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Autore: Hermione Weasley    12/07/2014    4 recensioni
Mi hanno sparato, pensò incredula, portandosi una mano alla spalla. Il dolore la investì nel momento esatto in cui si accorgeva di avere una freccia conficcata nella carne. Dischiuse le labbra in un'espressione di muto orrore, facendo saettare lo sguardo verso l'alto, ai tetti che incombevano sulla strada.
Un lampo improvviso disegnò nel cielo nero la sagoma di un uomo.
[Clint x Natasha] [Slow Building] [Completa]
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Altri, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Nick Fury
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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13

 

It's my own desire
It's my own remorse
Help me to decide
Help me make the most of freedom
And of pleasure

(Tears for Fears – Everybody Wants to Rule the World)

 

 

“Ti serve una mano?”

Clint rialzò lo sguardo dalla mastodontica parete di detersivi che era rimasto a fissare ormai da svariati minuti. Aveva inizialmente tentato di paragonare la qualità, al prezzo, alla quantità, ma aveva finito per lasciarsi ingarbugliare il cervello senza ottenere alcun risultato.

“Credo di aver bisogno di una laurea,” commentò spassionatamente, abbozzando un sorriso in direzione della ragazza che gli aveva offerto aiuto. Non molto alta, capelli nerissimi raccolti in una coda di cavallo in disordine, un vestito floreale appena sopra il ginocchio, il cestino della spesa in una mano, il cellulare nell'altra.

“E' solo una questione di pratica,” lo rassicurò con fare confidenziale, rivolgendogli un ampio sorriso. “Dipende da che tipo di esigenze hai.”

“Ho dei vestiti sporchi da lavare,” ribatté stupidamente. Per quale altro motivo avrebbe avuto bisogno di sapone in quantità industriali?

“E' la prima volta che lavi i tuoi vestiti sporchi?” Gli ci vollero un paio di secondi per accorgersi che la sconosciuta lo stava prendendo in giro, con aria per altro estremamente divertita. Si ricordò, come dal niente, di quanto gli piacessero le donne provviste di senso dell'umorismo.

“No, è che di solito rubo il detersivo ai miei vicini di casa,” si strinse nelle spalle, sfoggiando la sua espressione più innocente. “Ma i vicini si sono improvvisamente trasferiti, per cui...”

“... non hai più nessuno da derubare,” completò per lui. “Di detersivo, s'intende.”

“Qualcosa del genere,” confermò.

La ragazza, che aveva assunto un'espressione valutativa, stava trattenendo il respiro, fissandolo come se avesse potuto ottenere chissà che verità universale, solo guardandolo. Il silenzio si prolungò per qualche secondo di troppo: Clint cominciava a temere che le fosse preso un colpo.

“Facciamo così,” la sconosciuta tornò improvvisamente in vita. “Io ti dico quale detersivo comprare, e tu mi offri un caffè.”

Fu costretto a fare appello a tutto il suo autocontrollo per non mettersi a sorridere come un coglione. Chi l'avrebbe mai detto che fare lo zombie depresso nel corridoio dei saponi gli sarebbe valso un appuntamento? Era talmente compiaciuto di se stesso e delle sue inconsapevoli doti di seduttore, da non lasciarsi neppure sfiorare dalle sue consuete paranoie (anche se una parte recondita del suo cervello, sapeva fin troppo bene che sarebbero arrivate a torturarlo, prima o poi).

“Non riesco a dire di no ad un caffè,” dichiarò solennemente. “E poi ho proprio bisogno di quel detersivo.”

“Wow, sei uno che ci sa fare con le donne, ah?”

Un fastidioso calore gli era risalito su per il collo e fino alle orecchie. Di certo non intendeva dire che accettava solo per quei motivi lì. Insomma, sembrava carina e simpatica, due dettagli decisamente non irrilevanti.

“Non credo sia necessario rispondere,” borbottò imbarazzato.

“Probabilmente non avrei dovuto chiedertelo.” Si era messa a ragionare più con se stessa che con lui, o almeno così gli parve.

“Hai paura che sia un serial killer?”

“Sei un serial killer?” La domanda, comicamente serissima, cadde in uno scomodo silenzio. Rimasero a guardarsi per un istante prima di mettersi entrambi a ridere. “Immagino che non me lo diresti, se lo fossi.”

“Non sono un serial killer.”

“Ottimo. Mi chiamo Jean.”

“Clint.”

 

*

 

Il vestito, accuratamente disteso sul letto, sembrava osservarla con aria minacciosa.

Era un abito studiato appositamente per attirare l'attenzione, qualcosa che avrebbe indossato durante una di quelle missioni che la vedevano nel duplice ruolo di esca e predatore insieme. Natasha non ricordava come avesse fatto a finire nel suo armadio: forse l'aveva comprato per una festa alla quale non era mai andata, forse l'aveva scelto in uno dei tanti slanci verso la socializzazione poi caduti nel niente. Fatto stava che adesso era lì, e la stava fissando, tentandola.

Il punto era uno: erano anni che non usciva con qualcuno, anni che la sua vita sociale si limitava alle necessarie interazioni quotidiane in ambiente lavorativo. Certo, era riuscita a coltivare dei rapporti più speciali di altri: il direttore Fury aveva sostituito tutte le figure paterne che erano mancate nella sua vita, le aveva dato una possibilità quando il consenso generale avrebbe preferito rinchiuderla in una cella di massima sicurezza e buttare via la chiave. Aveva finito per apprezzare il pacato umorismo di Coulson, la sua silenziosa presenza. La ferrea di determinazione di Maria Hill, la sua aria di chi non ha intenzione di fare sconti a nessuno, per nascondere quanto sinceramente tenesse ai suoi agenti. E poi c'era Clint, Clint che era diventato il suo migliore amico, il suo partner, il suo tacito confidente.

Nonostante tutti quei lenti, conquistati progressi, Natasha si rendeva conto di non aver fatto abbastanza. Di non avere abbastanza. Con la morte dei fratelli Shostakov, si era ripromessa di cancellare la Red Room dalla sua vita. Definitivamente e per sempre. Eppure, era dovuta scendere a patti col fatto che l'eredità di quegli anni, di quella prima, oscura fase della sua vita, era inestricabilmente intessuta nella sua persona. Clint le aveva detto che la scelta di lasciarsi definire da quegli eventi spettava a lei sola, che avrebbe potuto rigettare tutto ciò che l'avevano fatta diventare, imparare ad essere una persona diversa. Ma il confine tra la Vedova Nera, plasmata dalla Red Room, e Natasha Romanoff era così confuso e labile, da impedirle di decidere se una cosa, un determinato aspetto o atteggiamento le appartenesse davvero o meno.

Non era neanche sicura che la distinzione avesse un qualche significato reale: che importava chi era stato ad inculcarle quelle idee in testa? Quel che contava era che erano lì e che, se quegli ultimi anni le suggerivano qualcosa, non l'avrebbero lasciata tanto presto. La Red Room le aveva insegnato a non appartenere a niente e a nessuno. Un precetto a cui si era ritrovata ad aderire con estrema perizia: una sradicata, sempre e comunque.

Ma Natasha non voleva che la sua vita si limitasse al lavoro, non voleva che lo SHIELD giocasse quel ruolo da protagonista così come, anni prima, aveva fatto la Red Room. Uno dei privilegi che quella seconda chance aveva portato con sé, era la possibilità di reinventarsi. Di rimediare agli errori che aveva commesso in passato. Poteva essere una persona intera, se solo l'avesse voluto. Rosicchiare poco a poco quella linea di demarcazione che separava la vita lavorativa da quella privata, riconquistare territorio per se stessa. Aveva sperato che, con la morte degli Shostakov, i cambiamenti si sarebbero susseguiti naturalmente, uno dopo l'altro man mano che la consapevolezza di essere finalmente libera si faceva strada dentro di lei. Ma non era stato così. Erano mutate tante cose: era riuscita ad aprirsi con Clint sulla base di un tacito patto che li vedeva entrambi vittime di trascorsi turbolenti, attualmente impegnati a rimettere insieme i pezzi, a ricomporli, a sperare nella durata di quel nuovo, precario assetto.

A dispetto di quanto potesse suonare stupido, Natasha voleva essere una persona normale, con degli interessi che esulassero dal suo ruolo di spia.

Qualcosa di soffice e caldo le sfiorò il polpaccio nudo. Abbassò lo sguardo per incontrare gli occhi gialli e vispi del gatto di Phyllida, la coda arricciata in un appropriatissimo punto interrogativo.

“Non lo so, Eisenhower” si strinse nelle spalle, come rispondendo a quella muta domanda. “Non so cosa fare,” ammise.

L'animale spiccò un balzo sul suo letto, acciambellandosi sul vestito, il leggero ronfare delle sue fusa a riempire il silenzio. Ben consapevole di dover essere davvero disperata per seguire i suggerimenti di un gatto, decise di prenderlo come un segno.

“Spero che tu capisca davvero più cose di quanto sembra,” lo ammonì, puntandogli un dito contro. Quello si sporse verso di lei con aria annoiata, annusandole l'indice con disinteressata curiosità. Gli concesse un'unica carezza prima di procedere a liberarsi di accappatoio e asciugamano. Indossò la sua biancheria intima migliore, l'abito color prugna che aveva scovato nell'armadio (Eisenhower non fu contento di vedersi sottrarre a tradimento il suo giaciglio) e le scarpe più alte che possedeva.

Decise che da quella sera tutto sarebbe cambiato.

 

*

 

Come ti chiami?”

Un attimo di esitazione, un sospiro impercettibile. “Natalie.”

Natalie,” l'uomo sembrò valutare quell'unica parola, decidere se gli piaceva il modo in cui quelle tre sillabe gli scivolavano sulla lingua. “E' un bel nome. La ragazza che ho portato al ballo di fine anno al liceo, si chiamava Natalie.”

Oh.”

Che ne dici? Magari è destino.”

Cosa?”

Che tu ed io siamo fatti l'uno per l'altra,” un sorriso volutamente esagerato, a rivelare uno scherzo, una battuta.

Approfittò del suo cocktail ancora intatto, mentre si sforzava disperatamente di non ricorrere a nessun trucco per ottenere ciò che voleva. Non barare. Gioca secondo le regole. Qualcosa le diceva che non aveva mai realmente imparato a giocare onestamente, non a quel gioco.

Allora, cos'è che fai nella vita?”

Il fastidio allo stomaco parve intensificarsi. Cosa faccio nella vita? Sono un agente segreto, lavoro per lo SHIELD, difendo il mondo. Si rendeva perfettamente conto di quanto suonasse stupido. Come si può essere una persona normale se, semplicemente, non lo sei?

Sono una ballerina.” La prima bugia.

Ballerina? Di cosa? Quella roba da teatro o... più moderna?”

Danza classica.” Due bugie.

Wow, non hai affatto l'aria della ballerina di danza classica.”

Perché?”

Perché... insomma...,” non c'era verso di sbagliarsi sulla direzione in cui puntava il suo sguardo.

Insegno alle bambine.” Tre bugie.

Molto piccole?”

Cinque, dieci anni.” Quattro.

Scommetto che adori i bambini.”

Mi fanno impazzire.” Cinque.

 

Era stato stupido, credere di poter cambiare tutto in una notte. O forse lo era altrettanto illudersi di poterlo fare e basta, non importava quanto tempo le avessero messo a disposizione. Si era ripromessa di mentire solo sul nome e aveva finito per scivolare di nuovo nelle sue solite abitudini. Aveva avuto paura e aveva finito per fare quello che le riusciva meglio: interpretare un ruolo. I suoi alias, dopotutto, sapevano fare tutto ciò che a Natasha Romanoff non riusciva. Condurre una conversazione normale con uno sconosciuto, accettare i complimenti senza irritarsi, gioire delle piccole attenzioni ricevute, flirtare senza secondi fini, senza pregustare il momento in cui la sopportazione si sarebbe conclusa per lasciare lo spazio all'azione, al castigo. Indossare la pelle di qualcun altro le permetteva di agire liberamente: era talmente brava a dimenticarsi di se stessa da potersi convincere, per la durata di un paio d'ore, di essere un'altra persona, di aver vissuto una vita fittizia, di conoscere persone inesistenti, di fare un lavoro qualunque.

 

 

Nancy. E tu?”

Sofia. Posso offrirti da bere?”

Certo, perché no.”

Cosa prendi?”

Rosso.”

Da vera intenditrice.”

Dici? E' l'unica cosa che riesco a mandare giù. Tutto il resto mi dà un po' alla testa.”

Meglio non esagerare, o domani mattina chi li sente quelli del congresso?”

Avrebbe potuto dirle che non sapeva di che cosa stesse parlando. Il suo istinto la spinse a mentire. Mentire sempre e comunque. Adattarsi alla missione in corso d'opera, mutare forma insieme alle circostanze, riadattare la verità alle cose.

Figuriamoci, te l'immagini?”

Per quale studio lavori?”

Se te lo dicessi, poi ti dovrei uccidere.”

 

Natasha non poteva sopportare di essere toccata, di sentire sul collo il calore di respiri estranei, nella bocca il sapore altrui, di esserne contaminata. Eppure, bastava inventarsi un passato, dar corpo ad una famiglia, a degli amici immaginari, cambiare nome e voilà, c'era un'armatura a proteggerla, adesso. Un'armatura fatta di menzogne, bugie che l'avrebbero difesa da tutto e tutti. Non stavano toccando lei, ma Nancy, Natalie, Norah, Noemi, Noreen... donne comuni, capaci di affrontare circostanze ordinarie, comportandosi in modo normale. Natasha, nascosta da qualche parte dentro di lei, si limitava ad assistere ad un'improvvisazione dopo l'altra, come una spettatrice estranea. Era come leggere uno dei suoi romanzi, vivere un'altra vita nel breve spazio di qualche ora. Magari era realmente stata tutte quelle persone, magari c'era davvero stata un'altra vita in cui aveva fatto la ballerina, o l'avvocato, la musicista o la professoressa. Se non sapeva chi era, poteva essere chiunque. Forse tra tutte quelle facce, si nascondeva quella bambina che in un giorno come tanti altri, era stata strappata alla sua famiglia.

No.

Anche lei era una bugia.

 

Cazzo, dove hai imparato a farlo?”

A fare cosa?” Si riabbassò la gonna dell'abito in fretta e furia. L'abitacolo della macchina cominciava a soffocarla. Natasha stava per averne abbastanza.

Tutto quella roba.”

Secondo te?”

Non sarai mica una prostituta? Merda, lo sei non è vero? Ascolta... ho lasciato i sold -”

E non è neppure la cosa più offensiva che hai detto.” Perché cazzo stava ascoltando quell'idiota, comunque?

Quindi non lo sei?”

Va' al diavolo.”

Ma no, dai,” l'afferrò per un braccio, trattenendola, “resto ancora un po', su. Perché non vieni a casa mia? Sto qua vicino.”

No.”

E andiamo, ci siamo divertiti, no?” Natasha era piuttosto sicura di aver fatto diverse cose e nessuna di queste aveva contemplato qualcosa di anche solo lontanamente simile al divertimento. Per lei, almeno.

Lasciami andare.”

Tu dimmi come faccio a convincerti, Nola, e io ti lascio andare.” Il brivido di disgusto che le risalì su per la schiena, che le fece scendere il gelo nello stomaco, fu il segnale incontrovertibile che Nola, o chi per lei, se n'era andata. Adesso c'era solo Natasha e Natasha era arrivata al limite.

Fu un attimo. Il braccio si torse con un movimento brusco. L'osso scricchiolò sinistramente, mentre gli equilibri di potere si ribaltavano, rivelando le vere forze in gioco. L'urlo di dolore dello sconosciuto – Dan, o qualcosa del genere – le dette più piacere di tutte quelle inutili moine che le aveva riservato pochi attimi prima.

Ascoltami bene, Dan,” l'altra mano scattò a serrargli la gola. “Quando dico no è no. Mettitelo bene in testa.”

Un gemito di dolore e un'occhiata terrorizzata completarono quel patetico quadretto.

Si liberò e uscì dall'auto senza guardarsi indietro.

 

Ci aveva provato. Ci aveva provato per ben tre volte ad ottenere quello che voleva senza inganno. Non solo non ci era riuscita, ma il nodo allo stomaco, l'eccitazione irrisolta al basso ventre, non avevano fatto altro che peggiorare, reclamando la loro soddisfazione mancata. Si era allontanata rapidamente dall'auto parcheggiata in una stradina appartata, camminando alla cieca per quelle che le erano sembrate ore, mesi, anni. Ma no, se lei non aveva fatto altro che trasformarsi, New York era rimasta sempre la stessa. Quella bizzarra constatazione ebbe lo straordinario effetto di rassicurarla: un punto fermo, ora che il mondo aveva ripreso a muoversi, a cambiare ad ogni passo.

Ignorò il dolore ai piedi per via dei tacchi troppo alti, costringendosi ad avanzare fino all'ultimo edificio della strada. La facciata, l'ingresso, familiari. Non aveva bisogno che di quello, adesso. Di cose vere, che conosceva e che conoscevano lei. Di nient'altro.

Scivolò nel piccolo vicolo adiacente al palazzo, posizionandosi al di sotto della scala anti-incendio. Spiccò un salto per aggrapparcisi, per abbassarla del tutto. Si liberò delle scarpe e cominciò a salire.

 

*

 

Fu il frastuono metallico a risvegliarlo. Prima lentamente e poi tutto insieme.

“Che... c-cazzo...,” qualche altra imprecazione biascicata mentre si buttava giù dal letto. Ci mancano solo i ladri, a Brooklyn! Fanculo.

Si affrettò a recuperare l'arco nascosto sotto al letto, tastando alla cieca alla ricerca delle frecce che – ne era sicuro – dovevano esserci. Trovò scarpe da ginnastica perse ormai da mesi, sacchetti di patatine, un bicchiere di carta con residui di qualcosa che emanava un odore nauseabondo, vere e proprie palle di polvere e nient'altro. Lo smuoversi della finestra del salotto lo mise in all'erta. Rimase disteso sul pavimento, mezzo nascosto dal materasso e mezzo no, concentrandosi solo sul rumore. Durò per pochi secondi (visto che gli conveniva non cambiare quelle scalcagnate finestre cigolanti?) dopodiché l'appartamento ripiombò nel silenzio più assoluto. Non un passo, non uno scricchiolio... nulla. Dev'essere un professionista. Deliberò di rimanere dov'era ancora per qualche istante, valutando sul da farsi.

Silenzio. Silenzio e poi... la doccia? Lo scorrere dell'acqua lo convinse ad uscire allo scoperto, rimettersi dritto: certo, c'era la vaga possibilità che il presunto ladro stesse cercando di depistarlo, confonderlo. Oppure, come suggerito dal rumore dell'acqua, si stava facendo una doccia.

Afferrò l'arco con entrambe le mani, avanzando lentamente fuori dalla camera da letto e nel piccolo corridoio su cui dava il bagno. Una striscia di luce sul pavimento l'avvertì che il ladro aveva acceso la luce e accostato la porta. Dio, possibile che qualcuno che conosceva si fosse introdotto là dentro per lavarsi? Più confuso che preoccupato, si decise a dare una spintarella alla porta del bagno, spalancandola del tutto. Sparsi a terra, gli effetti personali del ladro: un paio di scarpe col tacco, un vestito viola scuro e una borsetta minuscola che non avrebbe potuto contenere un bel niente. Il suo cervello, bruscamente rimesso in moto, passò rapidamente in rassegna tutte le donne con cui era uscito e che erano solite vestirsi a quel modo. Non gli venne in mente un bel niente. Magari era un pessimo scherzo d -

L'acqua della doccia si era spenta e la tenda riaperta con uno strattone improvviso.

Natasha lo fronteggiava, grondante acqua, nuda da capo a piedi, un'espressione indecifrabile sul volto. Per quanto stesse cercando di trattenersi, Clint non poté fare a meno di lasciar vagare lo sguardo un po' ovunque, in modo disordinato e maldestro. Come di chi non ha mangiato per giorni e si ritrova improvvisamente ad un banchetto in pieno stile: arraffa quel che può, dà un morso di qua e uno di là, non si ferma a gustarsi niente, ma continua a muoversi, senza poterne avere abbastanza.

“Ho bisogno di un asciugamano e di un cambio di vestiti,” le parole della donna lo riportarono coi piedi per terra. Non sembrava minimamente imbarazzata dalle circostanze.

Rimase a fissarla per quella che gli parve un'eternità.

“Okay,” annuì, costretto ad andare in modalità emergenza per impedirsi di perdere la testa e dare definitivamente di matto. E' tutto normale. Tutto... perfettamente normale. Fece per arraffare uno degli asciugamani appallottolati sulla stanga di metallo infissa al muro, ma decise all'ultimo secondo che non gli sembrava proprio il caso. Corse a cercare un paio di vestiti puliti (mediamente impossibile) e un asciugamano pulito (altamente impossibile). Abbandonò l'arco sul letto e si mise a scavare in fondo all'armadio, trovando dei vecchi pantaloni da ginnastica e una t-shirt di un qualche festival musicale del decennio passato. Si ricordò anche di essere in possesso di un accappatoio che non usava mai, nuovo di pacca, la confezione neanche aperta, nascosto da qualche parte vicino alla scarpiera.

Tornò indietro dopo svariati minuti, ritrovandola esattamente dove l'aveva lasciata, lo sguardo perso chissà dove, una totale noncuranza per la propria nudità. Fu quel misero a dettaglio a colpirlo come un pugno allo stomaco, come se quella fosse stata ordinaria amministrazione, una cosa di tutti i giorni. Familiare.

“E' tutto quello che ho trovato,” si scusò a mezza voce, passandole l'accappatoio e i vestiti. “Ti aspetto fuori.” Le dette le spalle in fretta e furia, sentendo il bisogno fisico di allontanarsi il prima possibile. Una sensazione fin troppo conosciuta – pericolosa – stava cominciando a farsi strada dentro di lui.

“Clint?” Natasha lo richiamò, un tono incerto che non si sposava affatto con l'atteggiamento che aveva sfoggiato solo qualche secondo prima. Si voltò verso di lei, invitandola tacitamente ad andare avanti, concentrandosi solo sul suo viso. Solo allora notò certi segni rossastri sul collo e sul viso di lei. “Posso restare qui stanotte?”

“Puoi restare tutte le volte che vuoi,” esalò, senza neanche pensarci.

Natasha annuì debolmente mentre si infilava l'accappatoio. Gli parve improvvisamente più piccola, sommersa da tutta quella spugna bianca.

“Ci vediamo fuori,” ribadì, decidendosi finalmente a lasciarla sola.

 

*

 

Fece un nodo estremamente precario ai lacci che avrebbero dovuto tener su i pantaloni e che avevano smesso di essere funzionali anni... e anni prima. La t-shirt non era messa meglio. Osservandosi allo specchio, Natasha cercò di decifrarne le scritte sbiadite, ma non ottenne granché. Finì di asciugarsi i capelli con un lembo dell'accappatoio, abbandonandolo sul lavandino per mancanza di appigli. Solo allora, dopo aver passato minuziosamente in rassegna tutto ciò che aveva dovuto fare là dentro e aver raccolto i vestiti con cui era arrivata, uscì dal bagno, muovendosi in direzione del soggiorno.

Clint l'aspettava seduto sul divano, la preoccupazione abilmente dissimulata sul suo volto, lo sguardo fisso sulla finestra ancora aperta dalla quale era entrata. Natasha non palesò la sua presenza, prendendosi tutto il tempo che le serviva per cercare il cestino della spazzatura e gettarci tutti gli effetti personali con cui aveva lasciato il suo appartamento. Tirandosi indietro i capelli ancora fradici, prese posto accanto a Clint, esausta eppure ancora fastidiosamente sveglia, all'erta.

Nonostante il disagio creato da quella situazione bizzarra, si sentiva sollevata. Sollevata di non dover più indossare quel travestimento ridicolo, sollevata di non dover fingere di essere qualcuno che non poteva o voleva essere.

“Eri in missione?” Fu lui a spezzare il silenzio, una domanda malsicura nella sua direzione.

“No,” scosse il capo, tirando su le gambe sul divano, appoggiando il capo allo schienale, rannicchiata contro il bracciolo. “Sono... uscita.”

“Uscita.”

“Sì,” annuì. “Non sei tu quello che dice sempre Natasha dovresti uscire di più?,” lo citò, in una terribile imitazione della sua voce.

“Io non parlo così.” Clint le sorrideva adesso.

“No, hai ragione, suoni ben più insopportabile.” Gli scoccò un'occhiata esplicita, ma stanca. Non era sufficientemente brillante per un botta e risposta, non in quel momento.

“Non è andata bene, ah?”

“No.”

“Natasha...” La mano di Clint fu sulla sua prima che potesse accorgersene, facendola sobbalzare. Il disagio superava il sollievo: Natasha la fece scivolare via, ristabilendo cautamente le distanze.

“Non è successo niente,” si affrettò a rispondere, costringendosi a superare il blocco che sembrava impedire alle parole di essere pronunciate. “Non ci riesco e basta.”

“Uscire?”

“Parlare con la gente, fingere di essere una persona normale...,” si strinse nelle spalle. “Com'è che si fa?”

“Non lo so,” ammise. “Di solito lo faccio senza accorgermene e poi mi ricordo di tutte le cose che non vanno.”

“E te ne vai?”

“Me ne vado,” confermò. “Oggi ho incontrato una ragazza al supermercato. Mi ha aiutato a comprare del detersivo e mi ha invitato per un caffè,” aveva assottigliato lo sguardo, come per ricordare meglio gli eventi della mattinata. “Stava andando tutto bene, lei era simpatica e carina e normale,” le rivolse un'occhiata mestamente divertita, “finché non mi ha confessato che non le piaceva il caffè.”

Natasha, che aveva trattenuto il respiro fino a quel momento, si ritrovò a ridere, l'aneddoto sincero improvvisamente piombato nello scherzo.

“Neanche a me piace il caffè.”

“A te non piaceva,” la corresse. “Però ti ho riportato sulla retta via.”

“Lo vedi?”

“Cosa?”

“Lo fai in continuazione. Quando una conversazione diventa troppo difficile, cerchi di farmi ridere.”

Il sorriso si spense a poco a poco sul suo volto, lasciando lo spazio ad un imbarazzato disagio. Si preoccupò di guardare altrove, evitare il suo sguardo. Natasha si sentì in colpa per averglielo fatto notare.

“Non sono il solo ad avere le sue tecniche,” alluse, occhieggiandola appena, di sottecchi.

Annuì, come prendendo atto delle sue parole. Si ritrovò a studiare il suo profilo, il collo incassato tra le spalle nella posizione disordinata in cui sedeva, le linee definite dei bicipiti lasciati scoperti dalla t-shirt sgualcita con cui doveva aver dormito. La sorda necessità che l'aveva convinta ad uscire solo qualche ora prima, tornò a farsi sentire, insistente. Si rese conto di aver voglia di toccarlo, giusto per sapere che effetto facesse, avere la sua pelle sotto la propria. Voleva togliergli quel ciuffo ribelle che gli ricadeva sulla fronte, voleva guardarlo negli occhi, voleva sapere come ci si sentisse senza nessuna barriera, nessuno pseudonimo, nessuna copertura a dividerli. Solo provare.

Si morse il labbro inferiore, sovrappensiero. Il cuore le batteva furiosamente in petto. Lo stomaco inestricabilmente stretto in una morsa bollente. Si mosse prima ancora di poter decidere cosa fare, arrampicandosi su di lui, una gamba a ciascun lato dei suoi fianchi, le mani appoggiate sullo schienale del divano.

“Natasha,” Clint, la voce innaturalmente bassa, si era irrigidito sotto il suo peso. Sembrava voler evitare ad ogni costo di guardarla negli occhi.

“E' okay,” bisbigliò, allungando una mano per invitarlo a sollevare il mento. Nel momento esatto in cui incontrò il suo sguardo, si rese conto del perché aveva disperatamente cercato di evitarla. Desiderio e vergogna si mescolavano sul suo viso: era piuttosto sicura di non aver mai visto niente del genere, non da così vicino, non per lei. Si sospinse istintivamente su di lui, sentendo il suo e il proprio corpo reagire al contatto.

“T-Tasha... n-non...”

Un altro brusco movimento, bacino contro bacino. Natasha lo sentì tremare sotto di sé, e lei con lui. Appoggiò la fronte contro la sua, soffocando l'ennesima, debole protesta con un altro colpo basso. Socchiuse gli occhi, il calore del suo viso vicinissimo, il suo odore familiare.

“Lasciami,” sussurrò in una sorta di supplica. Lasciamelo fare. Ne ho bisogno. Non se n'era realmente accorta fino a quel momento, ma sì... ne aveva un disperato bisogno. Trattenne il respiro, il petto di lui a suggerirle che stava facendo altrettanto.

Un gran calore le risalì su per la schiena, il collo, le guance, quando Clint parve annuire in risposta. Natasha fece scivolare le mani lungo le braccia di lui, stringendo improvvisamente la presa attorno ai suoi polsi. Gli spostò delicatamente la mani dietro la schiena, come incalzandole nello spazio tra lo schienale e i cuscini. Solo... non mi toccare.

Clint, che aveva tenuto gli occhi chiusi fino ad un attimo prima, li riaprì, cercando i suoi. Una domanda che, Natasha ne ebbe la piena consapevolezza, non aveva bisogno di essere ripetuta ad alta voce, né necessitava di una risposta. Lasciamelo fare a modo mio. Un cenno d'assenso, nessuna richiesta di spiegazione: tutto l'invito che le serviva.

Fu rapido e sgraziato. Disperato. Le loro labbra non si incontrarono neanche una volta. Le mani di Clint rimasero dov'erano, saldamente ancorate al loro nascondiglio. Quelle di Natasha vagarono un po' ovunque, spogliandolo e spogliandosi dell'essenziale, lasciando addosso tutto il resto.

Si lasciò trasportare dall'istinto, dall'urgenza che la spingeva a muoversi con movimenti goffi, bruschi. Tentò di dimenticarsi tutto ciò che le avevano insegnato, di scordarsi di cosa i suoi alias avrebbero fatto al suo posto, sicuramente più abili e a loro agio di lei.

Mentre i loro gemiti strozzati le riempivano le orecchie, Natasha, da qualche parte nella sua testa, comprese di non avere la più pallida idea di cosa stesse facendo.


****************


Mi rendo conto di essere una persona pessima :P dopo tutto quello che ha passato... e se al di fuori è ufficialmente libera e tutto quanto, penso che di rapporti interpersonali significativi Natasha ne abbia ancora ben pochi. Mi sembrava giusto che dopo tutto questo tempo sentisse anche il bisogno di andare in una *certa* direzione, occuparsi della sua vita privata... con scarso successo. Nella mia mente bacata, mi è apparso naturale che Natasha finisse per ricascare nell'orbita di chi conosce molto bene, le è familiare, di cui si fida (anche se forse non ancora del tutto), e che se ne... approfittasse, in un certo senso. Ricorrere a Clint, in una situazione del genere, è un po' come barare. Con lui non c'era bisogno di fare troppa fatica con tutte quelle bugie... o almeno è quello che inconsciamente Natasha deve aver pensato. In pratica credo che questa sia l'uuuultima (lol si spera) grande barriera eretta dalla Red Room che Natasha deve ancora abbattere. Tra l'altro... e mi sento stupida a dirlo, spero che l'ultima scena non sia apparsa... romantica o qualcosa del genere :P volevo proprio dare l'idea della goffaggine di lei e della sua - nonostante tutto - inesperienza.
Al povero Clint consiglio solo di resistere perché ne vale la pena... scusa Clint XD La scena iniziale mi serve per un dettaglio nel prossimo capitolo, e in più anche per sottolineare che anche lui non sta messo tanto meglio... mi dà l'idea di uno che si lancia a capofitto nelle cose e poi si rende conto di voler fuggire a gambe levate 5 minuti dopo.
Anyway, ringrazio Eli as usual (anche se ora va in vacanza e un po' la odio ù_ù) e tutti voi che leggete & commentate e mi fate felice :D
Grazie grazie.
Al prossimo capitolo!
S.
  
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