“Dove sei stato?”
La rabbia di Sherlock era palpabile, una specie di miasma che rendeva l’aria attorno a lui irrespirabile.
Il temperamento atrabile – un rigurgito di bile nera – non era semplice inclinazione di carattere, ma uno chador realizzato su misura per lui, una
disposizione d’animo che metteva in soggezione qualunque persona avesse la
malaugurata sorte di osservare lo sfacelo che tendeva a creargli attorno, come terra
bruciata.
John era uno dei pochi
fortunati ad essere sopravvissuto all’esperienza senza avere i nervi a pezzi e
meglio ancora ad aver imparato ad arginarne i danni.
Cadeva una pioggia torrenziale, un temporale estivo e insieme qualcosa di più
violento e aggressivo. Entrando, lui parve portare con sé la bufera che batteva
contro le finestre il suo vento infernale, facendone tremare i vetri.
John poteva vederla imperversare
nei suoi occhi, da cui schizzavano balenii d’astio. “Sherlock,” sospirò. Aprì
le braccia per mostrargli il suo aspetto dimesso, forte della convinzione che lui
avrebbe dedotto la situazione senza che dovesse spiegargliela.
“Sta meglio?” Come da copione. Ancora incupito,
Sherlock si fece largo nell’ingresso e nel salotto, provvedendo a sfilarsi
cappotto e sciarpa zuppi, a disporli di traverso sullo schienale del divano e
poi a occupare il suo posto preferito.
“Mary è di sopra con
lei. Sono queste coliche.” Si massaggiò il collo indolenzito. “Non ci danno
pace, specialmente la notte.”
“Immagino la vostra
cura: massaggi e sciocche canzoncine. Nessuna sorpresa che vi tenga svegli.
Chiunque possieda un minimo di criterio reagirebbe al malessere aggiuntivo della
medicina sfogandosi con crisi di pianto.”
John aveva una catena di
notti insonni a pesargli sulle spalle, inclusa quella in corso, e similmente a
Sherlock anche il suo umore non era tutto ‘rose e fiori’. Si strofinò gli occhi,
contenendo uno sbadiglio e un’imprecazione. “Dimmi cosa vuoi, Sherlock.”
Sherlock deglutì e John fu
subito in allerta, improvvisamente cosciente del qualcosa nel suo sguardo inquieto, che era di un colore perfino più
instabile e umorale del solito, nel modo in cui teneva le braccia irrigidite sulle
gambe e si tastava il viso con mani smaniose; del qualcosa, nel suo atteggiamento, che era tutto fuorché composto o
controllato, nulla di regolato da quella sua dura disciplina di ordine e fredda,
a tratti spietata, logica mentale.
Capitava di rado di
intravedere quel lato di Sherlock ed ogni volta era tremendo: era come spiare
dal buco della serratura qualcuno, violare la natura intima di un segreto.
Sherlock era nervoso e
allucinato e questo non rendeva John teso o agitato. Lo terrorizzava
fottutamente.
“John.” Sherlock rialzò
la faccia, una faccia cadaverica quasi quanto l’aveva avuta sul marciapiede del
Barts quel giorno maledetto di tre anni prima, quando John lo aveva trovato
sporco del sangue che, ora lo sapeva, non era gli era mai appartenuto. “Non
sono stato del tutto sincero.”
“Serve che chiami Mary?”
“Non occorre.” Mary
entrò nella stanza, chiudendosi meglio la vestaglia in vita.
Mentre pensava alla
straordinaria capacità di lei di materializzarsi al momento opportuno, Mary gli
indicò la radiolina-interfono che John si era praticamente dimenticato di aver
infilato in tasca. Era accesa; ergo, doveva
aver ascoltato tutto.
“Katie?”
“Dorme come un ghiro o
piuttosto come qualcuno che non lo ha fatto per due giorni di fila.” Il sorriso
fu una nuvola passeggera sul volto stanco di Mary, prima che lei si voltasse
verso Sherlock.
Lui ricambiò il suo sguardo
con uno altrettanto intenso. L’aria era densa, consistente al punto che la si
sarebbe potuta tagliare, quando lui annunciò tetro: “Dobbiamo parlare.”
-
*
John aveva preparato il
tè. Lo passò a Sherlock, che lo prese con una smorfia critica.
Lui fu rapido a
decifrarla. “Niente caffè. Ordini del medico.”
Sherlock arricciò le
labbra e assentì brevemente.
“Riguarda l’attentatore
di Molly, vero?” Tipico di Mary andare dritta al punto. Mary dalla mira perfetta.
Sherlock tacque.
“Sai chi è,” proseguì
lei imperterrita. “Ho sempre pensato che fosse strana la tua inattività e poi
quell’assurdo voler tenere Molly sotto chiave a Baker Street. A che scopo?”
“Era per proteggerla,
no?” domandò John in tono d’ovvietà.
Mary e Sherlock gli
dedicarono un’occhiata di uguale scetticismo. Dio, quanto li odiava quando facevano così.
“Mary ha ragione,
naturalmente.” Sherlock sospirò, un sospiro profondo come la gola di una
montagna. “Non è più una caccia al tesoro. Il prossimo non sarà un tentativo.”
“Ma è Moriarty,” fece
presente John. “Non la ucciderebbe mai. Non lo troverebbe abbastanza estremo.”
“Ecco perché vuole che
io la guardi morire.”
“La stessa performance
due volte? Non è da lui.”
Sherlock fece una
smorfia. “Non è lui.”
“Cosa –” John lo fissò di stucco. Sperò di aver sentito male, doveva. “Non è Moriarty?”
“Un suo sottoposto,
Sebastian Moran.”
E invece no, dannazione a lui, aveva sentito benissimo. “Perché il nome mi
ricorda qualcosa?” Aggrottò la fronte e poi la spianò, in preda alla sorpresa.
“Moran come Lord Moran? Quello
dell’attacco terroristico al Parlamento?”
“Lui era soltanto un
pesce pulitore, uno specchietto per le allodole. No, si tratta di suo figlio.”
John non riusciva a
capacitarsi. “Mi avevi fatto credere, avevi fatto credere a tutti che fosse
opera di Moriarty,” lo accusò, non badando a nascondere la rabbia e il biasimo
nella propria voce. Voleva che lui sentisse, che capisse definitivamente a cosa
portasse la sua tenacia nel volere tenere tutti all’oscuro di tutto, nell’idea
distorta che aveva di proteggerli.
“Perché è Moriarty.” Sherlock schizzò in piedi
come una dannata carica a molla in tantalio; si avvicinò con passi rabbiosi alla
finestra e scostò la tenda per controllare la strada. Pioveva ancora e lui
aveva l’aspetto di un lupo costretto in gabbia. “Tutto si ricollega a lui. È la
matrice di ogni male e questa è sempre stata una caccia alle ombre, sin
dall’inizio. L’ombra di un fantasma.”
John scosse la testa.
Continuava a non capire. “Cosa è cambiato? Be’, deve essere successo di sicuro
qualcosa per spingerti a venire qui e vuotare il sacco. Riguarda l’ultimo caso?
Quello del falsario? Greg… Lestrade,” si corresse con un sospiro veemente, perché
al nominarlo Sherlock aveva preso un’aria smarrita. “Mi ha mandato un
messaggio. Mi ha detto di chiedere a te e che non poteva scriverlo tramite sms.
Ha parlato di linee compromesse. Cosa diavolo sta succedendo?”
“Siamo osservati.
Costantemente. Possono introdursi
nei modem, nelle reti telefoniche, nei video di sorveglianza.”
“La pioggia,” si
intromise Mary, come se avesse avuto un lampo di intuizione.
Sherlock annuì, ricompensandola
con un veloce sorriso di gratifica. “La pioggia interferisce con i segnali, sì.”
“È a questo che ti serve
quella ragazza, Victoria. Lei è la tua torre di sorveglianza,” osservò Mary.
John si trattenne a
stento dallo sfregarsi le tempie. Uno avrebbe dovuto farci l’abitudine. Dopo
anni di misteri e complotti e cospirazioni e intrighi machiavellici, avrebbe
dovuto fare il callo a conversazioni che non avevano il minimo senso, non ne
acquisivano se non a cose fatte, elaborate. “Cosa sa Molly di tutto questo?”
Sherlock esitò.
L’argomento lo metteva in difficoltà, era evidente. Bene, pensò lui, il
risveglio della coscienza. “Quanto basta. Sa che conosco l’identità
dell’attentatore e che non si tratta di Moriarty. Se già aveva dei dubbi, Reading
li ha fomentati e da quando siamo tornati, tiene gli occhi ben aperti.”
“Brava ragazza,” approvò
Mary con una nota di orgoglio. “Cosa è successo lì?”
Sherlock glielo raccontò
in breve. John ne fu costernato.
“Chi si è spacciato per
falsario era Moran,” concluse Sherlock monocorde. “Nella rete di Moriarty il
suo nome in codice era colonnello.
Era una delle ambiguità di Moriarty. Io avevo il mio blogger, lui aveva il suo
colonnello a tenere in riga l’esercito.”
“Fantastico,” esclamò
John sarcastico.
Sherlock unì le mani e
le poggiò contro il mento. “Era intenzione di Moran che l’ingegnere che aveva
ingaggiato arrivasse a me in qualità di cliente, per questo non lo ha ucciso. Voleva
che mi portasse dritto da lui. Io ho fatto il suo gioco.” Scosse la testa, rannuvolandosi.
“No, ho fatto di peggio. Ho lasciato che Molly mi accompagnasse.”
“Non potevi saperlo,” lo
consolò Mary.
John provò a tirare le
somme, ma, per quanto provasse, il risultato non era mai lo stesso. In quel
macello, soltanto una cosa gli era lucidamente chiara. “Devi dirlo a Molly.”
Sherlock lo guardò come
se fosse pazzo. “È fuori discussione.”
“Se ho voce in capitolo
–”
“Non l’hai,” lo
interruppe Sherlock freddo.
“Ma se posso dire la mia
opinione –”
“Non puoi.”
“Al diavolo, Sherlock! Cosa
pensi di fare? Tenerla a Baker Street per altri sei, dieci, venti mesi? Fino a
quando non avrai risolto questa storia?”
“Se necessario, sì.”
John sapeva che ne
sarebbe stato capace. Razza di –
Mary gli posò una mano
sul braccio per frenarlo. Aveva le sopracciglia aggrottate e gli occhi limpidi scandagliavano
Sherlock con una prudenza calcolatrice. “È il motivo per cui sei qui. Cosa vuoi
di preciso?”
“Ci saranno altri casi.
Wiggins non basta più. Non posso fidarmi degli uomini di Mycroft. Mi servi tu,
Mary.”
Dunque era così. Voleva
proteggere Molly, ma non al punto da rinunciare a lei. Il sentimento che
subentrava negli schemi perfetti del suo hard
disk, simile a un virus, che li trasformava in arbitrari. Il sentimento che rendeva
la soluzione perfetta infattibile. Se non era quello amore, un amore egoistico
forse, ma pur sempre amore, John non sapeva che altro nome dargli.
Proprio perché anche il
suo amore era egoistico, John non poteva permettere che Mary si mettesse in
pericolo. Non riusciva quasi a credere che Sherlock glielo avesse chiesto. No, posso crederci invece. Io avrei fatto lo
stesso, l’ho fatto.
Si voltò verso Mary per
scoprire sconvolto che lei aveva già deciso. “Non intenderai accettare,”
protestò.
Mary gli sorrise, di un
sorriso che racchiudeva l’ossimoro che sua moglie rappresentava ai suoi occhi:
terribile e meraviglioso concentrati in un unico spazio. “Gli devo un favore e
poi Molly ha ragione; siamo una famiglia, John. Se un membro della mia famiglia
viene a chiedere il mio aiuto, non posso voltargli le spalle.”
C’erano momenti di
feroce, protettiva tensione tra loro, che si spegnevano, così com’erano
iniziati, nell’abisso di altri pensieri e sentimenti.
Quando
rientrò nell’appartamento, trovò che Molly si era addormentata.
Lasciò
che la scena gli riempisse gli occhi, per conservarla dietro una delle tante
porte bloccate del suo palazzo mentale.
Sherlock
avrebbe desiderato coprirla nella sua interezza, curvarsi a nascondere la morbidezza
del corpo minuto di lei con la spigolosità allungata del proprio. Nasconderla
al mondo e convincersi, avere la sicurezza che così facendo lei fosse al
sicuro.
Molly
dormiva profondamente, raggomitolata sulla sbiadita poltrona rosso pompeiano di
John.
Lui,
intanto, gocciolava sul pavimento la pioggia e l’umidità che la nebbia di
Londra gli aveva buttato addosso.
Sherlock
la prese in braccio e la testa di Molly trovò d’istinto la curvatura inospitale
tra spalla, clavicola e collo che lei dava mostra di apprezzare particolarmente.
“Sherlock,”
mormorò nel sonno e le sue dita affusolate afferrarono il risvolto bagnato del
Belstaff.
Lui
provò qualcosa, un’oscillazione rapida, ma moderatamente frenata, all’altezza
della trachea, tra bronchi e polmoni, che vibrava di un accento di disperazione.
“Sono
qui.” Le sfiorò la tempia con le labbra, in un bacio che non era un bacio, ma
solo la sua carezza. “Andiamo a letto, Molly.”
Non
avrebbe dormito. Veder dormire lei era l’unico riposo di cui abbisognasse, il
riposo più soddisfacente che riuscisse a immaginare.
“Cara,
non trovi anche tu che ultimamente la casa sia piuttosto movimentata? Più del
solito, intendo.”
Era
una mattina qualunque e Molly stava facendo colazione con uova e bacon. Posò forchetta
e coltello e, riflettendoci sopra, dovette convenire con quanto Mrs. Hudson
aveva detto. La casa non era solo movimentata, era affollata.
Wiggins
e Victoria si erano praticamente trasferiti in pianta stabile al 221C – dal
basamento arrivava ormai forte e chiara musica rock ad ogni ora del giorno e
della notte, con buona pace dei pomeriggi del gruppo di studio, che dovevano
accontentarsi di occupare abusivamente la cucina sempre disponibile di Mrs.
Hudson o, in casi fortuiti e più unici che rari, il salotto del 221B.
E
poi c’era Mary, che da una settimana e mezza a quella parte aveva cominciato a trascorrere
le sue mattinate con lei. Era ancora in congedo di maternità, lo sarebbe stata
fino a metà settembre. (Non era insolito che Mary si fermasse anche a dormire a
Baker Street in caso di lontananza di John, quando un caso con Sherlock lo
teneva impegnato, trattenendolo nottetempo.
Molly
le cedeva volentieri la camera in cima alle scale, approfittando dell’assenza
facoltativa di Sherlock per appropriarsi di quella di lui che aveva il letto
più comodo.)
Non
che a Molly quei cambiamenti abitativi risultassero sgraditi, tutt’altro.
Cessate
le estemporanee passeggiate notturne con Wiggins con la giustificazione di
‘certi affari in sospeso con Mr. Holmes’ (a cui Molly avrebbe anche potuto
fingere di credere se Wiggins si fosse dato pena di nascondere l’ozio che tali
attività fantasma operavano sulle sue giornate e se, per amor di decenza,
avesse smesso di girare in mutande supereroistiche con l’aria spensierata di
chi non ha urgenti occupazioni o impegni a profilarsi all’orizzonte), sarebbe
caduta presto preda della noia più lugubre se non fosse stato per la costante
presenza di Mary e Katie e di Mrs. Hudson, di Victoria e dello stesso Wiggins, a
portata di voce.
Ciò
nonostante doveva ammettere che questo nuovo quadro casalingo, per quanto
indubbiamente amabile, non soltanto si presentasse sospetto, ma che lo fosse incredibilmente.
Aveva avuto una guardia del corpo e una balia, ora si rendeva conto di avere
un’intera guardia d’onore preposta alla sua sicurezza.
Avrebbe
potuto chiedere spiegazioni; chiedere cosa, di preciso, fosse cambiato per
spingere tutti ad una risoluzione radicalizzata come quella. (Per quello, Molly
era loro grata davvero. Si erano chiusi attorno a lei in un cerchio, in modo
compatto, come una formazione di difesa da testuggine romana.)
Avrebbe
potuto pretendere di essere messa a parte, ma non lo avrebbe fatto. Non
intendeva arrendersi all’ignoranza e la sua non voleva essere una meschina prova
di forza.
Avrebbe
aspettato e taciuto perché in quel frangente, come in altri, sperava che
Sherlock scegliesse di confidarsi con lei sinceramente, quando fosse stato
pronto.
Riprese
coltello e forchetta e prese un boccone particolarmente abbondante. “Davvero?
Non me n’ero accorta,” rispose distratta.
*
“E
se Molly dovesse fare domande?”
“Non
ne farà.” Sherlock appariva sicuro di quel che diceva, ma John non si era arreso.
“Io
ne farei.”
“Molly
non è te.”
C’era,
nel modo in cui lo aveva detto, un complimento rivolto unicamente a lei.
“Perché
non dovrebbe? Ne avrebbe ogni sacrosanto diritto.”
“Non
ne farà perché si fida di me.”
Anch’io mi fido di te, era stato sul punto di
replicare John, sentendosi in qualche modo indignato e insultato. Poi aveva
capito cosa Sherlock intendesse.
“Il
mondo è pieno di cose ovvie che nessuno si prende mai la cura di osservare,*”
disse, citando un’espressione che lo stesso Sherlock aveva usato, anni
addietro. La smisurata lealtà e devozione di una singola persona, tanto per
dirne una.
Sherlock
aveva sollevato il bavero, osservando con occhi stranamente luminosi la strada
deserta e le radiazioni arancioni del lampione. “Questa è la mia fortuna.”
N/A:
Questo è stato
un capitolo di necessario passaggio. Adesso potete fare supposizioni precise,
non definitive, riguardo l’identità dell’attentatore, incluse le sue ragioni o
il perché abbia mandato in maxischermo l’immagine di Moriarty in diretta nazionale.
Semplice depistaggio o c’è altro in ballo?
E Molly… Oh, cosa posso farci se la adoro? No, di più, credo di idolatrarla.
Questa donna è una forza della natura. Non batte ciglio di fronte a niente,
tiene testa a Sherlock e non fa domande. Potresti andare da lei a
chiederle di aiutarti a seppellire un corpo e lei non strillerebbe ‘Sacripante,
cosa hai fatto!’, ma probabilmente si limiterebbe a chiedere se hai controllato
che il corpo in questione fosse effettivamente morto e il punto in cui
intendi seppellirlo. Perché questa donna ama Sherlock Holmes e lo capisce e sa
riconoscere le priorità.
Ammetto, se posso permettermi di dirlo senza sembrare una sciocca vanesia e in
tal caso linciatemi pure, che questo sia uno dei miei capitoli preferiti finora.
Non ci sono veri e propri momenti tra Sherlock e Molly, ma i sentimenti
traspaiono, soprattutto da parte di Sherlock e scriverlo non è solo stato
emotivamente delizioso, ma ‘scuotente’, passatemi il termine che non me ne
sovviene un altro.
*Da “Il mastino di Baskerville” di Arthur Conan Doyle. (Di nuovo io che cito
Sherlock tramite John :D)
Bacioni a tutte, alla prossima!
P.s.: se posso
permettervi un consiglio (o di darvi dei compiti per riempire l’attesa) vi
direi di andare a rileggere, o nel caso leggere, L'avventura del nobile
scapolo, solo per farvi un’idea dell’atmosfera e del mistero a cui è
dedicato il prossimo capitolo.