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Autore: Ivola    13/07/2014    3 recensioni
Le storie di Panem sono varie e numerose. Avete mai sentito parlare dei promessi del Distretto 6, quei due ragazzi che avrebbero fatto di tutto pur di ammazzarsi a vicenda e non sposarsi? Loro sono solo una sfocatura, come tanti altri.
Klaus e London. London e Klaus.
Un altro matrimonio combinato, le persone sbagliate, un cuore solitario, e tutto ciò che (non) può essere definito amore.

▪ VI: « Che cosa mi stai facendo? » ansimò la ragazza, tentando di aggrapparsi alle sue spalle. Era decisamente una domanda stupida, visto che era piuttosto evidente cosa il ragazzo stesse facendo. [...]
Klaus non si degnò neanche di rispondere, ben concentrato a muoversi sul suo corpo con gli occhi distanti e le labbra socchiuse. Non aveva né la voglia né la forza di ribattere, per cui la zittì con un bacio rabbioso. « Taci » le sussurrò, corrugando la fronte e mantenendo le labbra a pochi centimetri dalle sue nel caso London avesse deciso di parlare ancora.

▪ XIII: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare.
[...]
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
Capitoli:
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Note: Questo è il famigerato capitolo ventiquattro. Tutta Blur conduce qui. E per questo non dirò altro in merito.
Scusate il fin troppo frequente uso del corsivo, ma non ho trovato modo migliore per esprimere… determinati sentimenti. Spero davvero, davvero che vi piaccia, anche perché avevo preparato questa scena sin da quando ho cominciato a scrivere Blur. Purtroppo non mi vedrete aggiornare per un po’ di tempo perché sto traslocando, quindi mi staccheranno la linea telefonica e non avrò internet per un bel po’; inoltre, il 24 luglio parto per Dublino e tornerò il 7 agosto, soltanto allora mi vedrete postare il venticinquesimo capitolo (a meno che non riesca a scriverlo alla velocità della luce, ma ne dubito) e… mi scuso a prescindere per la suspense non voluta ^^’
Anyway, l’unica cosa che desidero davvero è questa: dopo aver letto il capitolo, vi pregoviprego çwç, ascoltate la canzone che dà il titolo, ovvero Stranger in a Strange Land. E’ la canzone, è tutto, è perfetta. Racchiude un mondo, sul serio ♥
Grazie ancora a tutti per tutto, sono così felice di aver superato le cento recensioni in un modo che non potete immaginare. Senza il sostegno di molte persone, giuro che non sarei arrivata fino a questo punto. Grazie di cuore, soprattutto a Marty e a Mito, per cose che loro già sanno e non c’è bisogno che glielo dica… sono persone fantastiche, le adoro, durante la stesura di questa storia non vorrei accanto nessuno di diverso da loro.
Vi ricordo che QUI c'è la mia pagina facebook e QUI c'è il gruppo scambio-recensioni, che vi invito caldamente a visitare.
Adesso vado, a presto e b
uona lettura! ♥

Il titolo del capitolo viene dall'omonima "Stranger in a strange land" dei 30 Seconds to Mars; se ne consiglia vivamente l'ascolto dopo la lettura. 

Questo banner appartiene a me, ©Ivola.
















 




 
















Blur

(Tied to a Railroad)






024. Twenty-fourth Chapter – Stranger in a strange land.




Vide la donna davanti a sé sobbalzare bruscamente e tapparsi le orecchie con le mani. Erzsébet, poi, si abbassò su di lei e la strinse forte, come se potesse diventare polvere tra le sue mani da un istante allaltro. Sussurrò qualcosa tra le labbra e le bagnò la fronte con lacrime calde.
Klaudia non capiva.
Perch
é le pareti della casa vibravano? Perché si erano nascoste nel seminterrato del maniero? Perché la nonna la abbracciava così?
Klaudia era forte, Klaudia non voleva piangere. Non l
aveva fatto quando un uomo brutto e grosso laveva trascinata dal giardino di casa sua fino ad un hovercraft nero come un pipistrello nella notte, non lavrebbe fatto nemmeno in quel momento.
Abbracci
ò la nonna con dolcezza, tentando di rassicurarla, ma Erzsébet non smise di tenerla stretta tra le braccia.
Klaudia continuava a non capire. Dov
erano la sua mamma e il suo papà? Doverano nonno Alfons, nonno Frantz e nonna Shyvonne?
Era sicura che zio Ben avrebbe messo a posto ogni cosa. Lui era sempre sorridente, sempre gentile con lei e la faceva sempre ridere. S
ì, zio Ben avrebbe risolto tutto. 
Ma zio Ben non c
era.
E le mancava tanto.


 
*

 
Aveva ancora le braccia legate in alto, tenute alzate da due catene sospese in diagonale. Il ferro, stretto convulsamente intorno ai suoi polsi, gli aveva graffiato – e gli graffiava tuttora – la pelle fino a farla sanguinare. Ma quello era il male minore, dopotutto.
Klaus aveva la schiena nuda rivolta verso il suo aguzzino, che quasi riusciva a distinguere ogni muscolo della sua pelle contratto dal dolore. Dei rivoli di sangue nero, sporco, gli colavano sui fianchi e, poi, a terra. Goccia dopo goccia.
Il supplizio era cominciato da poco, ma Klaus non sapeva dire quanto, di preciso. Gli sembravano già passate ore, quando in realtà erano soltanto pochi minuti.
Tredici frustate, per cominciare. Tredici come quelle che gli aveva inflitto suo padre tempo addietro e di cui portava ancora le cicatrici. Sarebbe già dovuto essere svenuto, ma – purtroppo – era ancora pienamente cosciente. Avrebbe di gran lunga preferito essere rigettato con violenza nel suo subconscio piuttosto che sopportare altre frustate; quasi aveva accarezzato il desiderio di morire, con il pensiero.

« Dove si nascondono i ribelli? » chiese una voce per interfono, fredda e distaccata, probabilmente quella di un altro Pacificatore.
Klaus non rispose, con la testa bassa e gli occhi semichiusi. Alla fine Emil gli aveva tolto quella maledetta benda, ma nulla era migliorato. Respirava a fatica, mentre la catena gli dilaniava i polsi e il dolore lanciante alla schiena lo teneva quasi in ginocchio, visto che se non fosse stato per le catene, sarebbe già caduto – volentieri, tra l’altro. I suoi muscoli supplicavano per un minuscolo secondo di riposo da quella posizione che da dolorosa era diventata lanciante.

« Dove si nascondono i ribelli? » ripeté la voce, incolore, anche se con il tono leggermente più marcato.
Lui non rispose di nuovo. Era l’ennesima volta che gli facevano quella domanda, ma non lo sapeva, dopotutto; non poteva di certo inventarsi un qualche stupido nascondiglio. Aveva provato a dire a quelli che l’avevano catturato che era stato tutto uno sbaglio, che lui non c’entrava niente con quella rivolta di cui tanto parlavano. Ma non l’avevano ascoltato, naturalmente.
E tenevano anche London rinchiusa, da qualche parte.
Al pensiero di lei, ugualmente torturata, qualcosa scattò nel suo cervello. Strinse i pugni e sibilò: 
« Andate a farvi fottere. »
Silenzio. « Continua » disse poi la voce all’aguzzino.
La frusta calò di nuovo sulle sue spalle, lacerando la pelle. Klaus strinse i denti fino a farsi male e si morse le labbra, pur di non dare ad Emil la soddisfazione di vederlo urlare, soccombere totalmente.

« Perché non dici la verità, Wreisht? » gli chiese, quindi, con tono vellutato, parandoglisi di fronte e schioccandogli un altro improvviso colpo di frusta sul torace, così vicino al collo e al volto che lo lasciò senza fiato nei polmoni e senza forza di pensare.
Emil indossava una maschera nera, una maschera che gli confondeva la voce e gli nascondeva il viso. Klaus non sapeva perché né aveva la facoltà di domandarselo, eppure non aveva potuto fare a meno, per un breve istante, di notare che quell’uomo aveva qualcosa di terribilmente familiare. Le movenze, forse, i passi lenti e le spalle rigide.
Schiuse appena le labbra per rispondere, quando una frustata gli colpì l’addome con violenza, lasciandogli un altro – un altro – segno rosso sulla pelle, e da esse fuoriuscì soltanto un grido strozzato. Si accartocciò su se stesso, ma le catene non gli permettevano di muoversi più di tanto.
Il supplizio continuò, mentre l’aguzzino sembrava sorridere beatamente del dolore dell’altro. Ormai aveva anche smesso di fargli domande, come se si stesse semplicemente divertendo. Klaus non poteva vederlo, ma sapeva che in fondo ci stava godendo moltissimo nel vederlo soffrire al pari di una bestia da macello.
A quel punto, quando la lucidità sembrava volerlo abbandonare, non riuscì a non pronunciare quella domanda che gli vibrava, bruciava, nella gola sin da quando si era risvegliato. 
« Dov’è London? » Soltanto un sussurro, biascicato tra i gemiti di dolore.
L’aguzzino esitò un istante, poi rispose piano, quasi con tono addolcito – e finto, naturalmente. 
« Tua moglie? Nella stanza accanto. »
Quell’affermazione gli portò un veloce lampo di speranza negli occhi scuri, ma scomparve immediatamente, sostituito dal terrore più puro. Il cuore gli si bloccò in gola e i pugni cominciarono a sudargli.
« Cosa… cosa le stanno… facendo? » deglutì, lasciando che il suo sguardo serpeggiasse furiosamente sulla figura del tutto abbigliata di nero dell’altro.
« Ah, questo non lo so. »
Sarcasmo. Klaus aveva sempre adorato il sarcasmo, ma in quel momento avrebbe preso volentieri a pugni l’uomo che aveva di fronte e che lo stava prendendo in giro con tanta nonchalance. Ringhiò di disperazione, dando uno strattone violento alle catene.
« Non puoi farci niente, Klaus. Finché non ci dirai tutto quello che sai, London riceverà il tuo stesso trattamento » continuò Emil con voce atona, priva di emozione. « O anche peggio. »
« Io non so niente » ansimò, alzando la testa per quanto gli era possibile. Non riuscire a vedere negli occhi quel maledetto bastardo lo stava facendo impazzire. « … quando lo capirete? »
L’aguzzino schioccò la frusta sul pavimento con uno scatto del braccio, facendolo sobbalzare. « Sei stato catturato nel Distretto Sei durante un tentativo di rivolta. Con un’arma. Tu sei un ribelle, Wreisht, non negarlo. »
Gettò la frusta a terra e gli si avvicinò piano, giungendogli proprio di fronte. Faccia a faccia.
Klaus cercò disperatamente di cogliere qualcosa in quel volto nascosto, ma non riusciva vedere oltre il buio. Il che, da un lato, lo spaventava a morte.

« Adesso ci sono solo due possibilità: o ci dici tutto quello che sai » – e qui gli diede una ginocchiata nel ventre, facendolo piegare in due – « o finirà male. »
« Uccidetemi pure » mormorò, cercando di deglutire e stringendo i pugni fino a far sbiancare le nocche.
« E chi ha parlato di uccidere te? » chiese l’altro con cattiveria, avvolgendogli una mano guantata intorno alla gola. Klaus probabilmente sbiancò, cogliendo al volo il significato di quelle parole, ma nel buio di quella stanza fetida era impossibile che l’altro se ne accorgesse.
… E invece se ne accorse.

« Non… non starai dicendo… » fremette in un sibilo, contraendo la mascella.
L’uomo con la maschera gli accarezzò piano il collo, quasi con una dolcezza inaudita, facendo scorrere le dita lunghe sulla pelle nuda, sulla carotide, sulla mandibola. Poi gli diede un altro calcio violento, tra la gamba e il fianco, che provocò l’ennesimo rantolio di dolore.

« Hai capito benissimo » rispose lui. « Dopotutto sei intelligente, Klaus. »
A quella affermazione un brivido gli percorse tutte le membra del corpo. Aveva usato un tono confidenziale, un tono che poche persone si permettevano di usare con lui.
Con le poche forze che gli rimanevano gli sputò addosso.
L’aguzzino, dopo un istante di esitazione in cui sembrò trattenersi con tutto se stesso per non ucciderlo sul posto, invece di adirarsi, sembrò sghignazzare da sotto la maschera.
Si allontanò per un secondo, raggiungendo la porta in fondo alla stanza. Con lui rientrarono due Pacificatori.

« Portatelo nella stanza accanto » furono le sue ultime parole.
 
Lo trascinarono fuori da quel tugurio, sanguinante e mezzo svenuto, tenendolo per le braccia. Un Pacificatore gli teneva una doppietta puntata sulla schiena, mentre Emil li seguiva in silenzio.
Klaus venne gettato in una stanza completamente diversa dalla precedente; dalle pareti bianche, candida e immacolata. Per un attimo credette di star sognando, perché la luce di quell’ambiente per poco non lo accecò dopo tutto il buio che aveva sopportato, ma poi capì subito che quello sarebbe stato un altro dei suoi peggiori incubi. C’era qualcosa di inquietante in quella situazione, qualcosa di terribilmente sbagliato, di terrificante.

« Legatelo » ordinò l’uomo con la maschera ai Pacificatori, prima che un urlo non costringesse Klaus ad alzare lo sguardo di scatto.
« Klaus! » gridò London, spaventata, alla vista del suo corpo seminudo e sanguinante.
Ebbe una visione sfuggente di lei legata ad una sedia, ma capì che stava bene. Non le avevano fatto ancora niente. Era lì, era viva.
Era viva.
Lo legarono nuovamente al muro, di fronte a lei, anche se questa volta con meno brutalità – e perché mai, poi, non aveva il coraggio di chiederselo.
Riprese lucidità poco a poco, mentre il dolore delle piaghe appena inflitte diventava sempre più straziante, come se gli stessero bruciando la pelle con dei tizzoni ardenti.
Ogni secondo metteva a fuoco altri dettagli, come le armi dei Pacificatori inevitabilmente puntate su di loro, i dettagli della maschera di ferro dell’aguzzino, il pavimento di mattonelle lucide e pulite, la sedia su cui era seduta London…
La ragazza gli rivolse uno sguardo perso e spaesato; i suoi occhi erano appannati dalla disperazione. Gli mormorò qualche altra cosa, che non riuscì a cogliere.
Una fitta al petto, che finalmente gli fece comprendere cosa sarebbe successo di lì a poco, giunse dolorosamente a riportarlo nella cruda realtà.
Eppure il peggio doveva ancora arrivare.
Sillabò un 
« Andrà tutto bene » con le labbra, ma nemmeno lui riuscì a sentire la propria voce – non riusciva nemmeno a crederci fino in fondo, a quella parole. Fu scosso da un tremito di paura. Un presentimento, che gli aleggiava nel cervello e gli faceva ronzare le orecchie. Un maledetto, terribile presentimento.
Non potevano farlo… non potevano
Emil, che prima si era divertito tanto a flagellarlo, si interpose tra di loro, come a volerli dividere anche solo con la sua figura imponente e totalmente abbigliata di nero. Neanche un lembo di pelle, infatti, si intravedeva nella sua persona.

« Adesso dovrò recitare la parte del cattivo » disse, quasi dispiaciuto, camminando piano e soppesando ogni passo. « Quanto mi dispiace… »
Si portò una mano alla maschera.
Klaus, sin dalla prima volta che l’aveva incontrato e sin da quando aveva ascoltato quella sua voce gelida, irrisoria, falsa, aveva desiderato vedere il suo volto, per poterlo guardare bene in faccia, per sperare di trovare almeno una traccia di compassione nei suoi occhi, una traccia di pietà… Ma ora era terrorizzato all’idea di scoprire chi – o forse cosa – ci fosse sotto quel travestimento.
L’aguzzino si tolse la maschera lentamente, lasciando scivolare le sue ciocche di capelli bianchi una ad una. E poi, infine, rivelò il suo viso.
Klaus sentì il sangue defluirgli dal volto; rimase a fissarlo con un grido aggrappato alla gola, che quasi lo soffocò tanta fu la violenza di quella visione, come se non avesse più voce, come se non avesse più pensieri. Tutto si ghiacciò in quell’istante in cui l’aguzzino si voltò verso di lui, tutto si spense, per poi riprendere a pulsare davanti alle sue cornee come un’illusione ottica distorta che dà vita a copiosi e annebbianti giramenti di testa.
Fu come ricevere un’altra frustata – altre dieci, venti, trenta frustate. Quasi riuscì a sentire il cuoio che gli lacerava la pelle a sangue, di nuovo, ma non si rialzava e gli rimaneva attaccato alla cute, diventando una vanga e scavando in profondità, fino a renderlo vuoto, fino a privarlo di ogni cosa, di ogni certezza che gli era rimasta.
Un lampo di terrore, stupore, ripulsione attraversò gli occhi di Klaus.
Benjamin Bridge, lì, in piedi, davanti a lui.
Con un sorriso.
Un sorriso maledettamente e orrendamente diverso da tutti gli altri che aveva visto rivolgergli, un sorriso raccapricciante per quanta spietatezza vi fosse celata.
Benjamin Bridge.
Ben.
L’aguzzino. Il suo nome non era Emil, non era un capitolino, non era un uomo, ma un ragazzo cresciuto fin troppo in fretta. Non era vero, non poteva essere vero, reale, tangibile. Non poteva.
Benjamin.
Il suo nome divenne ghiaccio nella mente di Klaus, divenne nero, divenne un graffio. Un graffio più nitido e violento di tutte le torture che potesse immaginare.
London sembrò andare in panico, occhi e bocca spalancati dall’incredulità e dall’orrore. Il suo viso candido era diventato mortalmente pallido, mortalmente spento, mortalmente terrorizzato
« Ben? » Fu un sottile sussurro che non udì nessuno. Qualcosa che somigliava ad una supplica disperata, come se gli stesse chiedendo conferma che fosse realmente lui, o forse che fosse tutto un orribile sogno e che lui fosse venuto a salvarli da quella follia.
Salvarli. Salvarli.
Klaus diede un improvviso e doloroso strattone alle catene, tentando invano di avanzare di qualche centimetro e avvicinarsi a colui che l’aveva torturato fino a qualche istante prima.
Torturato. Benjamin l’aveva torturato.
Un flusso repentino d’ira si espanse lungo le membra irrigidite del suo corpo, quasi risvegliandole dal torpore in cui erano piombate. Lo avrebbe volentieri steso al suolo e massacrato, fino a sentire le sue suppliche disperate, fino a sentirlo urlare e morire.
Klaus in quel momento voleva che Benjamin morisse, per mano propria. Lentamente, dolorosamente, pezzo a pezzo.

« Che cazzo stai facendo? » urlò, fuori di sé, quasi bruciandosi le corde vocali.
Ben lo bloccò sul nascere con un’espressione... divertita. 
« Sai, Klaus? E’ bello vederti strisciare, per una volta. Dopo anni interi passati a marcire in solitudine, mi merito un po’ di spettacolo, no? »
La voce di London arrivò ovattata – era ancora così flebile che non avrebbe potuto nemmeno sentirla –, eppure sortì lo stesso effetto di un fulmine a ciel sereno, carico di disperazione. « ... che cosa stai dicendo…? »
Ben si voltò di scatto verso di lei, come se si fosse ricordato solo in quel momento che fosse lì insieme a loro. « Benjamin Bridge non esiste più. Siete stati voi ad ucciderlo, a distruggerlo»
Klaus tentò di liberarsi dalle catene in qualsiasi modo, ma più ci provava, più le ferite lo indebolivano, rendendolo solo carne da macello in trappola. Non poteva essere vero, non poteva essere vero, no.
« Liberaci, fottuto bastardo! » gridò, digrignando i denti e sentendo qualcosa di simile... alle lacrime… pungergli alla base delle ciglia. Lacrime furiose, incredule.
Credeva di conoscerlo. Lo aveva sempre creduto. Sempre.
Fino a quel momento.

« E perché dovrei? »
Silenzio da parte dell’altro. Silenzio ostinato, allibito, smarrito. « Perché dovresti? » ripeté, indignato. Klaus sperava che fosse tutta una farsa, ma quella sottile aspettativa svanì nel nulla l’istante successivo.
« Dopo tutto quello che mi avete fatto? » continuò l’albino, prendendo poi ad ignorarlo per avvicinarsi a sua sorella – alla sua gemella – come se la stesse vedendo per la prima volta in vita sua, come se stesse scoprendo una perla sepolta all’interno di una conchiglia.
London aveva gli occhi lucidi di panico, ma tentava ancora di darsi un contegno e di non piangere come una stupida bambina. Le sue labbra erano serrate e screpolate, i muscoli del viso contratti in uno spasmo e i pugni stretti, con le unghie conficcate nei palmi delle mani.
Ben le scostò con delicatezza una ciocca di capelli dalla fronte e le carezzò piano una guancia.
Klaus avrebbe voluto staccarsi da quelle catene per afferrargli la collottola e sbatterlo al muro finché tutte le sue ossa non si sarebbero frantumate, ma ogni suo movimento era nullo. Come si permetteva di toccarla?
Riformulò le sue parole: 
« Liberala » disse duramente.
« Avresti dovuto trovare qualcuno che ti sapesse proteggere meglio, Londie » le sussurrò Ben aspramente, prendendole il mento con una mano e inducendola a guardarlo negli occhi. Occhi uguali, occhi gemelli.
Dalle sue labbra tremule sfuggì un singhiozzo. 
« Ben… smettila, ti prego… » gemette debolmente, lasciando vagare freneticamente lo sguardo sul volto del fratello, completamente sfigurato dalla ferocia.
« Hai scelto lui, alla fine. Lui. Lui che non ti merita. E guarda dove sei finita… » replicò a quel punto, neanche minimamente toccato dalla supplica di London, staccandosi di botto come se la pelle di lei scottasse e la potesse sentire ardere persino da sotto i guanti.
Tornò in direzione di Klaus, che continuava a dimenarsi, anche se con meno convinzione. Le forze sembravano abbandonarlo di botto in quel momento. Ribellarsi, tentare di fuggire… non serviva a niente. Era diventato tutto impossibile. Esistevano soltanto loro tre, quella stanza e quelle maledette catene. Null’altro era vero, non riusciva a pensare a qualcosa che non fosse quella lama bruciante di rabbia nel suo petto. Eppure dei ricordi sfocati gli viaggiarono con sorprendente velocità nella mente: Ben che lo baciava con una dolcezza di cui nemmeno London era mai stata capace, Ben che gli puliva e fasciava le ferite lasciate dalla frusta di suo padre, Ben che lo invitava ad entrare con un sorriso radioso nella stanza in cui London aveva partorito, Ben che gli diceva qualcosa in ungherese… qualcosa di cui non conosceva il significato, ma che assomigliava molto a “Perché ti amo”.

« Mert szeretlek. »
Nessuno di quei ricordi combaciava con quell’immagine. Nessuno.
Benjamin in quel momento fece un cenno ai Pacificatori. 
« Cominciate con lei. »
Klaus gli lanciò un’occhiata di panico. « Che cosa? » sibilò, sconvolto.
« Oh, vedrai » rispose lui, incrociando le braccia, pronto ad assistere a chissà quale spettacolo. « Anzi, sai che ti dico? Guardala anche tu. Guardala bene, Klaus, perché potrebbe essere l’ultima volta. »
Klaus gli ringhiò contro qualcosa.
Non London, non lei.

« Finché morte non vi separi, ricordi? » chiese retoricamente Ben, infine – il pacifico, amabile, pacato e dolce Ben.
Il loro aguzzino.

 









   
 
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