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Autore: ilovebooks3    07/07/2014    2 recensioni
La storia ripercorre l'episodio 6x22, raccontato dal punto di vista dei due protagonisti.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Patrick Jane, Teresa Lisbon | Coppie: Jane/Lisbon
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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“Say it again.” (T. Lisbon)
 
Sono seduta su una scomodissima sedia in sala d’attesa. Mi hanno detto che potrò vedere Jane dopo che avrà passato dodici ore in isolamento.
E’ il minimo che si merita quell’incorreggibile combinaguai. Gli farà bene.
Dopodiché, se risulterà pulito e se qualcuno dell’FBI garantirà per lui, forse potranno prendere in considerazione l’ipotesi di rilasciarlo.
Io non ho intenzione di fare nulla. Vista la mia posizione, non mi ascolterebbero. Non hanno neanche capito che lavoro per l’FBI. Qui sono solo la donna del 12B.
Non ho nemmeno intenzione di chiamare Abbot. Non saprei come spiegare tutto questo. E Jane non si merita che gli semplifichi la vita. Se la dovrà vedere da solo, stavolta. Sarà divertente vedere cosa si inventerà. E’ un irresponsabile. Ha fatto un bel casino e sono sicura che lui nemmeno se ne rende conto. Come sempre.
Che poi io sia felicissima di questo casino, è tutta un’altra storia.
Gli agenti mi hanno suggerito di andare in un albergo vicino a passare la notte, ma non ne ho la minima intenzione. Jane è qui. Voglio stare qui.
Lo so, è un discorso un po’ infantile. Anche se non ho intenzione di aiutarlo, non lo abbandonerò. Non l’ho mai fatto. E poi l’attesa non sarà lunga, alcune ore sono già passate tra scartoffie e burocrazia.
Vorrei specificare a tutto il dipartimento della TSA che il pazzoide che hanno arrestato non è affatto “il mio ragazzo”. Concetto che avevo dovuto chiarire ad Abbot più di una volta.
Devo ammettere, però, che suona bene. Mio malgrado sorrido. Forse lo diventerà per davvero.
No, un attimo. Il mio ragazzo, fino a qualche ora fa, era Marcus. Tecnicamente lo è ancora.
O mio dio. Mi sono completamente dimenticata di lui. Non è da me, io mi preoccupo delle persone.
Sbuffo. E’ tutta colpa di quel mentalista da strapazzo.
Devo chiamare Marcus. Mi starà aspettando in aeroporto. Devo spiegargli molte cose. Non sarà facile.
Ora che mi è tornato in mente, mi sento terribilmente in colpa.
Vorrei che nessuno soffrisse in questo mondo, e tanto meno vorrei esserne io la causa. Santa Teresa, mi chiamavano sul lavoro. Io non faccio soffrire la gente, di solito. La conforto e restituisco loro qualche certezza arrestando i colpevoli.
Qui la colpevole sono io.
Colpevole fino a un certo punto, però. Sono sicura che Marcus troverà una moglie molto migliore di me. Una donna remissiva che adora i pancake e i ristoranti di Washington. Tutto sommato, gli ho fatto un favore.
Non ho nessuna voglia di chiamarlo. Ma devo farlo. E’ il mio senso della giustizia a impormelo. Non voglio essere contagiata dalla disonestà di Jane. Anche se, a guardare bene, nemmeno in lui ce n’è poi così tanta come sembra. Malgrado quello che lui crede. Malgrado quello che gli ho detto in albergo.
Compongo il numero di cellulare del mio ex futuro sposo. Questa è la parte più difficile. Decidere di scendere dall’aereo, in confronto, è stata una passeggiata.
«Ciao Marcus».
«Teresa, tesoro. Perché mi chiami? Secondo i miei calcoli stai per atterrare. Sono in aeroporto, agli arrivi. Sul cartellone c’è scritto che l’aereo dovrebbe arrivare tra cinque minuti. Non ti hanno mai detto che i telefonini vanno spenti in fase di atterraggio?». La sua voce contiene un bonario rimprovero che suona abbastanza soffocante. Mi manca l’aria.
«Marcus…». Non riesco a proseguire.
«Teresa, ho prenotato un tavolo in un ristorante giapponese. Ho pensato che ti facesse piacere. Quando arrivi, andiamo subito a cena, va bene? Poi ti porto a casa mia e ci vediamo un bel film».
Oddio. Tutto programmato nei minimi dettagli. Anche la mia vita con lui sarebbe stata così. Che noia. Come ho fatto a poter pensare di desiderarla? Vorrei che qualcun altro mi chiamasse “tesoro” e sorrido all’eventualità, nemmeno troppo remota, che accada. Ora, però, concentriamoci. «Marcus, aspetta. Non sono salita su quell’aereo». Ho lanciato la bomba. Ora aspetto la sua reazione.
«Ah, eri in ritardo? Strano, sei puntualissima, di solito. Quando ci siamo sentiti mi sembrava fossi in perfetto orario. E ho visto che l’aereo è partito all’ora giusta». Tutto sotto controllo, come sempre.
«Sì, ero molto in ritardo. Ma l’importante è rimediare», abbasso la voce, più che altro sto parlando tra me e me. Mi sto riferendo a tutt’altra cosa, ma lui non può saperlo. Lui non è un mentalista.
Sorrido involontariamente. Sono davvero una cattiva persona. Gioisco nel procurare dolore agli altri. Ma non posso farci niente. Non posso fare a meno di sorridere ogni volta che penso a quello che è successo su quell’aereo. A quella manciata di minuti che hanno rivoluzionato la mia vita. Come sempre sono il burattino di Jane ma, in effetti, non è poi così spiacevole.
Torno seria. Mi costa davvero dire quello che sto per dire a un brav’uomo come Pike; un uomo che ha avuto solo la sfortuna di innamorarsi della persona sbagliata. Una persona, ora lo posso ammettere, il cui cuore era già occupato da molto, molto tempo.
«Allora dovrò ritardare la prenotazione. Peccato, non so se più tardi avranno un tavolo disponibile. A che ora arrivi? Quale volo prendi?», incalza.
Non posso credere che Marcus non sappia pensare ad altro che al cibo. E non ha ancora capito che preferisco la cucina italiana.
Jane, tanto tempo fa, mi aveva detto che non avrebbe mai cercato di sedurmi con il cibo. Aveva scherzato, eppure ero rimasta interdetta.
Basta pensare a Jane, ci penserò dopo. Ora devo rimediare il casino che ho combinato. Forza Teresa, comportati come la persona matura che sei.
Sto un attimo in silenzio. Poi lancio la seconda bomba. «Nessuno».
«Come scusa, Teresa? Non ho capito. Quando arrivi?».
Il mio nome pronunciato da lui è molto diverso da quello pronunciato da colui che è la causa di tutto questo. Mi morsico il labbro. Non so come ho fatto a non accorgermene prima.
Devo essere più chiara. Lo sono sempre stata con tutti, tranne che con me stessa. «Marcus, non prendo nessun aereo».
Ecco, l’ho detto.
«Vabbè, lo prenderai domani. Mi spiegherai tutto quando ci vedremo. Ho già in mente un bel posticino dove portarti a fare colazione». Non ha ancora capito niente. E mi rende il compito ancora più complicato.
Lo so, sono io dalla parte del torto, eppure sto cominciando a innervosirmi. «Non lo prendo nemmeno domani. E nemmeno il giorno dopo. Mi dispiace, Marcus. Non verrò a Washington. Non ti sposerò. Vorrei spiegarti tutto con calma e lucidità, ma non ora, non penso di riuscirci». La mia voce suona più decisa di quello che vorrei. Pike si merita qualcosa di meglio di una spiegazione confusa di due minuti. Fatta con una voce acida che non mi appartiene. E ora sono in grado di dargli solo quella. Ho altro per la testa. Ad esempio, un idiota che rischia di essere scambiato per un terrorista e il salto nel buio che sto per fare per colpa sua.
Silenzio. Ho il dubbio che sia caduta la linea. Invece no. «Jane è lì?», mi chiede, cambiando tono di voce.
Sono sorpresa da questa domanda. Rifletto rapidamente sul comportamento di Marcus in quest’ultimo mese e in particolare sulle sue dichiarazioni lampo. Usciamo. Fidanziamoci. Trasferiamoci. Sposiamoci. Tutta la sua apparente sicurezza forse nascondeva un’insicurezza di fondo. Casablanca. Una donna che deve scegliere tra due uomini.
Aveva capito tutto. Molto prima di me.
L’abitudine mi spingerebbe a dire che Jane non c’entra nulla. Ma sarebbe una bugia. E a me non piace mentire. Jane c’entra sempre. Però, effettivamente, ora non è qui. «No», rispondo con decisione. E’ la verità.
«Però l’hai visto». Non è una domanda.
«Sì», ammetto. Non posso dire nulla di diverso.
«Capisco». Qualche secondo di silenzio. «Vorrei comunque una spiegazione, Teresa», aggiunge Marcus sospirando.
«So che lo sai. Lo hai sempre saputo prima di me». La mia è quasi un’accusa. Improvvisamente Pike non mi fa più molta pena.
«Che sei innamorata di Jane? L’ho sempre sospettato. Ma poi tu hai scelto me, e pensavo che non ci fosse nessun problema».
E’ vero. L’avevo illuso. Io non mi sono mai comportata così con gli uomini. «Il problema invece c’era. Io non lo sapevo, Marcus. Non volevo ammetterlo nemmeno con me stessa. Devi credermi. Ingannarti e farti soffrire era l’ultima cosa che volevo». La mia voce si spezza. Spero che capisca che sono sincera e che non l’ho usato per ingelosire Jane o chissà cos’altro. Volevo davvero una nuova vita con lui. Credevo di volerla.
Poi un mentalista rompiscatole è piombato sul mio aereo. Ed è cambiato tutto.
«Ti rovinerà la vita». Sospira.
«Forse», ammetto. Non è così improbabile.
«E non ti importa?», mi chiede Pike. C’è della preoccupazione nella sua voce. Anche una bella dose di incredulità.
Penso al viso di Jane. Alle sue lacrime di qualche ora fa, così vere. Agli occhi da cucciolo che sfodera quando vuole chiedere scusa. Ai suoi sorrisi da canaglia, irritanti e irresistibili. Alle bugie che gli ho sempre perdonato. Ai suoi metodi alternativi, che, sotto sotto, mi sono sempre piaciuti. Alla sua imprevedibilità. Al suo essere una spina nel fianco. A tutto quello che abbiamo passato insieme. A quel legame che, in fin dei conti, è più forte di tutto il resto.
«No», ammetto sinceramente.
«Teresa, so che ora pensi di amarlo, ma lui non ti merita. E’ un truffatore e ti mentirà sempre. Io non ti farò soffrire».
Sobbalzo. Sarebbe pronto a stare con me nonostante tutto. Penso che Marcus sia davvero l’uomo ideale. Se ti piace il tipo zerbino innamorato. Solo che non è Jane. «Lo so Marcus. Non ti buttare via così. Tu meriti una donna che ti ami».
«Come tu ami Jane?», mi chiede con una punta di acidità nella voce. Me la merito.
Devo essere onesta fino in fondo. «Sì», rispondo a bassa voce. Ammettere quello che provo mi risulta ancora difficile.
«Me lo auguro anch’io. Posso perdonarti, Teresa. Ma non chiedermi di capirti».
«Lo so, Marcus. Spero che un giorno ci riuscirai».
Butta giù. Rimango con il cellulare all’orecchio per qualche minuto. E’ stata dura. Alla integerrima agente Lisbon costa venire meno alla parola data. Ma, tutto sommato, è stato più facile del previsto. Sto diventando un’insensibile. Sarà l’influsso di qualcuno di mia conoscenza.
Guardo l’orologio. Mancano circa sei ore alla fine dell’isolamento di Jane.
Ho sei ore per riflettere su quello che sto facendo. So benissimo che è una pazzia.
Ho sei ore per cambiare idea e scappare da qui. Ma so benissimo che non lo farò.
Ho paura, non posso negare di non averla.
C’è l’eventualità che Jane ritratti tutto, barricandosi dietro a improbabili scuse e ai suoi giochetti mentali. In tal caso non ho idea di quello che farò. Tra le opzioni quella più probabile è ucciderlo con le mie mani.
C’è l’eventualità che Jane scappi ancora. Da me. L’ha già fatto e non è piacevole. Ogni volta che era sparito, avevo pensato che non tornasse più. Invece era sempre tornato.
Una sera, recentemente, mi aveva salutato dicendomi che l’indomani l’avrei trovato lì, all’ FBI. Non l’aveva mai fatto. Gli è sempre piaciuto non essere dato per scontato. Sul momento non ci avevo fatto troppo caso; ma ora quella frase mi torna improvvisamente in mente. Sembrava volermi assicurare che era quello il posto in cui voleva stare: vicino a me. E che, per quello che sarebbe dipeso da lui, non se ne sarebbe andato mai più.
Ma non posso esserne sicura. I suoi fantasmi possono prendere il sopravvento.  Nessuno mi può garantire che non proverà più il desiderio di scappare da me. E non so se io avrò la forza di sopportarlo. Devo metterlo in conto.
Comunque, Teresa, sei proprio un’idiota senza spina dorsale. Jane non ha fatto parte della tua vita per due anni. Poi torna e tu sei il suo cagnolino: molli tutto e accetti di lavorare di nuovo con lui.
Tu, a un certo punto, riesci a costruire una parvenza di relazione con un uomo normale. Decidi di trasferirti in un altro stato e di sposarlo. Ma Jane decide che ti ama e tu molli tutto per lui. Di nuovo. Eh no, non ci fai affatto una bella figura.
Sorrido tra me e me. Non me ne frega niente. Per una volta voglio comportarmi da egoista irresponsabile. Per una volta voglio seguire l’istinto. E il mio istinto mi urla a squarciagola che non posso vivere lontana da quel farabutto di Jane.
Sono stanca, molto stanca. Voglio stare lucida, voglio riflettere, voglio…ma a un certo punto il nulla mi inghiottisce. Un sonno sereno, come da molti anni non mi capita di fare.
Mi sveglia un agente. Quello che aveva arrestato Jane sull’aereo. «Signorina Lisbon, ora può vedere il signor Jane».
Non c’è verso di far capire alla TSA che sono un poliziotto anch’io.
Mi fa male il collo, sono in una posizione piuttosto scomoda. Guardo l’orologio. Sono passate quattro ore, anche se sembra incredibile. E ho dormito come un sasso, cosa ancora più incredibile. Segno che il mio inconscio sa che sto facendo la cosa più giusta per me.
Non sono passate ancora le sei ore, ma, evidentemente, qualcosa si sta smuovendo.
Sfioro con le dita la croce che porto al collo, quella che mi aveva dato mia madre. Mi rivolgo a lei, come faccio sempre nei momenti difficili.
Non so cosa succederà, mamma. Potrebbe essere un disastro. Ma sono in pace con me stessa, con Dio e col mondo. E so che tu mi diresti che, se mi sento così, quella che ho intrapreso è la strada giusta.
Mi alzo e seguo l’agente. Mi offre un caffè alla macchinetta, ma rifiuto. In questo momento, c’è una sola cosa di cui ho bisogno. Vedere Jane e capire se quella sull’aereo è stata una messinscena o no. Dentro di me so già la risposta, ma con quel farabutto non si sa mai. Dopotutto, anche questo mi piace di lui.
Mi conduce in una stanzetta. Una delle pareti consiste in un vetro che dà su un’altra stanza. Mi avvicino e lo vedo.
Jane.
Il mio cuore manca un colpo. Mi dà le spalle, non può ancora vedermi.
Davanti a lui c’è un agente che sta scrivendo qualcosa, probabilmente è la sua deposizione. Ha l’aria piuttosto innervosita. Ma chiunque stia con Jane per più di due minuti ce l’ha. Non è una novità.
L’agente mi perquisisce. Mentre lo fa, non riesco a staccare gli occhi di dosso all’uomo che mi ha sconvolto così nel profondo. Iperventilo. Solo guardarlo mi fa questo effetto; cominciamo bene.
Devo consegnare pistola, distintivo e cellulare. Almeno ora dovrebbe essere chiaro che sono una collega. Invece no.
«Signorina, quando l’agente Ross avrà finito con la deposizione del sospettato, può entrare».
Il sospettato. Questa situazione è paradossale. Qui ignorano che Jane ne ha combinate di peggiori. 
«Non sono ancora passate le dodici ore». Chiarisco, per dimostrare che sono attenta e acquisire credibilità.
«No, ma il capo Wilson ha deciso che può vederlo comunque. Può restare massimo un quarto d’ora. Nessun contatto diretto. E’ ancora in isolamento».
Annuisco. Non mi aspettavo tutta questa comprensione.
Osservo la schiena di Jane. Spalle larghe che hanno dovuto sostenere tanta sofferenza. E’ seduto a un tavolo, di tre quarti. Ha la gamba destra allungata su una sedia. Un’improvvisa tenerezza mi riempie il cuore.
«E’ ferito?» chiedo con preoccupazione all’agente. Il mio tono suona più aggressivo di quello che vorrei. Sono pronta a scatenare un putiferio se dovessi scoprire che si è fatto male durante l’arresto.
«Si è slogato la caviglia mentre metteva in atto la sua impresa», mi risponde con una punta di sarcasmo.
Allora non sono stati gli agenti della TSA. Posso rilassarmi.
Che romantico, si è fatto male per correre da me. Che idiota.
L’agente che ha compilato la sua deposizione sta uscendo dalla stanza. Si siede a una scrivania dietro il vetro, per controllare a vista il sospettato.
Ora posso entrare io. Ho atteso questo momento. Eppure mi accorgo solo adesso di non aver ancora pensato a cosa succederà quando ci incontreremo. Dopo quelle parole così ingombranti.
Non ho idea di cosa gli dirò. Tanto meno di quello che dirà lui.
Di una cosa sono certa. Capirò dai suoi occhi se è felice di vedermi. Capirò dai suoi occhi se ha intenzione di rimangiarsi tutto. E, in questo caso, mi arresteranno per omicidio.
L’agente che mi ha perquisito mi fa cenno di entrare, pensa che io non abbia sentito.
Ho sentito benissimo, solo che mi piace osservare Jane senza essere vista. Mi voglio gustare questo momento. Questa attesa che precede quella che potrebbe essere la più grande gioia, o la più amara delusione, della mia vita.
Deglutisco. L’agente mi fissa, sbigottito. Ho fatto tutto questo casino e ora non ho intenzione di entrare?
Penso a un paio di occhi blu e ho un’improvvisa voglia di vederli.
Respiro. Apro la porta. Entro.
Jane ha la mano destra appoggiata al viso, con un dito si tocca le labbra, in posa pensierosa. Vorrei essere quel dito. Fantasia stupida e adolescenziale, lo so.
Ha lo sguardo fisso su un punto indefinito. Chissà a cosa sta pensando. Chissà se sta pensando a me.
Teresa, non fare la ragazzina. Vai a scoprirlo.
Richiudo la porta con un rumore sordo, ma lui non sembra accorgersene. E’ così sexy.
Oddio, ma cosa vado a pensare? Lucidità. Ho bisogno di lucidità.
Jane continua a stare immobile, forse non si è nemmeno accorto che è entrato qualcuno.
Senza dire nulla, mi siedo sulla sedia di fronte a lui, dall’altro lato del tavolo.
Appoggio giacca e borsa, senza smettere di guardarlo. Non potrei nemmeno se volessi.
Finalmente alza gli occhi su di me.
Sarebbe stato meglio che non lo facesse. La mia, già poca, intraprendenza va a farsi benedire.
Mi guarda come se fossi un extraterrestre.
Mi mordo il labbro, distolgo per un attimo lo sguardo da lui. Sono tremendamente imbarazzata. Forse ho sbagliato tutto. Non dovrei essere qui. Oddio, vorrei sotterrarmi.
Lo guardo di nuovo.
No, non c’è nessun altro posto dove vorrei stare. E’ così bello. I miei neuroni non riescono a incamerare altre informazioni utili.
«Ehi», gli dico. Che frase intelligente.
«Ciao», mi dice di rimando. Abbozza un sorriso. E’ sorpreso.
Mi sento vittoriosa. Non sono poi così prevedibile, vero signor Jane? Avevo promesso che un giorno o l’altro ti avrei sorpreso.
Il suo mezzo sorriso mi mette a mio agio. Come sempre. Mi fa stare bene.
Improvvisamente mi rilasso. Improvvisamente non ho più paura. Respiro con calma. Inspiro. Espiro.
La mia frequenza cardiaca si sta normalizzando. Più o meno. Ha sempre avuto questo potere. E, ora capisco, non si tratta di ipnosi. Si tratta semplicemente di lui.
«Un altro piccolo guaio in cui ti sei cacciato, eh?», ironizzo, accennando una smorfia che vorrebbe essere un sorriso.
Il mio sguardo va verso la caviglia slogata. Il piede è senza scarpa. Indossa le calze di lana che gli avevo regalato. Un’altra ondata di dolcezza mi invade. Insieme a una buona dose di sicurezza.
Lui mi fissa. Non capisco se è felice. Imbronciato. Confuso. Terrorizzato. Indifferente. Arrabbiato. Sorpreso. Speranzoso. Forse tutte queste cose insieme. Non ne ho idea. Dopotutto, è lui il mentalista, non io.
Mi sono fidata, ma forse ho fatto un’enorme cazzata. Non sarebbe la prima volta.
Comunque devo ammettere che questa espressione, qualunque cosa voglia significare, gli dona.
Lui si schermisce, e abbassa lo sguardo. «Ho visto di peggio, lato guai ».
Poi inchioda i suoi occhi nei miei. Non posso fare a meno di sorridere. E’ una reazione istintiva. Anche se non so cosa ne sarà di me, mi sento perfettamente a mio agio. Come sempre, quando sono in sua compagnia.
«Sì, infatti». Non posso essere più d’accordo. Al CBI erano più le denunce a suo carico degli assassini che catturavamo. Perché lui consulta e insulta. Le sue prodezze in aeroporto non potranno essere più gravi di altre; quando ha sotterrato un uomo vivo, per esempio.
Mio malgrado mi viene da ridere.
Lui, invece, è serio. Tiene le mani appoggiate sulle gambe. E’ tornato imperscrutabile, come sempre. Anche se raramente è così serio. Di solito sorride, anche se non vorrebbe. Non capisco se devo preoccuparmi. Forse sente dolore.
«Come va la caviglia?», gli chiedo. Sono apprensiva, lo sono sempre stata con lui. Anche se non se l’è mai meritato.
«Oh va bene», mi risponde, quasi distrattamente. Poi continua, cambiando totalmente argomento. «Non sei andata a Washington».
Mi guarda fisso, con le labbra leggermente socchiuse. Quelle labbra che sogno su ogni centimetro della mia pelle. Attenta Teresa, non distrarti.
La sua non è una domanda, non ha senso che lo sia perché io sono qui. Forse è un modo implicito per chiedere se ci andrò. Non lo può sapere perché non è un sensitivo; i sensitivi non esistono.
«No». Il mio tono di voce e il mio sguardo vorrebbero garantire che non ho intenzione di andarmene da qui. Non ho intenzione di andarmene lontano da lui. Da Jane. Anzi, da Patrick.
Mi piacerebbe pronunciare il suo nome. L’ho fatto raramente, non mi ricordo neanche quando. Probabilmente solo quando eravamo sotto copertura. Forse il mio inconscio ha sempre tentato di mantenere una certa distanza tra noi.
Adesso muoio dalla voglia di chiamarlo così. Ma non lo faccio. Non è ancora il momento.
Quello che mi preme è che abbia recepito il messaggio. Non ti libererai di me tanto facilmente, Patrick.
E lui ha capito. Perspicace come sempre, il signorino. Accenna un sorriso. Strano, non è il sorriso che mi aspettavo, quello del “te l’avevo detto che ti saresti annoiata”. Aveva avuto ragione, non c’è dubbio. Troppo spesso ce l’ha.
Certo, non aveva il diritto di condizionare la mia vita. L’ha fatto un milione di volte. Sono abbastanza adulta per decidere da sola. Sono anche un poliziotto, diamine. Non aveva nessun diritto, ma posso solo ringraziare il Cielo che l’abbia fatto.
Continua a fissarmi. In silenzio. Come se avesse paura di romperlo. Anch’io ce l’ho. Dì qualcosa, idiota. Sull’aereo ne avevi di parlantina.
Eppure non è un silenzio imbarazzante. I nostri silenzi non lo sono mai stati. Neanche questo. E’ bello. E’ carico di emozioni inespresse. Non è una barriera tra noi, è una condivisione. Stiamo bene, anche così.
Però qualche cosuccia va detta. Anche se starei ore a perdermi in quegli occhi che mi scrutano l’anima.
Se lui non accenna a iniziare il discorso, lo farò io. Non mi lascerò intimorire. Ho dovuto fare cose ben peggiori nei miei 20 anni in polizia. Voglio sapere.
Inumidisco le labbra improvvisamente disidratate e mi auguro di non diventare color porpora: « Intendevi davvero quello che hai detto?».
Ecco. Gliel’ho chiesto. La stessa cosa che gli avevo chiesto tanto tempo fa. All’epoca si era rimangiato tutto. Ma all’epoca nessuno dei due sarebbe stato pronto. Ora sì. O, per lo meno, io lo sono. Lui non lo so.
Sono fiera di me. Ho paura, però. Una paura folle che le mie speranze si infrangano contro una troppo familiare maschera di indifferenza. Non penso di poterlo sopportare. E’ il momento della verità.
«Sì certo», assicura Jane.
La mia paura svanisce in un attimo. Non era uno dei suoi trucchetti. Lo sapevo.
Lui, però, è ancora serio. Una parte di me vorrebbe saltargli addosso e mettergli le mani tra i capelli. Ora. Sembrano così morbidi.
Teresa, calmati. Sei un’adulta. Autocontrollo.
«Bene», sussurro a mezza voce. Non riesco a dire altro. Il mio cervello sta fluttuando nell’aria. Non si è rimangiato niente. Non come quella volta.
Sorrido e avverto già le solite lacrime traditrici. Lacrime di gioia.
«Tanto per essere chiari, stiamo parlando di guai, vero?», mette in chiaro indirizzandomi un’occhiata maliziosa.
Ecco la doccia fredda. Idiota. Dovevo aspettarmelo.
Sta per dire che non si ricorda quello che ha detto o che era un po’ su di giri. Come l’altra volta.
Oppure vuole semplicemente giocare un po’. Ipotesi ancora più probabile. Ha quell’aria impertinente che ha sempre avuto il potere di farmi uscire dai gangheri. Si meriterebbe un pizzicotto. Minimo.
Jane, piantala di essere così irresistibile.
«No. No», chiarisco. Ma non riesco nemmeno ad innervosirmi. Quel farabutto è in grado di piacermi perfino ora. Mi farà impazzire, un giorno o l’altro.
Anzi, no. Sono già pazza. Di lui.
«L’altra cosa», gli suggerisco. Sorrido anche se non vorrei farlo.
Lui fa un’espressione teatralmente comprensiva. «Oh, quella», dice con tono divertito.
Eh già, proprio quella. I tuoi giochetti stavolta non funzionano. Non con me. Abbi il coraggio delle tue azioni, Patrick Jane. «Non si scherza su queste cose», lo avviso.
Cerco di avere un’aria minacciosa. Se mi avesse mentito sarei pronta a saltargli alla gola. Voglio che lo sappia.
Eppure, mio malgrado, sorrido. E so di non avere affatto un’aria minacciosa.
«Sì», ammette.
Ora ha un’espressione incredibilmente seria. Che fa perdere un battito al mio muscolo cardiaco già piuttosto provato dagli ultimi avvenimenti. «Intendevo quel che ho detto, ogni parola». La sua voce è profonda, gli occhi sono umidi e le pupille dilatate.
So che mi sta dicendo la verità. Ha sempre detto che si hanno le pupille dilatate quando si guarda qualcosa che si desidera. Non ho dubbi di come siano le mie in questo momento.
Nel mio stomaco cominciano a svolazzare un centinaio di farfalle. E’ una sensazione strana. Ma bellissima.
«Bene», ripeto, stavolta molto più convinta di prima. Sorrido, stavolta apertamente. Allora è tutto vero. Riderei a crepapelle e salterei per la stanza, se potessi.
Un po’ di dignità, Teresa. C’è qualcosa che devo fare prima.
Faccio un attimo di pausa. E’ il mio turno. So cosa sto per dire. Glielo devo, tutto sommato. In realtà, non mi dispiacerebbe tenerlo un po’ sulle spine. Sarebbe divertente.
Ma di tempo ne abbiamo perso fin troppo. E io ho esaurito tutta la mia pazienza.
«Perché io provo la stessa cosa», aggiungo.
O mio Dio. Gliel’ho detto davvero. Non è stato poi così difficile.
Ho buttato giù il muro che mi ero costruita intorno da quando è morta mia madre. E anche quello che avevo edificato da quando ho conosciuto lui. E’ liberatorio. Ma, allo stesso tempo, incredibilmente naturale.
Sento che sto per piangere. O per ridere. O entrambe le cose.
«Beh, è una fortuna», mi risponde.
E poi eccolo. Finalmente. Il suo sorriso. Disarmante. Improvviso e bellissimo, come un raggio di sole in una giornata piovosa. Potrebbe fornire luce a tutto il pianeta. E’ il sorriso più vero che gli ho mai visto. Quello che più si avvicina alla felicità.
Che mi contagia, immediatamente.
Poi, ecco che l’uomo più complicato del pianeta torna improvvisamente serio.
«E Pike?», mi chiede. Sembra davvero preoccupato. Forse si sente in colpa. L’ho sempre detto che Jane è una brava persona. Vorrei che lui stesso riuscisse a vedere il buono che vedo io in lui.
Ma non si deve preoccupare di Marcus. Toccherebbe a me. Eppure è l’ultimo dei miei pensieri, in questo momento. Ormai lo so, mi sono trasformata in un’egoista senza cuore.
No, forse il cuore ce l’ho, visto che sta battendo all’impazzata.
«Capirà», lo rassicuro. Anche se l’ultima cosa che il mio ex fidanzato mi ha detto è stata proprio che non poteva capirmi.  E in questa parola c’è un pizzico di ironia che solo io posso cogliere. L’aveva pronunciata Marcus riferendosi a Jane, a proposito della mia partenza. Capirà. Dicesi legge del contrappasso.
Non riesco nemmeno a sentirmi in colpa del mio non sentirmi in colpa. Sono troppo felice. L’uomo che voglio al mio fianco, che ho sempre voluto senza nemmeno accorgermene, mi ama. Non c’è spazio per tristezza o sensi di colpa. So che in Jane ce ne sarà già abbastanza per due. So che sarà sempre così. Mi va bene. Fa parte di lui. E io lo amo per quello che è.
Tra un minuto potrò pentirmene, ma ora sono consapevole del fatto che non cambierei questo consulente piantagrane di una virgola.
Mi fissa, serio. Pensa. Pensieri che, forse, lo portano via da me. Forse il ricordo di Angela e Charlotte. Dovrò conviverci sempre, ogni minuto della mia vita. E’ giusto così. E io ho sempre voluto bene a quella donna e a quella bimba bionda che non ho mai incontrato.
E’ strano pensare che senza la loro scomparsa io non avrei mai conosciuto Jane.
Una parte di me vorrebbe restituirgli tutto quello che ha perso, anche se, in questo modo, sarei io a perdere lui.
L’altra parte, però, lo vorrebbe stringere per non lasciarlo andare via mai più.
Cerco di pensare che tutto questo faccia parte di un piano divino. Un piano imperscrutabile e amaro. Ma, forse, qualcosa di buono sta venendo fuori da tutto quel dolore.
E io non ho il diritto di pormi domande.
Non ho il diritto di desiderare che il passato di Jane non sia mai esistito; non potrei mai, perché sua moglie e sua figlia l’hanno reso quello che è oggi. Fanno parte di lui e, ormai, fanno parte anche di me.
Pregherò ogni giorno per loro, come faccio da dodici anni, e sarò lieta di ricordarle insieme a lui.
Lo capirò quando  vivrà i suoi strazianti momenti di malinconia. Non me li dovrà nascondere, li affronteremo insieme.
Sarò abbastanza forte per tutti e due. Non sarà facile, lo so, ma ce la faremo.
So che l’uomo che dice di amarmi amerà per sempre anche il ricordo di un’altra donna, ed è giusto così.
Ma sono abbastanza intelligente per capire che ora è me che vuole al suo fianco.
Non sarò gelosa di un fantasma. Sono in pace con me stessa. Forse è di questo che Jane ha bisogno.
Io, però, ora avrei bisogno di un’altra cosa, molto più prosaica e banale. Accenno un sorriso malizioso.
«Dillo ancora», sussurro. Ho voglia di giocare un po’. Probabilmente per colpa di Jane che, in questi anni, ha reso il mio carattere molto più giocoso di quello che era prima di incontrarlo.
Forse la mia richiesta è un po’ sfacciata. Ma, anche questo, l’ho imparato da Jane. E il bello tra noi è che possiamo dirci tutto, senza timore di essere giudicati. Ci conosciamo troppo bene. E non vedo l’ora di conoscerlo di più.
«Dire ancora cosa?», mi chiede. Stranamente serio.
Il farabutto finge di non capire. E’ terribilmente irritante. Ma anche terribilmente sexy. Sono indecisa se tirargli un pugno o affondargli la mano nei capelli.
Calma, Teresa, calma. Ti fai pregare, eh Jane?
Faccio un’espressione che vorrebbe significare “lo sai, non prendermi in giro”.
Voglio sentirglielo dire. Di nuovo. Voglio convincermi che non è un sogno.
Me lo merito, dopotutto. Caro il mio Patrick, hai taciuto per anni, ora devi rimediare. Non credere di cavartela solo con uno show frettoloso su un aereo, pochi minuti prima del decollo e in mezzo a una cinquantina di persone.
In realtà, anche se non lo ammetterei neanche sotto tortura, è stata la più bella dichiarazione d’amore che qualcuno mi abbia mai fatto.
Però potrei non aver sentito bene. E poi è piacevole ascoltare quelle due paroline. Pronunciate dal mio mentalista preferito, ovviamente.
Lui mi fissa. Non ha l’aria sarcastica o strafottente. E’ il vero Jane. Quello che io ho sempre intravisto. Quello che ho sempre amato, senza nemmeno accorgermene.
Ha un’espressione incredibilmente seducente. In rare occasioni gliel’ho vista.
Non so se sia consapevole del suo fascino. Probabilmente in questo momento non lo è. Nonostante sia sempre stato uno sbruffone che sa di piacere alle donne. Dovrò fare i conti anche con questo.
Eppure lui ha scelto me. Né Kim Fisher, di cui, devo ammettere, sono stata un pochino gelosa, né attraenti vedove né nessun’altra.
Me.
Mi sembra incredibile, ma è così.
In effetti sono l’unica in grado di sopportarlo.
Il farabutto continua a non dire niente. Mi fissa. Con uno sguardo intenso. Che accende ogni minuscola parte di me.
Sembra indeciso sul da farsi. Poi si alza, senza appoggiare per terra la caviglia slogata. Si sporge contro il tavolo. Verso di me. Si avvicina. Nei suoi occhi intravedo un lampo di paura. Che lascia il posto a una determinazione che non gli ho mai visto.
Sono immobilizzata. Il mio cervello manda segnali impazziti a ogni cellula. Il mio cuore è in fibrillazione. Lo so, la sua vicinanza mi fa sempre effetti strani.
Per un attimo non capisco cosa voglia fare. Poi, improvvisamente, lo intuisco.
Jane odia il contatto fisico. Eppure, ora, sembra desiderarlo come lo desidero io.
Appoggia il braccio sinistro sul tavolo. Con la mano destra mi accarezza il viso. La mia pelle brucia sotto la sua. Non siamo mai stati così vicini. Mi sfiora dolcemente, come quando mi ero svegliata in un letto di ospedale e lui mi aveva detto che andava tutto bene; mentre mi accarezzava i capelli, io avevo avvertito delle scintille che non sapevo spiegarmi.
Ora me le spiego. Sono le stesse scintille che avverto ora.
Il suo viso si avvicina sempre più al mio, mentre continua a tenermi fermo il mento, con un gesto dolce ma deciso.
Guardo la sua bocca. Carnosa. Sempre più vicina. Chiudo gli occhi. Sento le sue labbra sulle mie. Combaciano perfettamente. Il primo tocco è leggero. Quasi timido. Nel secondo ci esploriamo più a fondo. Avidamente, ma con tranquillità. In modo infinitamente dolce. E naturale. Le nostre paure si fondono insieme e spariscono. Poi non sento più nulla se non il calore delle sue labbra che sanno di thè. Forse è una suggestione o forse no. In ogni caso sanno di buono. Sono completamente in suo potere. Ogni fibra del mio corpo è elettrizzata, ma, allo stesso tempo, mi sento estremamente rilassata. Serena come non sono mai stata. Completa. Protetta.
Il mio cervello riesce a ordinare alla mia mano destra di spostarsi dal tavolo al viso di Jane. Di Patrick. Lo accarezzo, piano, come se avessi paura di romperlo. Come, ora me ne rendo conto, sogno di fare da anni. La sua pelle è morbida, con qualche zona irresistibilmente ispida. Da quando è tornato dall’isola non si rasa più alla perfezione. Non che la cosa mi dispiaccia.
Il nostro bacio sembra non finire mai. Vorrei davvero non finisse mai. Intuisco che lo vorrebbe anche lui. A un certo punto, però, per mancanza d’aria, finisce. E ho già una voglia matta di ricominciare. All’infinito.
Ci stacchiamo leggermente, ma una calamita continua ad attrarci. Apro gli occhi e li punto dritti nei suoi. Anche lui ha avuto la stessa idea.
E’ così bello guardarci a pochi millimetri di distanza. Da vicino riconosco la sua anima, bella come quei due tormentati oceani blu. Che mi stanno guardando come se fossi la cosa più preziosa del mondo. Nessuna traccia dell’abisso di dolore che ho sempre intravisto. Ricomparirà, ma, quando succederà, io sarò lì vicino a lui; a riportarlo a riva, in salvo.
I nostri nasi si toccano. E’ una sensazione dolcissima. Sento di non essere mai stata così dannatamente felice.
Anche se tra un minuto potrebbe dire qualcosa che mi farà venire voglia di rimangiarmi tutto e di tirargli un pugno, proprio su quel naso che ora sto sfiorando teneramente.
Non importa se succederà. Dopotutto Jane è sempre Jane. E io sono sempre io.
Eppure il sentimento che sto provando quasi mi spaventa da quanto è profondo. Lo è perché è cresciuto poco a poco, a mia insaputa, nutrendosi ogni giorno di quel poco che gli davo; come le erbacce che crescono dove non dovrebbero. Ma le erbacce sono più forti di tutto, ora lo so.
Continuo a fissarlo. Per secondi, minuti, ore, non saprei. Ho perso qualunque nozione del tempo e dello spazio.
Bel lavoro agente Lisbon, non c’è che dire. Non mi importa.
Sento di essere sua, completamente. Forse lo sono sempre stata. Anch’io, come Jane, costruisco barriere intorno a me. Insieme siamo riusciti ad abbattere i muri di entrambi.
I suoi occhi contengono un’implicita domanda. “Tutto ok, Teresa?”, sembrano dirmi. Proprio come quando eravamo sotto copertura, ieri o una vita fa, non mi ricordo. “Sì, ora che ci sei tu”, gli rispondo telepaticamente. Di nuovo. Ma stavolta per davvero.
Sento di non aver mai amato così tanto un uomo.
Vorrei dirglielo ma suonerebbe sdolcinato. E io, normalmente, sono tutt’altro che sdolcinata. A volte sfioro il cinismo, ma è solo un’autodifesa e lui lo ha sempre capito.
E poi quel presuntuoso si monterebbe ulteriormente la testa. Il suo ego è già abbastanza sviluppato.
D’altronde ora non abbiamo bisogno di parole. Avremo tempo per dire e fare molte cose. Tutta una vita. Insieme. Come sempre, e molto più di sempre. Non vedo l’ora.
Di baciarlo ancora.
Di irritarmi per i milioni di guai in cui si caccerà e per le centinaia di cose che mi nasconderà.
Di assistere ai suoi giochetti mentali, di fingermi più furba di lui e di cascarci ogni volta.
Di fare pace in mille modi possibili.
Di arrestare assassini che lui scova e impacchetta.
Di impedirgli di guidare la mia macchina e di prepararmi al peggio quando riuscirà a rubarmi le chiavi.
Di ridere e farlo ridere.
Di condividere i suoi momenti bui e di assicurargli che andrà tutto bene.
Di fidarmi di lui, a mio rischio e pericolo, ogni giorno della mia vita.
Di portargli il thè a letto, un vero letto, e di berlo insieme.
I miei occhi danzano nei suoi. Sorrido. Lui continua a guardarmi con un’intensità da brivido. Eh sì.
Per me Patrick Jane non potrà mai essere un normale essere umano.
Penso che, tutto sommato, me ne farò una ragione.
 
  
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