MARGARET
“Mamma,
io esco”, la voce spensierata di
Margaret riecheggiò tra le pareti del largo corridoio che
stava percorrendo.
“Margaret, aspetta”, la richiamò sua
madre, spuntando sulla soglia della cucina.
La ragazza si voltò di scatto,
incontrando l’espressione preoccupata e pensierosa della
donna.
“Tutto bene?”, domandò confusa.
“Dobbiamo parlarti”, esordì suo padre,
comparendo alle spalle della madre.
Margaret li osservò per qualche istante,
non riuscendo a non notare le loro espressioni afflitte e contrite.
Annuì
debolmente con il capo, poi seguì silenziosamente i
genitori. Sua madre si
sedette su una delle sedie del tavolo e lei la imitò subito,
suo padre, invece,
era in piedi, con le braccia poggiate sulla superficie in marmo del
piano
accanto ai fornelli.
“Cosa succede?”, la sua voce era appena
un sussurro angoscioso.
I suoi genitori erano delle persone
tendenzialmente allegre e vivaci, soprattutto quando erano in compagnia
di
Margaret. Scherzavano, si lasciavano scappare qualche battuta di troppo
che
aveva il magico potere di far sorridere tutti. Vederli tanto seri, per
Margaret, era un evento talmente raro che non poteva farle presagire
alcunché
di positivo. Non voleva essere pessimista, ma quegli occhi spenti, i
visi bui e
tristi non erano affatto di incoraggiamento.
“Devi vedere Jean Paul?”, le chiese sua
madre, non rispondendo alla domanda che Margaret aveva appena posto
loro.
In realtà la donna cercava solo un modo
per introdurre l’argomento, per giungere ad esso
gradualmente. Sapeva che sua
figlia non l’avrebbe presa bene, ma di comune accordo con suo
marito avevano
deciso di renderla partecipe di quella situazione. Ormai Margaret era
grande,
non era più quella bambina spensierata, era matura
abbastanza da comprendere ed
affrontare le problematiche familiari.
“So che non vi piace, ma lui a me sì”,
sbottò con voce leggermente più dura, cercando di
apparire autoritaria.
Non era intenzionata a smettere di
frequentare quel ragazzo solo perché i suoi genitori erano
diventati tutto d’un
tratto gelosi e possessivi. Non avevano mai polemizzato sulle sue
amicizie, si
erano sempre fidati del giudizio di Margaret e lei proprio non riusciva
a
capire il motivo di tanta riluttanza proprio in quel momento. Jean Paul
era un
semplice ragazzo, nulla di più, e per di più era
il figlio di un collega di suo
padre.
“Oh sì, certo”, balbettò sua
madre, con
tono accomodante.
Un improvviso ed opprimente silenzio
calò nella stanza. Margaret strinse le mani tra le cosce,
piegando le labbra in
un sorriso forzato che nascondeva disagio. C’era qualcosa di
strano in quella
conversazione, poteva percepirlo da come la madre continuava ad
inumidirsi le
labbra o dalle nocche, ormai bianche, delle mani del padre.
“Forse è meglio che vada, si sta facendo
tardi”, borbottò Margaret, sperando di poter
mettere fine a quell’atmosfera
tanto pesante ad angosciante.
“Aspetta!”, il sussurro acuto del padre
la fece immobilizzare.
L’uomo aveva fatto mezzo passo avanti e
teneva lo sguardo sul volto della figlia, cercando di trovare in essi
la forza
e il coraggio per parlarle. Margaret deglutì, la
consapevolezza della gravità
della questione da affrontare di colpo si impadronì della
sua testa.
“Stiamo attraversando un periodo
difficile”, iniziò suo padre, poggiando le mani
sulle spalle della moglie.
Prese un lungo respiro, mentre la donna
portava le mani al viso, per coprirlo come meglio riuscisse. Margaret
li
fissava attentamente, attendendo che continuassero. In quel momento era
incapace di provare qualsiasi emozione. Non c’era paura,
timore, delusione,
panico o altro, solo un’immensa confusione.
“Stanno facendo delle indagini
finanziarie, purtroppo hanno scoperto degli ammanchi
nell’ultimo bilancio”,
spiegò l’uomo con voce atona.
La sua espressione era un misto di tristezza,
amarezza, rabbia e paura. Non sapeva cosa sarebbe successo, non sapeva
quanto
gravi sarebbero state le conseguenze e temeva di poter perdere tutto
ciò che
negli anni aveva costruito con sacrificio e lavoro. La sua famiglia, il
lavoro,
la casa, la reputazione, tutto era in gioco, tutto dipendeva da
quell’unico
grande ed irrazionale errore.
“Cosa significa?”, il sussurro
sconcertato di Margaret venne percepito come una pretesa, quella di
ricevere
spiegazioni, dettagli che la aiutassero a comprendere.
“In ufficio c’erano dei problemi con una
delle ultime operazioni di cui ero responsabile. Avremmo perso
l’affare e degli
ottimi clienti, così ho fatto variare la destinazione di
alcuni assegni.
Pensavo che sarei riuscito a sistemare le cose prima che qualcuno
potesse
accorgersene, ma poi ne ho perso il controllo. Ho chiesto il
trasferimento a
Londra, solo per temporeggiare”, continuò con la
voce intrisa di rimpianto.
Margaret vedeva gli occhi lucidi di sua
madre, le parole del padre nel rimbombavano in testa.
“Lemoine si è accorto che mancavano dei
soldi sul suo conto. Li avevo investiti in un nuovo progetto, li avrei
riavuti
nel giro di un mese e tutto sarebbe andato per il verso giusto, ma non
ne ho
avuto il tempo”, chiarì con tono dismesso ed occhi
bassi.
Si vergognava di ciò che aveva fatto,
del modo in cui aveva messo a rischio la sua famiglia solo per un altro
inutile
contratto che di certo non gli avrebbe cambiato la vita. Ma quella
mancanza,
quell’errore che impulsivamente aveva commesso, avrebbe
potuto radicalmente
farlo.
“Il cognome di Jean Paul è Lemoine”, la
voce di Margaret era appena un sussurro.
Con occhi increduli guardava il padre,
poi spostava l’attenzione sul viso straziato della madre, e
riprendeva ad
oscillare con gli occhi tra quelle due figure. Non voleva crederci, non
poteva.
Tutto le appariva talmente surreale da farle credere che si trattasse
di uno
scherzo di cattivo gusto. Le parole di suo padre si ripetevano nella
sua mente
ed ogni volta Margaret pareva comprendere un qualcosa di nuovo e
più profondo.
Quei termini vaghi e generici nascondevano una cruda verità
che Margaret faceva
fatica persino a pensare.
“Hai rubato dei soldi, sei scappato”,
balbettò rimuginando sulle sue stesse parole.
Era quello il significato ultimo del
discorso che suo padre aveva appena sostenuto. Progetti, buona
volontà,
problemi, quelle erano solo una serie di scuse attraverso cui
presentare meglio
l’orribile gesto che aveva compiuto.
“Io…”, provò a dire, come se
volesse
giustificare il suo operato.
“Hai rubato!”, urlò Margaret alzandosi
di scatto dalla sedia.
La calma apparente che aveva avvolto il
suo viso era del tutto scomparsa per lasciar spazio allo strazio, alla
disperazione e alla stupore.
“Tesoro, stavo solo cercando di fare del
mio meglio”, controbatté l’uomo,
trovando enormi difficoltà nel terminare
quella semplice frase.
“Rubando? Rubando?”, inveì Margaret.
La sua voce era ormai incrinata, tanto
che era facile intuire sarebbe scoppiata a piangere da un momento
all’altro.
Tutto le apparve improvvisamente più chiaro.
L’improvviso trasferimento,
l’antipatia per Jean Paul, la tensione della cena che si era
tenuta poche
settimane prima proprio in quella stessa stanza, ogni ricordo era come
una
tessera del puzzle che finalmente trovava il suo posto. Era delusa, ma
allo
stesso tempo impaurita.
“Cosa succederà ora?”,
domandò in un
mormorio appena udibile.
Suo padre chinò il capo, desolato ed
affranto.
“Ci saranno delle indagini, bisogna
attendere. Si potrebbe trattare di un’ingente multa o di
reclusione”, la
informò sua madre, rispondendo al posto dell’uomo.
“Cosa?”, l’urlo stridulo ed incredulo di
Margaret riecheggiò tra le pareti.
La donna sussultò, mentre stringeva
forte la mano del marito, poggiata sulla sua spalla quasi a volersi
fare forza
a vicenda.
Margaret era frastornata, tutte quelle
notizie sconcertanti l’avevano pressa alla sprovvista.
Avrebbe voluto
abbracciare i suoi genitori, fornire loro tutto il sostegno e
l’appoggio che
una situazione delicata quanto quella richiedessero, ma la rabbia ed il
rancore
glielo impedivano. Suo padre le aveva mentito, aveva imbrogliato, non
si era
preoccupato delle conseguenze e, se anche l’avesse fatto, non
era stato
abbastanza prudente. Era colpa della sua insaziabilità e
della sua avventatezza
se ora rischiavano di perdere la tranquillità e la
stabilità. Sua madre teneva
gli occhi socchiusi, le labbra erano piegate in una smorfia di muta
sofferenza.
Margaret percepiva il suo corpo fremere,
tanto che non sarebbe riuscita a trattenerlo ancora per molto. Gli
occhi le
pizzicavano, ma lei si sforzava di non piangere, perlomeno non ancora.
Era una
situazione ambigua, quella. Da un lato avrebbe voluto scaricare tutta
la rabbia
che montava nel suo copro sui suoi genitori, accusandoli di essere
stati
eccessivamente superficiali, dall’altro leggeva il tormento
nelle loro
espressioni disarmate.
“Margaret, io…”, riprese suo padre, ma
lei non gli diede neppure il tempo di terminare.
In un attimo di ritrovò a correre verso
la porta, per poi uscire di casa. Le sue gambe si muovevano
automaticamente,
falcata dopo falcata, prestava poca attenzione alla strada che stava
percorrendo. Aveva la vista annebbiata a causa delle lacrime che
avevano
iniziato a scendere sul suo viso, bagnandolo. Non aveva una meta, una
destinazione, un luogo in cui rifugiarsi. Voleva solo scappare,
allontanarsi
per un po’ da quella casa e da quella serie di problemi che
aveva scoperto
gravassero sulla sua famiglia, il resto non le importava.
Il cellulare di Audrey squillò,
distogliendola dal tentativo di lettura di un testo in francese che
avrebbe
dovuto studiare per il giorno successivo. Allungò lo
sguardo, notando una serie
di cifre che non conosceva lampeggiare sullo schermo.
Sbuffò, ricordando che
l’ultima volta che aveva risposto ad una telefonata da un
numero sconosciuto si
era ritrovata a dover cercare sua sorella per ore. Svogliatamente lo
prese con
la mano sinistra ed accettò la chiamata, poi
portò il dispositivo all’orecchio.
“Sì?”, esordì stancamente.
Audrey teneva il gomito destro poggiato
sulla scrivania della sua stanza, con la mano reggeva il capo. Stava
studiando
da quasi un’oretta ormai, senza riuscire a memorizzare nulla
di utile. Continuava
a leggere degli estratti del libro, sottolineandoli con evidenziatori
di
diversi colori, poi quando arrivava a fine pagina si accorgeva di non
aver
capito nulla ed era costretta a ricominciare. Era completamente
distratta quel
pomeriggio, completamente distrutta. Pochi minuti prima si era persino
appisolata, ma poi il suo senso del dovere l’aveva
improvvisamente ridestata,
facendola sussultare.
“Ciao Audrey, sono Harry”, salutò
cordialmente una voce maschile dall’altro capo del telefono.
Audrey aggrottò la fronte, frastornata.
In quel momento avrebbe potuto tollerare di tutto, stanca
com’era. Percepiva la
pesantezza delle palpebre che spingevano per abbassarsi ed un forte
desiderio
di stendersi sul letto per concedersi del riposo.
“Ciao”, biascicò con la voce impastata.
“Stavi dormendo?”, fu l’ovvia domanda di
Harry.
Il suo tono, al contrario di quello di
Audrey, era vivace ed allegro.
“No, tranquillo”, borbottò lei,
sforzandosi di apparire più attiva di prima.
Harry soffocò una risata, non avendo
creduto neppure per un istante a quelle parole. Con le dita della mano
libera
giocherellava con i ricci, come se quel gesto potesse aiutarlo a
distendere
l’ansia e la tensione provocate da quella chiamata e,
soprattutto, dalla voce
di Audrey.
“Perché hai il mio numero?”, chiese
confusa.
Con la mente ripercorse le poche volte
in cui si erano parlati, ma non ricordava affatto di avergli lascito il
suo
recapito telefonico. Del resto Audrey non lo dava quasi mai.
“L’ho chiesto a Bree”, spigò
Harry con
un leggero imbarazzo.
Voleva parlare con lei, trascorrere del
tempo insieme, conoscerla, ma a scuola era sempre così
sfuggente e quelle poche
volte che venivano organizzate uscite di gruppo non erano di certo
sufficienti.
Così quella mattina si era deciso a chiedere il numero a
Bree, troppo timido
per rivolgersi direttamente ad Audrey.
“Mh”, mugugnò lei in risposta.
“E perché?”,
aggiunse poco dopo, riscoprendosi insoddisfatta di quella piccola
spiegazione.
“Volevo
sentirti”, ammise Harry, impacciato.
Audrey sorrise, mentre con le dita
iniziava a seguire il contorno delle pagine del libro che teneva aperto
sulla
scrivania. Al sicuro nella sua stanza, protetta dagli sguardi altrui,
Audrey
non trovava una sola ragione per non sorridere a
quell’affermazione e a quel
tono dolce e leggermente insicuro. Stava per chiedere ulteriori
chiarimenti
riguardo a quella risposta, ancora una volta insoddisfacente, ma la
voce di
Harry le impedì di continuare.
“E non chiedermi perché, perché non lo
so e perché sarebbe davvero imbarazzante”,
sbottò tutto d’un fiato.
Audrey puntò gli occhi in basso,
sorridendo ancora una volta.
“Harry, c’è Liam”,
annunciò la madre del
ragazzo, con un urlo proveniente da chissà quale stanza.
Il riccio sbuffò, infastidito da quella
che si preannunciava già come un’interruzione.
Finalmente aveva trovato il
coraggio di comporre quella dannatissima serie di numeri ed Audrey non
sembrava
essere neppure seccata da quella telefonata, ma Liam non poteva che
rovinare
tutto, questa volta persino inconsapevolmente.
“Audrey, scusa”, esordì con tono
dispiaciuto. “È arrivato Liam, devo
andare”, bofonchiò a labbra serrate.
“Capito”, riuscì solo a dire, mentre la
mano che fino ad allora aveva continuato a scorrere lungo il margine
del libro
si arrestò all’istante.
“Ciao, allora”, salute Harry,
rimpiangendo già la fine di quella telefonata.
“Ciao”, replicò lei in un sussurro,
prima di chiudere la linea.
“Chi
era al telefono?”, esordì Liam, facendo capolinea
nella stanza del riccio.
Quel tono arrogante e presuntuoso
apparve insopportabile all’orecchio poco accomodante di
Harry. Si chiedeva come
non si fosse accorto prima del carattere irritante ed egoista di quello
che
reputava il suo migliore amico. Era come se, tutto d’un
tratto, avesse aperto
gli occhi. Anzi, in realtà Harry quelle cose le aveva sempre
sapute, ma non
aveva mai dato peso a quelli che definiva piccoli difetti. Preferiva
ricordare
quel Liam che lo aveva appoggiato ed aiutato in innumerevoli
situazioni, quello
con il quale era cresciuto e di cui si era ciecamente fidato per tutto
quel
tempo. Ma ora, ora che aveva imparato a dire la propria, non voleva
più
rimanere in silenzio a guardare da spettatore la vita che Liam
pianificava per
entrambi.
“Un’amica”, rispose semplicemente,
evitando di pronunciare il nome di Audrey.
Non voleva coinvolgere anche lei nella
questione, non avrebbe sopportato le battutine di Liam
sull’argomento.
“Bene”, constatò l’altro,
poggiandosi
alla superficie della scrivania. “Perché non dici
la verità? Perché non dici
che era Audrey?”, chiese, risentito per quella risposta vaga
che l’amico gli
aveva fornito.
Liam si era chiesto cosa quelle due
parole potessero mai significare. Non c’erano mai stati mezzi
termini o segreti
tra loro ed il fatto che Harry avesse deciso di ricorrere ad essi
proprio in
quel momento lo rendeva particolarmente nervoso e suscettibile.
“Qual è il tuo problema, eh?”, chiese
Harry, alzando il tono di voce.
I suoi occhi erano assottigliati in due
fessure fiammeggianti d’ira, mentre Liam lo fissava con
apparente serenità ed
un sorrisetto beffardo disegnato sulle labbra, quasi si sentisse
superiore,
come se la rabbia dell’amico non lo scalfisse minimamente.
“Nessuno”, rispose con calcolata calma,
tanto da irritare maggiormente Harry.
Liam sapeva che con quel suo
atteggiamento gli avrebbe fatto perdere il controllo. La sua
tranquillità,
paragonata all’irritazione del riccio, non faceva altro che
fomentare il
crescente rancore che Harry provava nei confronti di Liam.
“Vaffanculo”, imprecò infine Harry,
uscendo dalla sua stessa stanza, lasciando che la porta sbattesse alle
sue
spalle.
Liam sorrise, vittorioso, ma allo stesso
tempo amareggiato da quella prevedibile reazione.
“Charlie!”, la richiamò Niall, seguendo
la ragazza per i corridoi della scuola.
Quel pomeriggio Charlotte si era
attardata a causa di un nuovo progetto scolastico incentrato
principalmente
sull’educazione ambientale a cui aveva deciso di partecipare.
Niall l’aveva
aspettata, deciso a voler chiarire con lei quella assurda situazione di
stallo
che si era creata.
Charlotte si pietrificò all’istante al
suono di quella voce che immediatamente riconobbe.
“Niall”, sussurrò sovrappensiero mentre
il ragazzo la raggiungeva.
“Non è come pensi”, esordì
con fretta ed
enfasi, spiazzando completamente la ragazza.
Charlie lo fissava con aria dubbiosa e
le labbra incurvate in un mezzo sorriso.
“La storia di Millie, dico”, chiarì poco
dopo, puntando i suoi occhi azzurri come il cielo in quelli ghiacciati
di lei.
“Non mi devi spiegazioni, Niall”, gli
fece notare, cercando di apparire quanto più naturale e
sincera possibile.
Ma Charlotte, in realtà, avrebbe davvero
voluto approfondire quella questione, tuttavia era consapevole di non
poter
pretendere nulla a riguardo.
“Invece sì”, controbatté con
tono deciso
Niall. “È successo prima, all’incirca
quando tu e Louis vi siete lasciati. È
stata un’unica volta, nulla di più”,
chiarì.
“Perché mi dici queste cose?”,
domandò
allora Charlie.
Era contenta, lo era davvero, ma aveva
bisogno di capire. Niall era un ragazzo dal cuore d’oro,
dunque poteva
tranquillamente immaginare che quelle fossero delle scuse rivolte ad
un’amica
stretta, ma Charlie non voleva essere un’amica. Non era
pronta ad avere una
nuova relazione, ma Niall le interessava veramente.
Il biondo le sorrise, incapace di
trovare una risposta a quella complicata domanda. Avrebbe potuto dirle
che
Charlie gli piaceva, che avrebbe voluto conoscerla meglio, ma tutto gli
sembrava terribilmente scontato e romantico.
“Perché un giorno di questi ti vorrei
chiedere di uscire con me”, dichiarò infine con un
sorriso raggiante che
Charlotte trovò assolutamente adorabile.
Bree oltrepassò la porta d’ingresso di
casa Wood, lasciata aperta da Audrey quando la rossa aveva citofonato
dal
cancello.
“Audrey, dove sei?”, domandò avanzando
lentamente nell’ingresso.
“Di sopra, ti aspetta nella sua stanza”,
esordì Millie, catturando l’attenzione di Bree.
Solo allora la rossa notò Millie in
compagnia di Zayn, in piedi al centro del salotto. Per qualche secondo
li
fissò, chiedendosi per quale motivo il moro fosse
lì, ma la risposta le si parò
letteralmente davanti agli occhi.
“Non ti darò altre pasticche”,
tuonò
Zayn in un sussurro perentorio.
Millie lo guardava accigliata,
infastidita da quel suo rifiuto. Erano minuti che provava ad
estorcergli in
qualsiasi modo un’altra pasticca di ecstasy, ma lui era
categorico.
“Te la pago il doppio”, propose allora,
avviandosi già alla ricerca del portafogli.
“Non me ne faccio un cazzo dei tuoi
soldi, Millie”, esplose in un impeto di rabbia che fece
raggelare le due
ragazze.
Zayn prese un profondo respiro, per
ritrovare la calma che era appena stata spazzata via
dall’impulsività. Non era
solito perdere il controllo, soprattutto non a causa di una ragazza che
implorava per ricevere un’altra dose di chissà
cosa da lui, ma con Millie non
era riuscito a resistere. L’aveva vista iniziare con pochi
grammi di fumo, che
poi erano aumentati sempre di più, fino a trasformarsi in
ecstasy, talvolta
anfetamine e qualche rara dose di cocaina. In quel preciso istante le
parole di
Charlie riecheggiarono nella sua memoria e fu costretto a darle
ragione. Si
chiese come ancora riuscisse a divulgare quella roba, come la sua
coscienza
glielo permettesse.
“Mi pare non ti abbiano mai fatto
schifo”, ribatté lei, sfidandolo con lo sguardo.
Aveva bisogno di qualcosa, qualsiasi
cosa, non le interessava da dove provenisse o quali danni potesse
arrecare al
suo sistema nervoso e al suo corpo. Voleva sentire quella sensazione
istantanea
di benessere, fiducia ed euforia, non le importava altro.
“Non avrai quello che vuoi, la questione
è chiusa”, sentenziò Zayn con voce
decisa e dura, mentre già si avviava alla
porta.
“Vaffanculo!”, urlò Millie, prima che
Zayn uscisse definitivamente da quella casa.
Millie sbuffò, lasciandosi rumorosamente
cadere sul divano.
“Piaciuto lo spettacolo?”, borbottò poi
all’indirizzo di Bree che, immobile, aveva osservato tutta la
scena.
Storse il labbro, in un’espressione
desolata. Conosceva bene quella sensazione di insoddisfazione, anche se
i
motivi che conducevano ad essa erano totalmente diversi.
“L’ha fatto per il tuo bene”,
provò a
dire.
Bree aveva davvero apprezzato il gesto
di Zayn e, probabilmente, anche Millie l’avrebbe fatto se non
avesse provato
del risentimento nei confronti del
moro
per quella richiesta inappagata.
“E da quando se ne preoccupa?”, il tono
ironico di Millie era una chiara accusa per Zayn.
Bree scrollò le spalle, non conoscendo
la risposta a quella domanda. Le rivolse un ultimo sorriso, poi si
decise a
raggiungere Audrey al piano superiore.
Margaret aveva ormai smesso di correre,
lo aveva fatto per talmente tanto che ad un tratto aveva sentito una
forte
fitta alla pancia ed il fiato corto. Si era raggomitolata su una
panchina
piuttosto isolata di un parco dove Charlie l’aveva portata
qualche giorno
prima.
“Margaret”, la voce allegra di Louis la
scosse, tanto che trasalì. “Ehi, tranquilla. Sono
io”, riprese il ragazzo,
palesando la sua presenza alla vista ancora annebbiata di Margaret.
“Non volevo
spaventarti”, si scusò sedendosi accanto alla
ragazza.
Margaret piegò le labbra in una leggera
smorfia, per nulla assimilabile ad un sorriso. Louis quasi non riusciva
a
credere che quella fosse davvero lei, la Margaret sorridente e
raggiante che
aveva conosciuto. I suoi occhi erano ancora umidi, il suo sguardo
preoccupato e
disperato allo stesso tempo.
“Che succede?”, la domanda di Louis
riportò i pensieri di Margaret alla discussione che aveva
avuto con i suoi
genitori, facendo riemergere quelle terribili sensazioni.
“Abbracciami, Louis”, mormorò tra i
singhiozzi, mentre cercava con le mani il corpo del ragazzo.
“Abbracciami”,
ripeté affondando la testa sul petto di Louis, che
prontamente l’avvolse tra le
sue braccia.
Non fece altre domande, ascoltò in
silenzio il rumore dei suoi singhiozzi ed il battito sconnesso del suo
cuore,
cercando di trasmettere attraverso quel contatto tutto il sostegno e
l’affetto
di cui Margaret necessitava.
Angolo Autrice
E finalmente rieccomi!! Al solito sono sempre più in ritrado e chiedo infinitamente scusa per questo.
Questa volta ero davvero convinta che ci avrei messo poco ad aggiornare ed, invece, siamo sempre allo stesso punto.xD
Comunque, tornata da Torino -perché sì, sono stata al concerto e ancora non riesco a crederci di averli visti per davvero *.*-
mi sono imposta di rileggere il capitolo e finalmente sono riuscita a pubblicarlo! Sembra quasi un sogno!!!
Bene, spero ci sia ancora qualcuno interessato a seguire la storia e, per quanto ormai io sia diventata davvero poco credibile,
prometto che da oggi in poi gli aggiornamenti saranno più rapidi, anche perché ormai siamo in vacanza!!!;)
Ringrazio chi legge, ricorda, preferisce, segue e chi, dopo tutto questo tempo, avrà ancora la voglia di leggere questo capitolo!<3
E a proposito del capitolo... finalmente facciamo chiarezza su questo Jaan Paul e scopriamo qualcosina in più sulla vita della nostra Margaret.
Harry fa un minuscolo passo avanti verso Audrey e finalmente sembra dire la sua con Liam.
Charlie e Niall sembrano momentaneamente sempre più vicini, mentre tra Zayn e Millie sono scintille.
E, quindi, ora vi chiedo: che ve ne pare?? Non mi dilungo troppo, anche perché proprio ora sto revisionando i capitoli successivi,
quindi... meglio cogliere l'attimo finché ci sono!!!
Lasciate un commento se vi va, qualsiasi consiglio è ben accetto!!;)
Alla prossima!;)
Astrea_