di giudicarla. Certo, Mary avrebbe dovuto diventare regina. Però... Il re ero ancora io. Non per molto, ma per un tempo sufficiente a nominare chi mi pareva adeguato. A fare la scelta migliore per il regno. Mary lo era?
No, l'Inghilterra aveva bisogno d'una regina gentile, dal sorriso senza spigoli, dalla fanciullezza sulle gote. D'una regina che il popolo non si vergognasse d'amare. L'immagine che venne proiettata nella mia mente ottenebrata dalla febbre fu inesplicabile: e, nei miei sogni imbrattati di rosso, dai margini malcerti, il viso di Jane si sovrapponeva confusamente a quello del quadro di mia madre, senza che riuscissi più a distinguerne i lineamenti. Il germe di quell'assurdo pensiero ormai era stato inoculato nel mio cuore, che prese a battere più freneticamente. Jane era mia cugina, nipote della sorella di Henry, e il sangue nelle sue vene era in parte Tudor -un sangue che non perdona. Aveva ricevuto una formazione classica di tutto rispetto e aveva studiato il latino, il greco, l'ebraico e l'italiano. Era dolce, ma allo stesso tempo forte, lo aveva dimostrato più volte; sarebbe stata magnanima, però allo stesso tempo capace di farsi rispettare. Aveva il sorriso gentile delle benefattrici e la saggezza di una donna molto più vecchia. Magari Jane non avrebbe potuto essere la mia regina... però ciò non escludeva che potesse essere semplicemente la regina.
L'idea mi folgorò come un ultimo ardore di gioventù. Lasciare in eredità a Jane il dono più grandioso che si possa mai offrire... Il mio cuore, così debole e stremato, era cosa da poco. Lei meritava di meglio. Mi sentii invadere da un'inaspettata energia positiva. Tutti cercavano di confondermi, di approfittarsi della mia inesperienza, di propinarmi il loro tornaconto personale in veste di consiglio, ma quella era la mia storia. E io la potevo cambiare.
Quando lo rivelai a Dudley, lui sospirò faticosamente. Infine mi guardò.
-Perchè la vuoi sul trono?-
La voce mi uscì dalle labbra forte e chiara, come non mai. -Perchè la amo.-
-Se la ami, non dovresti volerla sul trono.-
Non l'ascoltai. I giovani non ascoltano mai, ed io ero giovane -giovane, infatuato e moribondo. Il destino non mi perdonò nessuna di queste condizioni.
Non potevo permettermi di morire prima di portare a temine questo progetto, e non avevo tempo da perdere. La fronte paonazza grondava sudore al punto che, se non vi avessi premuto una pezza, avrebbe infradiciato il foglio, e io intinsi la piuma nell'inchiostro con mano tremante per lo sforzo. Tracciai di mio pugno il testamento che cedeva l'Inghilterra a Jane Grey, posi in fondo la mia firma e rimasi ad ammirare il mio operato. Con un po' di fortuna, quello sarebbe stato il gesto più significativo che io avessi mai compiuto per il regno, e per questo mi avrebbero ricordato, per aver trasmesso il trono alla grande regina Jane. Amarla sarebbe stato il motivo della mia piccola gloria personale. Quel pensiero mi rendeva felice.
Due giorni prima di morire, la feci chiamare nei miei appartamenti. Jane entrò nella camera, e le fu sufficiente rivolgermi uno sguardo insospettito per comprendere il perchè della sua convocazione. Giacevo su un letto dalle coperte rosse come il sangue e su un guanciale bianco come la neve. Ero così gracile e debilitato da sparire fra le coperte, che sembravano avermi inghiottito. Il mio viso era rigato dal sudore, i boccoli umidi erano incollati alle tempie e puzzavo già di morte. Jane invece era bellissima, con una reticella per capelli d'argento tempestata di ametiste nere, con un corsetto di damascata sera azzurra.
-Edward, dimmi che non è vero.-
Scossi debolmente il capo, ma non per negare l'evidenza, come lei avrebbe desiderato. Non era su questo che volevo ci soffermassimo a discutere.
-Adesso devi solo ascoltarmi fino alla fine. Mi hanno chiesto di eleggere il mio successore, e l'ho fatto.-
Jane si morse il labbro inferiore, inspirando per ricacciare indietro le lacrime. -Mary o Elizabeth?-
Le sorrisi amabilmente, giulivo. -Hai un portamento così fiero, un capo così nobile. La corona ti starà d'incanto. È un peccato che non possa esserci per vederti.-
Osservai la sua reazione, il suo progressivo orrore, mentre recepiva sconvolta le mie parole.
-Oh, no. Scordatelo.-
-Ho già preso la mia decisione.- la interruppi con calma e fermezza.
Era indignata, quasi indispettita. -Non puoi farlo.-
-Come no? L'ho già fatto.- Indicai con un cenno la pergamena sigillata con la ceralacca reale, e lei seguì il movimento con lo sguardo, devastata.
-Devi bruciarlo immediatamente.- sibilò. Gli occhi le si offuscarono, e la patina si sciolse in grosse lacrime rade. -Non posso, Edward. Non posso. Quello sei tu, non io. Tu sei il re...-
-Per poche ore ancora. Poi lo farai tu al posto mio. Così sarà come se lo facessimo insieme.-
Continuava a scuotere la testa, automaticamente.
-È Mary la tua legittima erede. E se lei non ti va a genio perchè è cattolica, nomina Elizabeth.-
-Tu sei l'unica di cui io mi fidi veramente. Il nostro regno ha bisogno di te... Promettimi che lo farai per me, Jane. Promettimi che ti prenderai cura dell'Inghilterra, quando io non ci sarò più.-
-Come posso prometterlo?-
-Non avrei mai preso questa decisione, se avessi pensato che non ne sei in grado. Jane, scusa, vorrei chiederti una cosa. Volevo chiederti se... se tu mi potessi... baciare.-
Rimase per qualche istante attonita, come se la situazione le apparisse ancora più irreale di quanto non lo fosse già, infine scoppiò in una risata disperata ma piena di gusto.
-Oh, Edward,- biascicò quando riuscì a darsi un contegno. -È una richiesta così... fuori luogo!-
Distolsi lo sguardo, mortificato. L'eventualità che lei rifiutasse nella mia mente non l'avevo mai calcolata. -Perdonami per la mia sfacciataggine. Non avrei-
-Beh, allora lo farò, o almeno se non entrerà uno stuolo di soldati puntandomi la spada alla gola, perchè ti sto soffocando.-
La mia risata flebile s'unì alla sua. Mi guardò negli occhi, e per qualche secondo mi mancò il coraggio. Avvertivo le ossa sciogliersi e il cervello scottare. Andavo per i sedici anni, e non avevo mai toccato una ragazza. Alla stessa età, mio padre si dava alla pazza gioia con tutte le fanciulle più graziose di corte; se soltanto l'avessi ordinato, avrei potuto cambiarne dieci per notte. Ma non volevo. Non mi piaceva svelarmi agli altri, condividere cose importanti con persone che non lo erano altrettanto. Davo valore a ciò che per un re, che per un uomo è fin troppo facile ottenere. Ciò che è gratuito non ha mai valore. Il sesso si vendeva, si comprava, era conio nelle ombre dei sotterfugi di corte, in un vile baratto di cuori e corpi. Era uno scempio che mi disgustava. Una ragazza che non fosse Jane non mi avrebbe dato nulla. Come le mie sorelle, nascondevo ciò che ero agli occhi del mondo, nella speranza che così la mia natura più intima e recondita non venisse mai profanata dalla crudeltà di un ruolo irrevocabile. Ma, tralasciando tutta questa strappalacrime e artificiosa retorica, in due parole ero imbranato.
Non sapevo nemmeno da che parte iniziare, ma Jane fu paziente. Con una mano mi sollevò la nuca intrisa di sudore dal cuscino; aveva un marito, e le sue labbra non esitarono nello sfiorare le mie. Erano lisce e gonfie come lamponi. Il sangue mi schizzò alla testa, insieme a mille impulsi selvatici di cui ignoravo l'esistenza. Fu il primo e l'ultimo bacio che diedi nella mia vita. Casto, lieve, a causa mia persino goffo. Un bacio da bambini.
Sorrisi piano e tossicchiai. -Platone... cosa dice che succederà alla mia anima?-
Lei rispose al sorriso fra le lacrime, che mi cadevano sulle guance come stille di pioggia. -Che salirà all'Iperuranio e contemplerà il Bene e Bello per l'eternità.-
Una prospettiva confortante. -Ed è vero?-
-Solo se ci credi.- Jane mi carezzò i capelli bagnati, premendo la fronte sulla mia. -Portami via con te.- bisbigliò impercettibilmente contro la mia bocca. L'idea mi fece venire freddo. O forse era la tubercolosi. O forse il veleno che presumibilmente mi era stato somministrato.
-Non se ne parla. Tu devi vivere. Tu devi regnare.-
Strinsi fra le dita per l'ultima volta un ricciolo della sua superba chioma di rame, trassi a me con tutte le forze che mi restavano il profumo del suo collo d'alabastro. Poi le dissi addio.
-Sorridimi, Jane. Sorridimi.- mormorai. Quello che vidi era il suo sorriso più triste, però erano comparse quelle fossette, e mi sentii in pace con me stesso come l'estrema unzione non mi avrebbe mai fatto sentire. Uscì dalla stanza con discrezione, chiudendo piano la porta. Il rumore della maniglia che cigolava fu l'ultima cosa che afferrai di lei, l'ultimo segno della sua esistenza, e mi tuonò in testa per ore. Le avevo strappato un bacio ed un sorriso, e l'avevo mandata via, ad attendere d'essere incoronata.
La verità è che non intuii la verità in tempo. Non capii, non volli capire. Non potei capire. Non potei immaginare.
Elisabeth venne a trovarmi quando ormai non ricordavo più nemmeno il mio nome. La consunzione masticava il mio corpo da dentro, per mesi l'aveva fatto. Il logorio delle funzioni vitali che si spengono impegnava tutta la mia attenzione. Aprivo e chiudevo la bocca senza dire nulla, mi sporcavo il mento di rivoli di sangue. Quel che restava della mia famiglia mi fissava contrita. Elisabeth aveva perso la grazia dopo i vent'anni, le ossa sporgevano contundenti dal viso lungo e dalle braccia bianche. I capelli s'erano fatti stopposi anzichè ricci. Avrebbe avuto lo stesso una miriade di pretendenti, se solo non avesse amato l'indipendenza e non avesse scoperto d'essere sterile.
-Edward, ma cosa hai fatto?- Non mi giunse gli significato delle sue tristi parole. Cercai di sorriderle, ma riuscii solo a stirare una smorfia rossastra. Forse lei provava pietà per quel fratellino con cui aveva trascorso i pomeriggi, correndo e giocando; forse se n'era dimenticata. Il re malaticcio si leva dai piedi. Non voglio sapere s'era questo che pensava. Mary non venne. Se anche l'avesse fatto, non l'avrei ricevuta. Mi avrebbe squartato con le sue stesse unghie, e io volevo morire in completo rilassamento.
Avrei dovuto aspettarmelo, fui sciocco proprio come un ragazzino di quindici anni. Il mio testamento dimostrava che della corte inglese non avevo capito assolutamente niente. Come potevo davvero credere che fosse una persona a salire sul trono? Vi saliva un nome, un rango, un sesso, un prestigio, una medaglia, una fama, un patrimonio. Un involucro di opinioni e titoli. Quando mai a farlo era una persona? Quando mai Jane avrebbe potuto esprimere la sua intelligenza o la sua benevolenza? Quando mai le sarebbe stata data un'opportunità? Il mio decreto era vento, foglie secche, carta straccia. Una volta morto, non avrei potuto recriminare nulla. Una volta morto, tutto quello che mi riguardava crollava nell'insignificante. E così Jane. In fondo tutte le fiabe iniziano così, no? La regina era bella, gentile, saggia ed intelligente. Però...
In seguito, la chiamarono Jane Dei Nove Giorni. Nove giorni. Questa fu precisamente la durata del suo regno. Radunato un esercito di alleati cattolici, Mary marciò su Londra. La tennero per otto mesi prigioniera in una torre, poi me la uccisero decapitandola, sullo stesso patibolo dov'era morta Anne Boleyn, Catherine Howard, Thomas Cromwell e tutte le vittime innocenti colpevoli d'essersi imbattute in mio padre. Jane aveva la colpa d'essersi imbattuta in me. Forse io e Henry non fummo poi così diversi come pensavo, entrambi condannati dalla maledizione dei Tudor -rigettare tutto il male che il mondo vuole farci contro coloro che amiamo. Jane chiese al boia, con affettata cortesia, di fare in fretta, se era possibile. Pianse perchè, con gli occhi bendati, non sapeva dove appoggiare la testa per farsela staccare dal collo. Devo averle trasmesso la sentenza letale baciandola. Probabilmente la persona che durante la vita di Jane le causò meno dolore fu quella che l'aiutò a morire. Giustiziarono lei, suo marito e suo padre. Mary era molto rattristata dall'accaduto, ma in fondo quelli erano miscredenti e traditori, no? La madre si risposò due settimane dopo la decapitazione dei familiari. Edward, ma cosa hai fatto?
Mary si sposò con Filippo II, re di Spagna, ma -nonostante il suo femminile servilismo, nonostante la sua commovente dedizione- le donne di potere non sono destinate ad essere brave mogli. Lui la trattò sempre con grande freddezza, e l'astio si accentuò con il passare del tempo, poichè Mary non gli aveva dato figli. Lei morì presto, il suo regno fu ancora più breve del mio. Elizabeth passò alla storia, com'era giusto che fosse. Se non potrò mai essere madre, saranno tutti i cittadini dell'Inghilterra i miei figli. Di me è rimasto un ritratto in cui sembro infantile, quasi. Di Jane è rimasto un fregio nella Supreme Court di Londra, la ritrae mentre sorride a quella corona che le fecero accettare a suon di schiaffi. Di noi non è rimasto niente. Del mio delitto, della sua paura, della nostra storia. Niente, niente di niente. A volte ad Elizabeth, quando si sveglia scuotendosi di dosso brandelli di ricordi, in cui compaiono un adolescente efebico dai riccioli biondi e una ragazzina che singhiozza su un patibolo lordo di sangue, pare che sia stato solo un sogno. Ma, nel centro della sala dei ricevimenti di corte, quei due stessi bambini ballano ancora con le palme delle mani congiunte, al ritmo d'un coro di flauti dolci -trovando sottovoce un compresso sui nomi dei loro figli.


































Note dell'Autrice: E questo è tutto. u.u Immagino che pochi lettori abbiano sentito parlare di Edward. Nei libri di storia si studia Elisabeth, a volte Mary viene nominata, ma lui è proprio snobbato, perchè dal punto di vista storico non ha fatto nulla di eccezionale. Però è stato re, ha avuto una vita, dei sogni e delle speranze -a cui io ho cercato di dare un'interpretazione personale. Era un ragazzino, insomma, sulle cui spalle gravavano fin dall'infanzia grandi aspettative e la cui salute era sempre cagionevole.
La relazione con Jane Grey è una mia elucubrazione mentale, un mio headcanon XD Per il resto, ho cercato di attenermi il più possibile alle informazioni che mi sono procurata sull'argomento, tenendo conto che nessuna ricostruzione storica potrà mai ricreare con assoluta fedeltà la realtà dei fatti. Nessuno dei personaggi è di fantasia.
Spero di avere reso un po' di giustizia a figure trascurate come quelle di Jane ed Edward, perchè questo era il mio scopo. Sarei molto felice di sapere cosa ne pensate sull'argomento in generale, e sulla mia storia in particolare.
Grazie mille per aver letto fin qui! ^-^
Lucy
  
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: MadLucy