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Autore: Alaire94    11/07/2014    0 recensioni
Selvaggia sognò quello strano luogo; una, due, tre volte...
Il ragazzo dagli occhi di ghiaccio. Lo sciamano. Il gelo della tundra.
E tutto si confuse.
Facile è perdere il lume della ragione.
Difficile è tracciare un confine fra realtà e immaginazione.
Impossibile se si intromette l'amore.
Genere: Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo Quattro

 


Aprì gli occhi lentamente. Subito una luce al neon li invase, costringendola a richiuderli.

- Selvaggia ! – la chiamò una voce lontana e familiare che sembrava avvicinarsi sempre di più. Tentò ancora, voltando la testa verso destra e sollevando le palpebre con notevole sforzo. Gli occhi incontrarono piastrelle bianche e lucide, mentre il naso captò un fastidioso odore di medicine e disinfettante. Non si trovava certamente a casa sua, ma tirò ugualmente un sospiro di sollievo: se non altro non era più in quel luogo sconosciuto.

Spostò leggermente lo sguardo e incontrò il viso di sua madre. Gli zigomi alti, la bocca piccola e rosea, un paio di occhi verdi e una cascata di capelli biondi. Nonostante i suoi cinquant’anni, era ancora una bella donna, soltanto qualche ruga le era comparsa recentemente sulla fronte e agli angoli della bocca.

- Come sono contenta che ti sia svegliata! – esclamò la donna, con gli occhi lucidi per la felicità.

Selvaggia accennò un sorriso. – Non ci sono più sciamani e casette di legno? – domandò e solo dopo aver pronunciato quelle parole si rese conto di quanto suonassero stupide a chi non era stato in quel luogo.

La donna, infatti, la guardò qualche secondo un po’ perplessa. – No, tranquilla… adesso sei qui in ospedale al sicuro.

Soltanto a quelle parole Selvaggia si accorse di avere un tubicino attaccato al braccio e riuscì a collegare l’odore di medicina all’informazione appena ricevuta.

Cercò di alzare il capo, per vedere cosa c’era oltre i suoi piedi, ma una dolorosa fitta alla testa la colpì, facendole sfuggire un gridolino soffocato. La mano andò istintivamente alla fronte, scoprendo che era fasciata.

- Non muoverti troppo, Selvaggia . I dottori dicono che devi riposare il più possibile – disse sua madre, in tono piuttosto preoccupato.

Selvaggia spostò la testa verso sinistra, fissando il letto vuoto di fianco a sé. Si sforzò di ricordare cosa fosse successo prima di piombare nel gelo della tundra, ma non ricordava nulla, se non immagini confuse che non riusciva a collegare l’una all’altra.

Ricordava di aver mangiato qualche tartina, una sala stipata di gente, tante luci e colori e la sensazione di qualcuno che la baciava. Non aveva la più pallida idea di come poteva essersi procurata la ferita alla testa.

Purtroppo invece, ricordava fin troppo bene ciò che aveva visto in quel luogo che ormai aveva capito trattarsi di un semplice sogno, per sua fortuna.

- Mamma, cosa mi è successo? – chiese allora e la voce le uscì dalla bocca più flebile del previsto.

Lei le strinse amorevolmente una mano. – Sei andata a una festa con le tue amiche, ti hanno fatto mettere i tacchi, devi aver bevuto qualcosa e sei inciampata lungo le scale, battendo la testa – spiegò. – Non ti preoccupare, dicono che è normale che ricordi poco della serata, ma presto vedrai che la memoria ritornerà – aggiunse, cercando di accennare un sorriso.

Selvaggia annuì e proprio in quel momento qualcuno apparve sulla soglia della stanza. Un sorriso le spuntò sul volto. – Cath! –

Caterina entrò un po’ titubante. Era vestita di scuro come al solito, qualche catena le pendeva dalla cintura dei pantaloni, ma stranamente non era truccata e sotto gli occhi vi era qualche segno violaceo. Stringeva in mano un pacchetto rosso, che mi porse gentilmente. – Ciao, Selvaggia … come va? Questo è per te, giusto un pensierino – disse, un po’ incerta.

Teneva gli occhi bassi, a fissare le piastrelle bianche del pavimento, segno evidente del suo senso di colpa.

Mentre Selvaggia afferrava il pacchetto con un sorriso, sua madre si alzò dalla poltroncina marrone di fianco al letto. – Io vado allora… tanto mi sembri in buone mani – disse, lanciando uno sguardo d’incoraggiamento a Caterina. Diede un bacio sulla guancia alla figlia e uscì dalla stanza.

- Siediti pure qui – disse Selvaggia , indicando all’amica la poltrona da cui si era appena alzata sua madre.

Caterina ubbidì, anche se rimase seduta sul bordo con la schiena dritta e visibilmente tesa. D’altronde Selvaggia sapeva bene che Caterina odiava gli ospedali: per lei erano luoghi troppo malinconici che con quel persistente odore di medicine le facevano venire la nausea. Eppure Selvaggia era anche convinta che non si trattasse solo di quello. Probabilmente era un trauma rimastogli dall’infanzia, quando sua zia era morta proprio lì in ospedale e nel suo inconscio si era convinta che fossero stati i medici e l’ospedale stesso a portargliela via. Nonostante fosse ormai cresciuta e sapesse bene che non era colpa di nessuno se sua zia era morta, le era rimasto l’irrazionale fastidio per gli ospedali.

- Ci tenevo a chiederti scusa, Selvaggia – esordì Caterina, avendo finalmente il coraggio di guardare negli occhi l’amica con i suoi, del color dell’ambra.

Selvaggia sorrise, cercando di metterla a suo agio, visto che sapeva bene quanto le fosse costato venire a trovarla lì.

- Ma tu non c’entri nulla, Cath… è stato un semplice incidente! – replicò Selvaggia .

- Invece mi sento responsabile: vi ho invitato io a quella festa e sono stata sempre io a convincerti a venire e adesso che ti è successo questo, mi sento così in colpa! – spiegò, con gli occhi un po’ lucidi.

- Stai tranquilla! Non potevi immaginare… poi sto bene, ho solo un po’ male alla testa ma mi riprenderò in fretta, non c’è davvero nessun bisogno che ti senta in colpa – obiettò Selvaggia , utilizzando un tono calmo, per cercare di tranquillizzarla.

Finalmente sembrò rilassarsi, appoggiando la schiena sullo schienale della poltrona. – Comunque, accetti le mie scuse? – chiese, quasi implorante.

Selvaggia annuì. – Cosa avete fatto di bello alla festa, prima della mia rovinosa caduta? – domandò Selvaggia con curiosità, cercando di ironizzare sull’accaduto.

- Te lo dirò solo se apri il regalo – scherzò Caterina con un sorriso furbo.

Selvaggia non esitò e stracciando la carta rossa, estrasse una scatola di cioccolatini. – Sono al peperoncino! Il mio gusto preferito! – esclamò Selvaggia , con gli occhi che le luccicavano: il cioccolato era un vizio di cui proprio non riusciva a liberarsi.

- Hai intenzione di farmi ingrassare ancora?! – rimproverò scherzosamente.

Caterina ridacchiò e Selvaggia fu più che felice di essere riuscita a farle scordare il senso di colpa. – Non hai neanche un filo di ciccia, tu! Anche se ingrassassi un chilo non succederebbe nulla! – ribatté.

Selvaggia non trovò parole per replicare perché in effetti, anche se il suo corpo non le piaceva per nulla, doveva ammettere di aver ben poco grasso.

- Ora ho aperto il regalo, allora? Cosa avete fatto alla festa? – la incalzò Selvaggia .

- Abbiamo ballato tutta la sera, dei ragazzi hanno anche provato a ballare con noi, ma li abbiamo rifiutati con garbo, come delle vere gentildonne – raccontò Caterina con orgoglio.

- Com’erano questi fanciulli? Vi hanno chiesto gentilmente un ballo? – scherzò Selvaggia , restando in tema cavalleresco.

Caterina rise ancora prima di rispondere. – In realtà non li abbiamo visti bene, li abbiamo scartati a priori perché non volevamo certe attenzioni. Loro al contrario nostro non erano dei galantuomini e hanno cominciato a ballare con noi senza neanche chiedere – disse, piuttosto contrariata, come se la maleducazione di quei ragazzi ancora la offendesse.

Passò qualche secondo di silenzio, in cui Caterina ritornò improvvisamente seria. – Invece tu… non so se lo sai, mi hanno detto che non ricordi molto di quella sera…

A quelle parole anche Selvaggia si fece seria, cominciando a preoccuparsi.

- Che cosa ho combinato? –

Caterina si guardò in giro, meditando forse sulle parole migliori con cui esprimersi.

- Hai ballato con Luca e, insomma… stavi per baciarlo – confessò.

Selvaggia spalancò gli occhi: ricordava di qualcuno che le baciava il collo, ma era arrivata a pensare che fosse uno sconosciuto incontrato a causa dell’alcol.

Eppure alle parole dell’amica cominciò a ricordare qualcosa di più. Altre immagini le apparvero alla mente come flash, lasciandola sconcertata. Un drink al sapore di fragola, Luca che le chiede un ballo, il calore del suo respiro sul collo e il suo viso illuminato a intermittenza dalle luci della discoteca.

Caterina la guardò perplessa. – C’è qualcosa che non va? – le domandò, vedendo l’espressione sconvolta dell’amica.

- Nulla, solo che adesso ricordo – disse, mentre le guance le si imporporavano al pensiero di ciò che era accaduto quella sera.

Selvaggia infatti non aveva mai avuto un vero e proprio ragazzo. Qualche tempo prima, quando ancora era al primo anno del liceo, aveva conosciuto un ragazzo carino ed erano usciti insieme qualche volta. Avevano passeggiato per le strette vie del paese, all’ombra dei vecchi palazzi, chiacchierando del più e del meno. Era un ragazzo divertente, forse non di una bellezza mozzafiato, ma le sue battute di spirito rendevano certamente piacevole la sua compagnia. Si erano abbracciati, avevano camminato mano nella mano, ma erano troppo timidi per scambiarsi un bacio sulle labbra. Così il tempo passava, avevano continuato ad uscire insieme senza che succedesse nulla, né che si confessassero i loro sentimenti, finché un’altra ragazza arrivò e se lo portò via. Da quel momento Selvaggia non trovò più nessun ragazzo che si interessasse a lei e così si ritrovò a diciassette anni a non aver ancora dato il suo primo bacio.

- Non l’ho baciato davvero, vero? – chiese Selvaggia , piuttosto preoccupata.

Caterina alzò le spalle. – A dire il vero non lo so, me l’ha detto Carolina .

Dopo aver risposto, Caterina diede un’occhiata all’orologio appeso al muro di fronte a me e si alzò dalla poltrona. – Devo proprio andare ora, spero di vederti presto! – disse, avvicinandosi e scoccando due bacini sulle guance di Selvaggia .

Si salutarono e Caterina sparì dietro la porta, lasciandola sola.

 

Selvaggia appoggiò la borsa ai piedi del letto e tirò un bel sospiro. Era contenta di essere nuovamente a casa, nella sua stanza familiare con letto dalle coperte con gli orsi bianchi e l’armadio color crema.

Con un dito fece muovere i bastoncini dello scacciapensieri e una dolce melodia giunse alle sue orecchie, ricordandole la primavera, quando la brezza che entrava dalla finestra aperta produceva quello stesso suono. Nonostante si sentisse ancora l’odore di ospedale addosso, finalmente si sentiva a casa.

Le sembrava davvero passato un secolo da quando aveva messo l’ultima volta un piede in quella stanza.

Si lasciò andare sul letto, con un sospiro e fissò pensierosa il lampadario che pendeva proprio sopra di lei. Si trattava di una semplice sfera bianca delle dimensioni di una palla da basket, sulla cui superficie vi erano delle macchie scure: i residui delle figurine che da piccola aveva il vizio di attaccare dappertutto.

Tali residui si trovavano anche sull’armadio e sul muro, anche se parzialmente ricoperte dai poster di James Blunt e dalle sue fotografie.

Selvaggia , infatti, aveva sempre adorato fare fotografie, aveva una maniacale passione per il flash delle macchine fotografiche e le piaceva imprimere per sempre momenti della sua vita, della realtà che la circondava. Per lei ogni cosa poteva avere un lato artistico, che fossero la moltitudine di pennarelli sparsi sulla scrivania o l’uccellino posato sul comignolo del palazzo di fronte. Perché semplicemente qualsiasi cosa era degna di essere ricordata, per non sparire mai, distrutta dal fugace incedere del tempo.

Così sia l’armadio che i muri erano tappezzati di mille momenti e semplici oggetti che avevano attirato la sua attenzione e che desiderava tenere sempre sotto gli occhi, vividi nella memoria. Quelle a cui era più affezionata erano la foto con le sue amiche in cui facevano il trenino, una dolce paperella in uno stagno che le ricordava il giocattolo che da piccola utilizzava per fare il bagno e un fiore appena sbocciato, coi petali accarezzati dalla rugiada del mattino.

D’improvviso suonò il campanello. Si alzò di malavoglia dal letto e si diresse verso la porta, visto che non c’era nessun altro in casa. La aprì distratta e il cuore le fece un tuffo nello scoprire chi l’aspettava. Un paio d’occhi color castagna la scrutarono per qualche secondo, mentre le guance di Selvaggia si coloravano di rosso.

- Questi sono per te… - esordì lui e solo in quel momento Selvaggia si accorse del mazzo di fiori azzurri che stringeva fra le mani. Ancora più imbarazzata, li afferrò, soffermandosi ad annusare il loro fantastico profumo.

- Grazie mille – disse poi, cercando di sfoggiare un sorriso.

- Ero andato a cercarti in ospedale, ma mi hanno detto che ti avevano dimessa, così… - si giustificò, forse pensando che la sorpresa non fosse stata gradita.

- Beh, insomma… ecco… entra pure – balbettò Selvaggia , scostandosi dalla porta per permettere al ragazzo di entrare.

Luca entrò, ora più sicuro di sé: probabilmente ciò che lo imbarazzava di più era consegnarle quei fiori. Si guardò in giro, soffermando lo sguardo sulle fotografie appese alle pareti, per poi seguire Selvaggia in salotto.

- Ecco, puoi sederti qui, se vuoi – disse Selvaggia , indicando il divano marrone, su cui erano appoggiati cuscini rossi.

Luca seguì il suggerimento della ragazza e si mise comodo sul divano, mentre Selvaggia metteva i fiori appena ricevuti dentro un vaso di vetro.

- Vedo che stai abbastanza bene – constatò Luca, vedendo Selvaggia camminare con disinvoltura alla ricerca dell’occorrente per sistemare i fiori.

- Mi sto riprendendo – confermò lei. La presenza di Luca, nonostante fosse una semplice visita per assicurarsi della sua salute, la faceva sentire un po’ a disagio dopo ciò che era successo alla festa.

Selvaggia si sedette un po’ titubante vicino a lui. I fiori sembravano guardarli dalla loro posizione sul tavolino davanti a loro.

- Mi volevo scusare per quello che è successo alla festa, non so se ricordi… - disse Luca, ostentando sicurezza.

Selvaggia invece quasi trasalì alle sue parole e le sue guance diventarono nuovamente rosse. – Ho avuto un vuoto di memoria, ma ora ricordo… - rispose, lasciando che quelle parole rimanessero in sospeso nell’aria per un po’.

- Insomma, ti volevo chiedere scusa… ero un po’ brillo e non vorrei che pensassi che mi volevo approfittare di te… - spiegò, visibilmente preoccupato.

Selvaggia gli rivolse un sorriso. – Tranquillo, è tutto a posto… d’altronde anche io ero brilla – osservò Selvaggia , lanciandogli volontariamente uno sguardo di sbieco.

Un sorriso si fece strada sul viso di Luca. Gli illuminò il volto, facendolo apparire ancora più bello agli occhi della ragazza.

- Pensavo che un drink ti avrebbe fatto bene, non pensavo che lo reggessi così poco… - si giustificò.

Selvaggia fu felice di notare che non si sentiva così in colpa come la sua amica Caterina. Sapeva probabilmente di aver agito in buona fede e per il suo errore aveva già chiesto scusa, per cui non sembrava più preoccupato.

- Quindi, amici? – domandò Luca, porgendole la mano con un sorriso sghembo che rendeva la proposta allettante.

Eppure Selvaggia era delusa da quella richiesta, perché nel profondo del suo cuore desiderava che Luca fosse più di un amico…

Decise di non darlo a vedere e afferrò la mano tesa di Luca, stringendola. – Sì, amici.

Dopo quel patto d’amicizia, Luca si alzò dal divano. – Devo proprio andare ora – annunciò.

Selvaggia lo accompagnò alla porta. Si scambiarono un lungo sguardo che non aveva proprio nulla a che vedere con una semplice amicizia.

- Allora ci si vede – disse Luca, rompendo il silenzio.

- Certamente – replicò Selvaggia con un sorriso.

Si salutarono, poi Luca si voltò e cominciò a scendere le scale del condominio, sotto lo sguardo di Selvaggia che lo abbandonò solo nel momento in cui sparì dalla vista.

Proprio quando stava per richiudere la porta, sentì delle voci familiari che si avvicinavano lungo le scale. Presto spuntarono infatti Carolina e Rebecca che quando la videro già sulla soglia le rivolsero un largo sorriso.

- Ciao, Selvaggia … abbiamo incontrato Luca lungo le scale – disse subito Carolina con tono malizioso, lasciandosi sfuggire una risata civettuola.

Selvaggia la fulminò con lo sguardo, mentre le guance già arrossivano di nuovo al pensiero di che idee potesse essersi fatta.

Le fece entrare ed accomodare sul divano dove, come Selvaggia ricordò arrossendo ancora, poco prima era seduto Luca.

- Allora? Cosa avete combinato, qui soli soletti? – insistette Carolina , una volta essersi seduta. Questa volta fu Rebecca a fulminarla, cercando di farle capire che stava cominciando a diventare snervante.

Selvaggia sospirò sconsolata. – Nulla, Carolina … è venuto per vedere come stavo e per scusarsi per la festa.

Finalmente Carolina si mostrò soddisfatta, almeno finché i suoi occhi non si posarono sul vaso di fiori appoggiato sul tavolino. – Te li ha regalati lui? –

Selvaggia sospirò ancora. – Sì.

- Che galantuomo! – commentò Carolina .

- Come stai? – domandò invece Rebecca, ignorando le parole dell’amica.

- Sto meglio, ogni tanto ho qualche fitta alla testa, ma per il resto è tutto a posto: ho anche recuperato la memoria! – rispose Selvaggia con un sorriso.

- Sono contenta, ti prometto che alla prossima festa ti faremo indossare tacchi più bassi, così non rischierai! – scherzò Rebecca.

Selvaggia rise di gusto, come non faceva da un po’ di tempo. D’altronde con i mal di testa che aveva patito negli ultimi giorni non le andava molto di scherzare.

- Comunque non è stata esclusivamente colpa dei tacchi. Sono stati le luci forti, l’alcol, il vestito e… sì, anche i tacchi, ma non solo – spiegò Selvaggia , ritornando per qualche secondo con la mente a quella sera. Ormai ricordava ogni dettaglio: le luci che la abbagliavano, la musica che le martellava nelle orecchie e poi soprattutto le fantastiche sensazioni che aveva provato. Per non parlare dei brividi che aveva percepito al tocco di Luca che, per quanto cercasse di nasconderli a se stessa, erano ciò che più le era piaciuto.

- Quindi verresti con noi a un’altra festa? – insinuò Carolina , con una strizzata d’occhi.

Selvaggia alzò lo sguardo al soffitto, ancora sconsolata. – Non penso proprio: una volta basta e avanza – rispose.

Passò qualche secondo di silenzio, in cui tutte e tre si persero nei propri pensieri, finché non su Rebecca a rompere il silenzio, decisa a prendere in mano ancora un discorso piuttosto spinoso.

- Comunque… c’è davvero qualcosa fra te e Luca? – domandò con apparente calma. Nel suo tono non c’era la stessa malizia che vi era invece in quello di Carolina . Lei sembrava più disposta a darle consigli piuttosto che prendere la cosa solamente come un pettegolezzo.

Selvaggia abbassò lo sguardo e arrossì leggermente come ogni volta che veniva nominata nella stessa frase in cui appariva anche il nome di Luca.

- Alla festa stavamo per baciarci, ma… eravamo tutti e due ubriachi. Non avevamo capacità di intendere e di volere – disse, soppesando bene le parole.

Carolina stava per esprimere qualche battutaccia, ma Rebecca le tirò una gomitata nel fianco, troncandola ancor prima che potesse aprire bocca. Carolina fece una smorfia tra fastidio e dolore. – Mi hai fatto male! – si lamentò.

- Accidenti, Caro ! Bisogna sculacciarti come i bambini per farti capire le cose! – esclamò Rebecca, contrita, facendo scoppiare Selvaggia nuovamente a ridere.

- Quanto siete divertenti! – commentò fra le risate.

Dopodiché tutte e tre si ricomposero: Selvaggia cercò di tornare seria, mentre Rebecca e Carolina accennarono un sorriso per nascondere il piccolo diverbio appena concluso.

- Dicevo… ma Luca ti piace? – chiese Rebecca, piuttosto diretta. Selvaggia , presa un po’ in contropiede, spalancò gli occhi, per poi pensare a una possibile risposta.

A dire la verità non era per nulla sicura di quello che provava per quel ragazzo. Era certamente carino, gentile e tenero come un pezzo di pane e probabilmente le piaceva, ma ancora non era pronta ad ammetterlo a se stessa.

- Non lo so – concluse infine, lasciando piuttosto sconcertate le due amiche.

- E’ chiaro comunque che tu non gli sei indifferente – osservò Carolina , per una volta seria e senza accenni di malizia. – Vi ho visti mentre ballavate… lui sarà anche stato ubriaco, ma ti guardava in un modo che non era decisamente da amico – spiegò.

Selvaggia si allarmò: Carolina era certamente una ragazza irriverente e certe volte strafottente, ma su queste cose non si sbagliava mai. Essendo ormai un’esperta del pensiero maschile, sapeva ben distinguere i segnali di un interessamento.

- Come mi guardava? – si decise a chiedere Selvaggia .

Carolina si schiarì la voce, probabilmente alla ricerca delle giuste parole. – Diciamo che non ti puoi aspettare che in discoteca ti guardasse come fossi la Venere scesa sulla Terra… possiamo invece dire che indugiava sulle tue forme – disse, utilizzando maggior tatto possibile.

Nonostante ciò, Selvaggia non ebbe difficoltà a comprendere ciò che voleva dire. – Cioè… mi stava spogliando con gli occhi? –

Carolina si schiarì nuovamente la voce. – Sì, proprio così… ma considera che era un po’ brillo e la discoteca non è il luogo più favorevole, perciò hai fatto più che bene a non baciarlo se ciò che vuoi è ancora l’amore vero – puntualizzò.

Lo sguardo di Selvaggia si spostò su Rebecca, in attesa di un suo parere.

- Sì, Carolina ha ragione… secondo me non ti devi preoccupare: sono certa che gli interessi e non solo per quello che intende lei – disse.

Selvaggia annuì e contrasse le labbra, preoccupata: le sue amiche avevano contribuito a metterle ancora più dubbi di quelli che già aveva. Lei se proprio doveva avere una storia con un ragazzo, voleva che lui amasse lei, non il suo corpo e da ciò che le avevano appena detto non si poteva sapere cosa gli passasse veramente per la testa.

- Ad ogni modo il fatto che ti abbia regalato dei fiori è un segno positivo: non penso che se gli interessassi solo dal punto di vista fisico l’avrebbe fatto, né tantomeno sarebbe venuto a scusarsi – osservò acutamente Rebecca e Selvaggia si ritrovò a darle ragione.

Dopo quell’affermazione le due ragazze si alzarono dal divano. – E’ proprio ora di andare – annunciò Rebecca.

- Fai in modo di riprenderti presto e di tornare a scuola – disse ancora, mentre Selvaggia le accompagnava alla porta.

- E pensa a cosa provi per Luca! – aggiunse Carolina , uscendo.

Selvaggia annuì con un sorriso e le salutò con un bacio sulla guancia.

 

La luce pallida dell’abat-jour appoggiata sul comodino di fianco al letto tracciava ombre scure sui muri e sul pavimento della camera da letto. Avevano le forme squadrate dei mobili che vi si trovavano, eppure a Selvaggia pareva di intravedervi sagome strane e paurose.

Sin da piccola aveva paura del buio, si rifugiava tremante sotto le coperte, confortata solamente dal pelo morbido di un peluche. Per questo sua mamma le aveva regalato l’abat-jour, per rischiarare un po’ l’oscurità della stanza e farle dormire sogni tranquilli.

Era diventata grande ormai e non aveva più paura del buio, anzi, certe volte la notte la rincuorava: l’oscurità le nascondeva il suo corpo agli altri, poteva diventare parzialmente invisibile, mentre la luce bianca della luna rischiarava ogni cosa quanto bastava per illuminare la realtà che la circondava. Ciò che invece la spaventava erano proprio le ombre, delineate dalla luce, che allungandosi potevano diventare inquietanti.

Per questo negli ultimi tempi si soffermava poco a leggere prima di andare a dormire, spegneva presto la luce e si lasciava cullare dalle sue confortevoli coperte.

Quella sera, invece, aveva bisogno di un buon libro che la distogliesse dai pensieri che le rodevano il cervello. C’erano tante cose che la preoccupavano: Luca per primo e anche quello strano sogno che aveva fatto dopo essere caduta.

Per sua fortuna non si era più ritrovata in quel posto gelido e impervio, ma in cuor suo sapeva che il sogno non era finito come sperava.

Lesse le ultime righe del capitolo e chiuse il libro. Le palpebre si stavano lentamente abbassando, combattendo contro il suo desiderio di rimanere sveglia.

Alla fine l’ebbero vinta. Selvaggia allungò la mano, appoggiando il libro di fianco all’abat-jour e spegnendo definitivamente anche quella fioca luce.

Lasciò così che il sonno l’avvolgesse insieme al buio della stanza. 


Angolo autrice: 
Dopo una lunga assenza su EFP causata anche da una sorta di blocco dello scrittore, ho deciso di pubblicare un nuovo capitolo di questa storia! Spero che qualcuno la possa gradire! 

   
 
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