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Autore: Pineapple__    10/07/2014    5 recensioni
"Fino a che punto si è disposti a sacrificarsi per proteggere ciò che più si ama?"
La storia si svolge su un'isola fredda e deserta, dove il capitano Law viene esiliato dalla Marina in cambio della salvezza della sua ciurma. Ma, un giorno, mentre è impegnato a contemplare il mare in tempesta, la sua attenzione viene attratta da una cesta bruciacchiata. Il canestrino nasconde una piccola neonata, arrivata da chissadove, come per uno scherzo del destino sull'isola di Law. Il chirurgo è scettico a riguardo, ma decide di crescere come la piccola come fosse sua figlia. Comincia così una conversione per il nostro spietato capitano, il quale scoprirà quanto sia meraviglioso, e a volte pericoloso, voler bene a qualcuno.
Genere: Azione, Introspettivo, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: Lemon | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Lascio la porta aperta come tentativo
Per favore portatemi via da qui
Perché soffro d’insonnia
Per favore portatemi via da qui
Perché sono stanco di contare le pecore?
Per favore portatemi via da qui
Quando sono davvero troppo stanco
Per addormentarmi tra dieci milioni di lucciole
Sono un tipo stano perché odio gli addii
Ho gli occhi pieni di lacrime
Quando la gente mi dice arrivederci.
-Owl City, Fireflies-
 
 
 
 
”Yuki…”
 
La bambina si voltò lentamente, timorosa di quello che le si sarebbe presentato dinanzi. La piccina dalla cadaverica pelle di porcellana era lì, che la osservava inespressiva, dal baratro senza fine dei suoi occhi. Anche l’ambiente che le circondava era oscuro, freddo.
 
“Cosa vuoi? Chi sei?”
 
”Sono io, sono Koori. E tu rimarrai sempre con me.”
 
La castana indietreggiò.
 
“No, io devo andare dal mio papà. Devo diventare un pirata e vivere mille avventure!”
 
”Sciocca. Le ho promesso che ti avrei protetta, e lo farò.”
 
“Lei chi?”
 
”Vieni con me e lo scoprirai.”
 
 “No! Scordati che verrò con te!”
 
La bimba dai lunghissimi capelli corvini scomparve e subito le riapparve di fronte, afferrandole sgraziatamente un polso. Immediatamente il braccio di Yuki si irrigidì e una spiacevole sensazione di gelo la percorse da capo a piedi.
 
”Tu verrai con me, che ti piaccia o no.”
 
“C’è già papà che mi protegge!”
 
”Ti ostini a dire questo, ma non è ancora arrivato.”
 
“Arriverà presto!”
 
”Testarda, come può amare una bambina che non è sua figlia?”
 
“Lui mi vuole bene!”
 
Il freddo aumentò d’intensità, tanto che la bambina dai capelli castani cominciò a tremare.
 
”L’hai voluto tu. Non volevo farlo ma sarò costretta a raccontarti tutta la verità.”
 
**
 
Il moro scrutava imperterrito l’orizzonte, per quanto fosse possibile. Un fittissimo banco di nebbia si estendeva interminabile intorno alla nave, accarezzandone lo scafo con i suoi leggeri e al contempo inquietanti sbuffi lattei. Pareva che le anime dei detenuti di quel misterioso carcere della Marina si fossero addensate attorno ad esso, impossibilitate a trovare il meritato riposo. Eternamente legate a quel mitologico luogo di sofferenza che, con il tempo, aveva sollevato leggende infondate come quella sopracitata. Era stato un autentico spasso vedere le espressioni atterrite di Usopp e Chopper non appena sentirono quell’angosciante storia. Mito o meno, non avrebbe mai lasciato di Yuki si unisse a quello stuolo di ectoplasmi sofferenti.
 
Erano ormai passati quindici giorni dal rapimento della sua bambina. Il calendario segnava precisamente il diciannove dicembre, ovvero sei giorni mancavano alla festa preferita dalla figlia: Natale. Ricordava divertito tutti quegli stucchevoli, forse per troppo per un tipo serio e cupo come lui, momenti natalizi passati insieme a lei; il tintinnare dei campanelli che la piccola si divertiva ad appendere per tutta casa, lo sfavillio delle ghirlande e del loro spelacchiato albero di Natale, il profumo invitante dei biscotti la mattina del venticinque. Erano tutti piccoli momenti che rimembrava con letizia e, chiudendo gli occhi, riusciva di nuovo a vedere il suo sorriso entusiasta mentre addobbava il salone e intonava a bassa voce, conscia che il padre non gradisse, quegli infantili canti natalizi. Scosse la testa e dischiuse di nuovo le palpebre, questa volta trovandosi davanti il capitano della Sunny che gli sorrideva a trentadue denti.
 
“Mugiwara-ya, la vuoi piantare? Mi farai prendere un infarto prima o poi.” sospirò esasperato spiattellandogli una mano in faccia nel tentativo di allontanarlo.
 
“I preparativi sono finiti!” esclamò agitando forsennatamente le braccia.
 
“Sul serio? Forza, allora, sono curioso di vedere il piano che mi avete tenuto nascosto per tutto questo tempo.” sogghignò il corvino lanciandogli un’occhiata di sfida.
 
Rufy lo afferrò entusiasta per il braccio e lo trascinò, impaziente di mostrargli il piano da lui stesso ingegnosamente creato. Che con il passare dell’età abbia acquisito qualche neurone in più? Pensandoci bene, negli ultimi giorni tutti i componenti della Ciurma di Cappello di Paglia si comportavano in modo strano e fin troppo schivo. Soltanto il piccolo Touya gli si avvicinava con la sua solita spontaneità, facendosi scoprire un bimbo allegro e con un grande appetito, tuttavia possedeva arguzia e intelligenza, unita a una spiccata dote di osservazione. Solo dopo aver attaccato al muro Usopp e avendolo costretto a cantare puntandogli la Nodachi alla gola, aveva scoperto che Luffy aveva un piano geniale in mente per infiltrarsi a Guantanamo 51 e ci teneva che fosse una sorpresa.
 
La maggior parte delle volte, però, l’euforia di Rufy era altamente pericolosa. Sbatté violentemente il ventre contro la balaustra, per poi fulminare il responsabile con lo sguardo. Non ebbe nemmeno il tempo per incazzarsi come si deve che una scena alquanto ridicola gli si presentò dinanzi. Vari materassi erano sparpagliati alla rinfusa per il ponte, completamente spogli e privi di corredo. Mentre gli altri erano impegnati ad accatastare i morbidi giacigli sull’erba, Nami e Robin, vestite in abiti particolarmente professionali e professionalmente succinti, provavano varie frasi che le facevano assomigliare a delle venditrici porta a porta. Puntò con il dito la grottesca cornice, solo riuscendo a boccheggiare parole sconnesse tra loro. Non era la prima volta che i Mugiwara gli facevano questo tipo di spiacevoli sorprese.
 
“Allora, ti piace? Robin, Nami e Usopp si fingeranno venditrici porta a porta di materassi mentre io, te, Sanji e Zoro scendiamo per il condotto fognario, arriviamo alle celle, prendiamo Yuki, meniamo un po’ le mani e scappiamo!” attestò fieramente il moretto.
 
“E’ una missione di salvataggio, idiota, dobbiamo fare meno confusione possibile. Sostituisci il Cuoco con lo Scheletro. Bah, che razza di piano cretino, sapevo che non avrei dovuto fidarmi di voi.” sbuffo passandosi esasperato una mano sul viso.
 
“Va bene! Ehi, Sanji, ti dispiacerebbe fare a cambio con Brook?” domandò catturando l’attenzione dei diretti interessati
 
Prima che il biondo potesse rispondere, la vocina di Touya proveniente dalla posizione di vedetta fece accalcare tutta la ciurma, ospite per primo, verso la prua della nave. Il moro aguzzò il glaciale sguardo, cominciando a intravedere un possente edificio che si stagliava in mezzo alla nebbia, arroccato su un altro altrettanto grande scoglio. Tutto taceva. L’unica cosa udibile erano i secchi scricchiolii che la nave produceva cullata dalle onde e la brezza che avvolgeva i dintorni nelle sue fredde spire. Approssimandosi ancora di più, notarono due alberi sempreverdi posti all’entrata principale della prigione e pure le loro fronde ondeggiavano quasi minacciose alle spazzate del vento.
 
Pareva proprio uno di questi mostri di cui, con timore, Yuki parlava per poi fiondarsi nel letto paterno in cerca di protezione. Solo che quello non era un’illusione, né una proiezione astratta della mente di una bambina spaventata dal sinistro e insistente picchiettare di un ramo contro il vetro della finestra. Era un mostro fatto di mattoni i cui alberi rappresentavano i lunghi denti che sporgevano dalle enormi fauci piegate in un malefico sogghigno, mentre la banchisa in legno per l’attracco delle navi sembrava esplicitare le lunghe e anchilosate braccia della creatura, pronte ad afferrare chiunque si trovi nel suo raggio d’azione per trascinarlo con sé in un limbo di oscura dannazione.
 
Entrate, provate a sfidarmi. Ma dubito che ne uscirete vivi.
 
Tutti gli occhi della ciurma si erano puntanti sul capitano degli Hearts. I denti perfettamente allineati del moro erano rabbiosamente digrignati, gli occhi impegnati a fissare con astio l’edificio che si approssimava sempre di più. Finalmente attraccarono alla scricchiolante banchina lignea e i partecipanti alla missione di salvataggio scesero frettolosamente dalla nave, cercando di produrre il minimo rumore possibile, alla stregua di ladri che si appropinquavano a compiere un efferato furto. Trafalgar strinse la Nodachi tra le grandi e callose mani. La sensazione che provava sulla pelle era viscida e stomachevole, pensando a cosa avrebbero potuto fare a Yuki durante quelle due settimane di separazione. Il pensiero che la sua bambina stesse soffrendo, da sola, lontana da suo papà e circondata da persone crudeli e senza cuore, gli faceva salire la bile al cervello.
 
Distolse lo sguardo dall’edificio. Non era assolutamente il momento per farsi sopraffare dall’ira che faceva pulsare in lui la voglia di piombare all’interno della prigione e operare una strage di qualunque essere senziente, galeotto o secondino che fosse, per poi recuperare la propria figlia e squagliarsela come se nulla fosse successo. Ma sapeva che non sarebbe andata così. Si incamminò seguito dagli altri componenti della squadra di soccorso, mentre Robin e Nami si avviavano verso la porta principale e Usopp arrancava sotto il peso dei numerosi materassi che recava sulla schiena. Raggiunsero un tombino che si trovava al lato del penitenziario. Il vomitevole stemma della Marina spiccava tra i rombi di lega metallica che lo formavano. Rufy si chinò e tentò, inutilmente, di scoperchiare l’accesso al condotto fognario. Provò pure a colpirlo con un pugno, ma fu prontamente fermato dalla mano di Law.
 
“Cretino, se gli dai una pugno e lo deformi poi è ovvio che non riusciremo più a sollevarlo.” riferì freddamente mollando la presa sul gommoso arto del Capitano.
 
Con un cenno della testa fece capire allo spadaccino dai capelli verdi di tagliare in due la coperchiatura del chiusino. Il verde annuì leggermente ed estrasse la sua Shuusui dall’atro fodero, preparandosi per scagliare un micidiale fendente. Il Chirurgo rimase a fissare per qualche secondo la tenebrosa lama della katana, domandandosi se anche lui avrebbe avuto occasione di utilizzare la sua arma. Una sciabolata raggiunse la spessa lastra tondeggiante, lacerandola esattamente a metà e lasciando che le due parti ottenute cadessero di sotto, tuffandosi nelle stagnati acque delle fognature. Un puzzo di marcio impregnò l’aria circostante costringendo i quattro a tapparsi il naso con espressione rigettata.
 
“Law-san… Dobbiamo per forza calarci qui dentro? Non c’è un’altra strada?” alitò Brook sbuffando contrariato.
 
“Ringraziate il vostro caro Capitano se vi trovate in questa situazione. Siete pirati, comunque, non fate le donnicciole e portate il vostro culo lì sotto.” intimò il moro quasi ringhiando.
 
“Qualcuno qui deve tenere a freno i suoi schizzi da donna mestruata.” sospirò a bassa voce Zoro calandosi dalla scaletta attaccata alla parete.
 
Raggiunsero finalmente il convoglio di quella fetida cloaca, nella quale il puzzo che aleggiava era quasi insopportabile. Le incrostate pareti verdine e una decina di paia di occhietti rossi che li fissavano dalla penombra, probabilmente appartenenti a dei roditori di passaggio, conferivano all’ambiente attiguo un’ambientazione da scadente film dell’orrore. Presero a camminare senza una meta precisa, ovviamente capitanati da Law, seguendo le opache frecce segnaletiche che conducevano alle vie di fuga del condotto fognario. Nessuno osava proferire parola e il silenzio assoluto spirava tra quei nauseabondi corridoi, solamente interrotti dal celere rumore dei loro passi e dalle saltuarie grida di qualche prigioniero apparentemente fustigato. Il moro strinse collericamente i pugni all’interno delle calde tasche; come avrebbe reagito, se si fosse veramente trovato davanti la sua Yuki con evidenti segni violenza gratuita sul corpo? Una mano lo afferrò per il cappuccio della felpa che sbordava dalla giacca, costringendolo a fermarsi.
 
“Guarda qui. C’è scritto…” cominciò Zoro.
 
“Ingresso celle. Siamo arrivati.” lo interruppe il Chirurgo, deglutendo sonoramente.
 
La tensione tra i tre pirati aveva quasi formato una cortina di nebbia simile a quella esterna all’edificio, tanto era spessa e tangibile. Solo quel babbeo di Rufy continuava a mantenere alto lo spirito positivistico della squadra, con quella sua faccia gommosa tirata in un intrepido sorriso. Trafalgar afferrò il primo piolo della scala e si issò fino a raggiungerne la sommità, allungando l’istoriata mano per testare se almeno quel tombino fosse docile all’apertura senza prevedere metodi violenti. Incredibilmente, il chiusino si aprì solo con una leggera pressione delle appendici. Lo scostò ed uscì in superficie, facendo cenno ai suoi compagni di darsi una mossa ed uscire dal buco. Era sollevato di respirare un po’ di aria fresca che, se fresca si poteva chiamare, era sempre meglio di quel ripugnante odore di uova marce delle fogne. Un altro macabro scenario gli si presentò dinanzi, il quale gli fece per un effimero attimo rimpiangere le sedimentate pareti della cloaca. Un unico colore, il grigio, si estendeva a perdita d’occhio davanti ai suoi occhi. Innumerevoli celle poste ad alveare erano dislocate in fila perfetta su vari livelli, come fosse una scacchiera. Dagli angusti e spogli vani provenivano disperate grida dei prigionieri seviziati da dei sadici Marines. Era deciso che Yuki non sarebbe rimasta un secondo più a lungo in quel crudele inferno.
 
Si assicurò che i suoi compari fossero usciti dal tombino prima di richiuderlo, lasciando una piccola apertura per quando avessero dovuto scappare. Cominciarono a correre il più silenziosamente possibile, evitando sguardi indiscreti di guardie o prigionieri e, quando qualcuno riusciva a vederli, Brook li addormentava con il suo violino prima che essi riuscissero a chiamare i soccorsi. I Mugiwara non avevano assolutamente idea di dove fosse stata rinchiusa Yuki, semplicemente seguivano il Capitano degli Heart. Dal canto suo, il Chiruro, sembrava sapere perfettamente in che direzione recarsi. Non riusciva a distinguere se fosse semplicemente intuito oppure i suoi istinti paterni completamente all’erta durante ricerca della figlia gli mostrassero, alla stregua di un radar, la posizione della figlia. Sentiva solo che doveva accelerare ancora, ancora. Sentiva che la sua bambina stava soffrendo non poco, percepiva il suo pianto interiore, anche se nell’aria non risuonava nessun rumore riconducibile al gemito di quella sventurata creatura.
 
Si fermò repentinamente, percependo una familiare sensazione di intenso freddo. Fece cenno agli altri di fermarsi, mentre lui avanzava solitario verso una cella in particolare. Un tremito lo percorse da capo a piedi, squassandolo nel profondo; da quella nicchia scavata nella roccia, trapelavano appuntiti ghiaccioli cinerei. Era come una fortezza, protetta da individui malvagi attraverso drastici sistemi di difesa. Vi si precipitò dinanzi e lo spettacolo che si parò davanti ai suoi occhi era… orribile; una vera e propria foresta di acuminati coni di ghiaccio ricopriva interamente le pareti pietrose. Ma il particolare più inquietante era che varie parti umane, probabilmente appartenenti a Marines, erano infilzate su quei glaciali puntigli, macchiandoli di sgargiante liquido cremisi. In mezzo alla stanza, dove un piccolo stralcio di pavimento era stato risparmiato, giaceva lei… Yuki. Gli occhi serrati e un’espressione fin troppo rilassata sul viso. Dalla sua posizione Law non riusciva a scorgere il flebile alzarsi e abbassarsi della gabbia toracica della piccola, né gli smorzati tremolii che percorrevano il corpicino diafano e nudo, imbrattato da importanti segni di percosse.
 
“Yuki.” la chiamò, tentando di mantenere un tono di voce saldo “Yuki, sono papà. Alzati.”
 
Il Chirurgo si sentì morire il fiato in gola, vedendo la mancata risposta della figlia. Se ne stava lì, semplicemente immobile. Cadaverica. Strinse furiosamente le sbarre tra le callose mani, ferendosi con l’appuntito ghiaccio. Scosse violentemente la testa. Non voleva crederci. Solo stringendo al suo petto l’inerme corpicino della figlia e costatando che davvero l’aveva lasciato si sarebbe arreso all’evidenza che il lavoro di padre l’aveva solo condotto alla rovina emotiva. Ma non si poteva arrendere proprio in quel momento. L’avrebbe salvata ad ogni costo. Richiamò Room e, con un fendente ben assestato, si aprì un varco all’interno della cella. Impudente, camminò sopra le aguzzate stalagmiti, digrignando i denti sentendole bucare la suola degli stivali e conficcarsi come famelici denti nella pianta del piede. Avanzò imperterrito, non curandosi dei lancinanti dolori, deciso a riprendersi la sua bambina. Per troppo tempo erano stati separati ed ora che era a pochi centimetri da lei non si sarebbe certamente lasciato intimorire da delle ferite. Quelle si sarebbero curate, più o meno facilmente, ma non esisteva una cura per un animo lacerato. Anche un tipo freddo e refrattario come lui lo sapeva.
 
Finalmente la raggiunse e le se inginocchiò di fianco. Ancora una volta ebbe quella sgradevole sensazione di umido agli occhi, mentre si toglieva con cura la giacca e vi ci avvolgeva il corpicino impotente della bambina. La prese, finalmente, dopo tanto tempo, in braccio e la strinse con dolcezza a sé, constatando che era ancora viva. Le passò una mano tra i fibrosi e scoloriti capelli castani, non più brillanti come una volta, accarezzandoli con innata premura. Si chiese che razza di padre fosse, permettere a degli sconosciuti di far del male alla propria figlia. Quella creatura che ogni giorno lo svegliava ad un orario indecente con il suo contagioso sorriso ora era lì, stretta tra le sue braccia, inerme spettatrice e innocente cavia di uomini senza scrupoli che avrebbero dovuto rappresentare la giustizia. Oscillava, Yuki, tra la vita e la morte,  e la colpa di tutto era innegabilmente riconducibile a suo padre. Le posò un delicato bacio sulla fronte, scoprendola estremamente calda. Si alzò in piedi, cullandola con estrema dolcezza, come quando, da piccola, aveva bisogno delle protettive braccia del suo papà per sentirsi al sicuro e protetta. Quella protezione che Law si era solamente illuso di offrirle. Ma non avrebbe mai permesso che quelli fossero solamente bei ricordi della sua Yuki. Yuki avrebbe continuato a vivere. Sarebbero usciti insieme, dalla pancia di quel mostro di pietra.
 
“Non ti preoccupare, Yuki, ora papà è qui. Non lascerò più che ti facciano del male.” le sussurrò sfregando delicatamente la punta del naso contro la smunta guancia della bimba.
 
Retrocesse con artificiosa lentezza, procurandosi nuove ferite ai piedi. Questa volta non riuscì a percepire assolutamente nulla, nemmeno il più flebile pizzicorio, troppo impegnato ad osservare con muta disperazione il flebile alzarsi e abbassarsi spasmodico del diaframma del tremante corpicino acciambellato contro il suo scolpito petto. Avrebbe pagato qualunque cifra per rivedere quei brillanti smeraldi posarsi allegramente sul suo impassibile viso, per sentire due piccole braccia allacciarsi alla sua gamba anche solo in cerca di una fugace carezza sull’ondulata chioma castana. Ma era cosciente, in cuor suo, che la possibilità che questo non potesse più accadere era tutt’altro che remota. Finalmente fuori da quell’inferno di ghiaccio e sangue, incontrò lo sguardo degli altri membri della squadra. Si erano approssimati fino a raggiungere l’entrata della cella, senza osare avventurarsi oltre la soglia; erano consapevoli che il Chirurgo della Morte l’avrebbe considerato un gesto invadente. Il moro alzò gli occhi, incontrando per primi quelli del Capitano dei Mugiwara. Aveva assunto un’espressione alquanto insolita per un ragazzo perennemente gioviale come lui; era corrucciata, adirata, i denti lievemente digrignati. Il moretto allungò una mano e passò gentilmente le dita gommose tra gli opachi filamenti cioccolato della bimba. Bastò una fuggevole occhiata e i due capirono al volo quello che avrebbero dovuto fare ora. In fondo, tra padri ci si intende all’istante.
 
“Andiamo via da qui.” proferì Rufy ammiccando al punto da cui erano partiti.
 
“Non così in fretta.”  asserì una voce maledettamente familiare proveniente dall’alto.
 
Merda. Non poteva essere lui, non di nuovo. Perché proprio mentre stava tutto andando per il meglio, doveva spuntare fuori quel sadico invasato del loro nemico. Era come un pescatore alle prese con un pesce fin troppo combattivo; gli dava lenza per poi ritirarla tutta d’un colpo. Un voluminoso e massiccio corpo atterrò dinanzi a loro, scatenando una reazione difensiva nei confronti della squadra di salvataggio. I due spadaccini impugnarono celeri le loro armi, mentre Rufy fu lesto a preparare un pugno allungabile da sparare in caso di attacco. Law fu l’unico che, ringhiando e lanciando frecciatine omicide verso il loro bersaglio come farebbe un lupo messo alle strette, non si preparò alla battaglia. Sapeva che combattere mentre recava in braccio una bambina di otto anni in quello stato non avrebbe fatto altro che rallentare i suoi compagni o, nel peggiore dei casi, mettere a repentaglio la già in bilico vita della figlia. La figura si rizzò in piedi e, seppur avvolto da una consistente penombra, riuscirono a scorgere il bieco ghigno aperto sul volto del biondo. Una sensazione di collera e disgusto attanagliarono le membra dell’uomo dalla scura felpa al cui centro spiccava il Jolly Roger della propria ciurma non appena lo sguardo protetto da bizzarre lenti rosse scivolò sul fagotto che teneva tra le salde braccia. Un risolino maniaco fuoriuscì dalle labbra distese, mentre si sistemava con cura la montatura sul naso.
 
“Dove pensate di portare la nostra più preziosa prigioniera? Ci eravamo divertiti tanto insieme.” domandò scaricando il peso corporeo sulla gamba sinistra.
 
“La portiamo via, idiota di un Min-” gridò infuriato il morettino prima di essere interrotto dall’istoriata mano di Law.
 
“Cosa le hai fatto, miserabile bastardo?” chiese assottigliando aggressivo lo sguardo.
 
Di rimando, Doflamingo esplose in una fragorosa e sguaiata risata che risuonò in ogni oscuro meandro della prigione, la lingua lasciata penzolare da un lato della bocca. Fu in quel momento, quando sentì l’indecente risposta del fenicottero, Trafalgar capì. Capì di essere arrivato troppo tardi. Che tutto quello che aveva sperato non accadesse era accaduto. Quel mostro aveva osato strappare con così tanta animalesca brutalità la purezza della sua bambina. Yuki, inaspettatamente, reagì allo stimolo esterno del rumoroso sghignazzo, lasciandosi scappare un flebile singulto dalle labbra livide. Il padre assisteva impotente a quella straziante scena, domandandosi che colpa mai quella frugoletta avesse dovuto avere per essere capitata ad un tipo come lui. Avrebbe dovuto lasciarla su quella spiaggia, accompagnata da quel freddo pungente che piano piano l’avrebbe cullata verso il sonno eterno. E invece no. Si era comportato egoisticamente, trascinando quella innocente creatura in una farandola di situazioni di gran lunga più grandi di lei. E, in quel momento, stava maledicendo sé stesso, Doflamingo e il mondo intero; aveva sperimentato sulla sua pelle il dolore, le amare lacrime e il pesante corpo del fenicottero che gravava sul suo. Infilò cautamente una mano all’interno delle pieghe che il cappotto arrotolato formava, arrestandosi soltanto quando trovò una piccola, gelida appendice, alla quale si ancorò saldamente, accarezzandone il dorso con premura.
 
In un inaspettato impeto di rabbia il Chirurgo si voltò verso i compagni, i quali continuavano a capirci poco e niente della situazione ma ben edotti sul da farsi; dovevano andarsene prima che fossero arrivati i rinforzi. Il moro camminò a passi estremamente pesanti verso lo spadaccino dai capelli verdi, assicurando la piccola tra le nerborute braccia dell’uomo. Zoro alzò gli occhi al viso dell’uomo leggendoci sopra la più glaciale e seria determinazione. Deglutì, spostando lo sguardo in cerca di conferme verso Rufy e Brook, mentre stringeva goffamente quel fagottino tremante. Era certo che quel cuoco di merda avrebbe riso di lui se fosse venuto a sapere della situazione in cui Trafalgar l’aveva cacciato. Improvvisamente l’uomo dal cappello maculato si voltò di scatto, sfoderando rapidamente la lunga spada che si portava appresso. Aveva deciso che avrebbe regolato i conti ora, con quel bastardo di un fenicottero. La scoperta di pochi minuti addietro era stata la famosa goccia che fece traboccare il vaso. Non avrebbe mai permesso che qualcuno come quel mostro rosa camminasse ancora su quella terra. Cappello di paglia mosse un passo in avanti e strattonò Law per una manica del lungo cappotto nero, incuneando i suoi vispi occhioni neri in quelli del compare, così fottutamente collerici ed iracondi. Non avrebbe permesso che quella sfortunata bambina restasse senza qualcuno disposto a rimanerle a fianco. Intanto lo Shichibukai osservava divertito quel teatrino così commovente e così dannatamente inutile.
 
“Andatevene, di lui mi occupo io. Voi assicuratevi di portare subito Yuki fuori da qui.” intimò liberandosi dalla presa del ragazzetto di gomma
 
“No, Torao! Avevi detto che saremo usciti senza combattere! Non puoi restare qui, non puoi abbandonare Yuki proprio ora che l’hai ritrovata!” gridò Rufy assumendo un’espressione da bambino al quale erano state negate le caramelle.
 
“Andate via.” ringhiò tenendo la lama della Nodachi fissa contro il suo obbiettivo principale.
 
Il Capitano dei Mugiwara, infuriato per la testardaggine del suo amico, scaraventò contro in muro un violento pugno, mandandolo in frantumi. Dopo quella fugace scenata isterica che sarebbe stata riconducibile a una di quelle del suo amate, Law trattenne a stento un sospiro di sollievo percependo il rumore dei passi che si allontanavano celeri dalla sua posizione. In quel momento, finalmente, si trovarono faccia a faccia. L’uno per riprendersi l’oggetto del suo interesse, l’altro per vendicare le atrocità compiute da quel soggetto su di lui e su sua figlia. Ogni secondo che passava sentiva crescere in lui la voglia di sgozzare quel pennuto, l’immagine del biondo con la carotide gocciolante di denso liquido carminio che gli imbrattava gli abiti sgargianti era fissa nella sua mente. Non avrebbe più permesso che quel pazzo torcesse anche un solo capello alla sua Yuki. Era arrivato il tempo di mettere fine a quella faida durata anni. Ma nessuno dei due fece in tempo a fare una mossa, che qualcosa di non identificato comparve framezzo loro. Una sorta di densa nuvola cinerea che piombò con tonfo sordo sulla pavimentazione di pietra. Per entrambi i contendenti la visuale fu dimezzata, fin quando quella corposa coltre non cominciò a compattarsi e a solidificarsi, formando una alta e massiccia figura antropomorfa.
 
“Fufufu. Hai deciso di farti vivo, allora.” lo punzecchiò Doflamigo con un sorrisetto sornione.
 
“Tu… Che ci fai qui?” domandò scioccato il pirata nel veder apparire un lungo cappotto bianco tremendamente familiare.
 
L’uomo aspirò avidamente i due sigari saldamente stretti fra le carnose labbra. Braccia e gambe secernevano copioso fumo, sospingendo il tabarro malamente appoggiato sulle larghe spalle. Il Jitte era stretto nella mano destra e gli occhi color caramello dell’Ammiraglio erano stizzosamente puntati sullo stesso obbiettivo al quale il Chirurgo anelava. Che cosa significava questa teatrale entrata in scena di Smoker? Che, nonostante l’ordine impartitogli da Sakazuki in persona, si fosse schierato dalla sua parte per proteggere quella piccoletta che ora stava cercando disperatamente di scappare insieme a tre noni della ciurma di Cappello di Paglia? Gli pareva assolutamente impossibile, dato il suo quasi maniacale attaccamento a quella istituzione chiama Marina Militare, eppure il suo sguardo era così spaventosamente serio ed imperscrutabile. L’aveva personalmente saggiato durante il suo soggiorno a Punk Hazard, quanto fosse testardo l’Ammiraglio riguardo ad avvenimenti che lo interessassero davvero. Lo affiancò con un sorrisetto sornione dipinto sullo smunto viso, lanciando un’occhiata complice all’alta figura al suo fianco. Questa, per tutta risposta, e nemmeno degnandolo di un singolo grugnito o semplicemente di una semplice occhiataccia che il Cacciatore sovente gli riservava, si limitò a spingerlo indietro servendosi del lato dell’arma.
 
“Non se ne parla, Chase-ya, combatto anche io!” protestò Law stringendo infuriato i pugni.
 
“Vuoi davvero rischiare di lasciare Yuki senza un padre? Se ammazza me non succederà nulla, ma se tu schiatti in questo scontro Yuki si ritroverà sola al mondo! E’ questo che vuoi, Law?!” latrò stringendo i denti.
 
“Io non morirò! L’ho promesso alla mia-”
 
Non riuscì a finire la frase che gli stizzosi occhi del Marine si staccarono dalla ghignante figura del fenicottero, per poi posarli sul contratto volto del pirata. Le sue iridi melliflue fremevano di rabbia e il Capitano degli Hearts, forse, riuscì ad intendere perché il Marinao fosse in uno stato di così profondo furore; nonostante fosse indignato per la fine che quella disgraziata creatura avrebbe potuto fare all’interno di Guantanamo 51 si sentiva tremendamente angosciato nel disobbedire a quell’associazione alla quale era stato fedele per tutta una vita, mirando a degli ideali di giustizia e di pace poi estinti con la salita al potere di un pazzo che solamente pensava ad eliminare il problema dei pirati, pronto pure a coinvolgere innocenti civili. Il vecchio era parecchio combattuto, glielo si leggeva tra le piccole rughe agli angoli di occhi e bocca. Il pirata, amareggiato e sconfitto, gli volse le spalle e cominciò a correre a perdifiato evitando diversi cadaveri di Marines stesi a terra con degli evidenti tagli insanguinati che spiccavano sulla divisa immacolata. Sicuramente Zoro era passato di lì. Maledisse e ringraziò, in contemporanea, quel pazzo di Smoker che, seppur probabilmente a costo della sua stessa vita, gli aveva regalato la possibilità di tornare da sua figlia sano e salvo. Non avrebbe mai voluto, ma doveva effettivamente dargli ragione; non poteva abbandonare Yuki. Lei, ora, era la priorità. Voltò indietro lo sguardo un’ultima volta, vedendo scomparire le due sagome in lontananza.
 
“Cosa pensi di fare, Smoker-kun? Usare la tua carica di Ammiraglio per sconfiggermi e vendicare la piccola Yuki?” sogghignò Doflamingo anchilosando le dita, pronto all’attacco.
 
Il bianco mise mano alla propria spalla e, con un gesto secco, rimosse il lungo e sfarfallante cappotto candido. Lo gettò quasi con ferocia a terra, per poi calpestarlo senza pietà, un gesto che lasciò di stucco persino l’uomo dalla voluminosa pelliccia rosa. Con quell’azzardato gesto, il White Chase aveva tranciato di netto la sottile corda che lo teneva ancora ancorato a quel sistema malato del quale, una volta, egli faceva parte. E, presumibilmente, anche una certa bamboccia dai capelli blu l’avrebbe seguito nel suo viaggio da ribelle. Puntò nuovamente il Jitte contro il biondo, partendo all’attacco grazie al fumo emanato dalle gambe che lo fece schizzare verso il nemico come un razzo.
 
”D’ora in poi, creerò io la mia giustizia!”
  
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