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Autore: G K S    13/07/2014    3 recensioni
Agorafobia, demofobia, acluofobia, sociofobia, fobofobia, agyrofobia.
Queste sono tutte le facce di Kell, tutti i suoi demoni, tutte le sue fobie.
L’unica cosa che ha sempre potuto fare è resistere, contro ogni convinzione e anche contro il suo stesso volere, ha quasi diciassette anni e l’unica cosa che vorrebbe fare è vivere.
E dove finisce? Beh, il Quattrocentoventisette è un istituto correttivo per ragazzi affetti da fobie, proprio come lei. Troverà Cecely, Victor e anche Jeh, il fantasma del suo passato, il ragazzo sfigurato con l’occhio di vetro che non ha mai dimenticato e le cose per lei non sembrano andare troppo male...
Solo che le cose non sono esattamente come sembrano, anzi, le cose in realtà sono ancora più complicate di quelle che sono...
Genere: Introspettivo, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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E' la prima storia che pubblico su efp, nonostante il fatto che abbia parecchia altra roba nel cassetto :3
Se vi piace la storia oppure se vi va semplicemente di farmi sapere cosa ne pensate ve ne sarei enormemente grata, adoro scrivere e sapere cosa pensano del mio modo di scrivere persone che... non mi conoscono direttamente (e non posso subire i miei sproloqui) sarebbe molto interessante ;)
Beh, buona lettura, ora vi lascio al primo capitolo!
 








 
PARTE PRIMA


1. Diagnosi


La psicologa di mezza età che l’aveva esaminata si schiarì la voce portandosi una mano alla gola: «Allora Kellan.» Sentirsi chiamare con il suo nome completo dopo tanti mesi faceva un certo effetto...
«Abbiamo trovato tutte le tue fobie.» Sorrise e gli mise sotto il naso un foglio ruvido con delle grosse scritte nere in stampatello maiuscolo.
Alzò lo sguardo verso la donna dall’altra parte della scrivania di vetro, la guardò con aria di sufficienza, facendole capire che non le importava proprio niente delle sue fobie.
La psicologa lesse ad alta voce: «Agorafobia, demofobia, acluofobia, sociofobia, fobofobia e agyrofobia.» Poi attaccò a spiegarle, come se ce ne fosse stato bisogno: «L’agorafobia come sai è la paura degli spazi aperti.
La demofobia è la paura dei luoghi affollati.
La acluofobia è la paura del buio... la più grave che hai.
La fobofobia è la paura della paura stessa, ne è affetto chi come te ha paura del giudizio degli altri quindi va a braccetto con la sociofobia.
La agyrofobia è la paura delle strade, direi che è chiaro che il tuo è un problema fisicamente fastidioso.»
«Qualcos’altro?» Domandò ironicamente Kell.
La psicologa sospirò: «I tuoi genitori in realtà pensavano che tu soffrissi prevalentemente di un disturbo d’ansietà generalizzato, ma non è così, tu hai delle vere e proprie fobie, tu...» Esitò un momento vedendola aggrottare le sopracciglia: «Tu lo sapevi?»
«Sì.» Lo sapeva eccome.
«D’accordo.» Si schiarì di nuovo la voce intimorendola: «Ti hanno detto per quale motivo ti hanno portata qui a farti esaminare in questa struttura?»
«Per capire esattamente quali fobie ho.» Rispose senza esitare, ma lo sguardo della psicologa le fece capire che non era proprio così che era andata.
La donna scosse la testa e iniziò a spiegare: «Tanto per cominciare, era importante capire se hai delle vere fobie com’è risultato invece di un disturbo d’ansietà generalizzato.» Fece una pausa per permetterle di fare cenno di aver afferrato il concetto: «Nel caso non fosse stato così non avrebbero potuto fare quello che adesso faranno.»
«Si, cioè?» Chiese Kell sempre più irritata, quei discorsi vaghi non erano esattamente il modo più adatto per convincerla che non sarebbe rimasta sconvolta e poi, non potevano dirglielo direttamente i suoi, mancava loro il coraggio forse?
La dottoressa parlò: «Vogliono iscriverti a un programma di terapia di gruppo di esposizione, tramite questo programma potrai confrontarti direttamente con le situazioni che temi, fino a quando più avanti nel tempo non avrai superato del tutto il tuo problema.»
Ispirò cercando di contenersi, aveva detto terapia di gruppo?
«C’è un’altra cosa, la cosa più importante.» Sorrise leggermente come se servisse ad addolcire il sapore di uno sciroppo al gusto di evidenziatore: «Si tratta di un istituto privato psichiatrico che si chiama Quattrocentoventisette. Ed è un istituto a tempo pieno, il che significa che studierai quattro ore al giorno allo scopo di conseguire un diploma e farai terapia di pomeriggio, vivrai e dormirai lì ogni giorno con altri ragazzi come te.»
E lei non aveva neanche la forza di urlarle contro.
«Sta scherzando vero?» La donna scosse la testa e Kell non riuscì a resistere, si portò le mani alla bocca appoggiandosi al tavolo.
Gli adulti li sopportava, avevano pena di lei, ma...
Era risultata sociofobia e volevano mandarla in mezzo a ragazzi della sua età, si sarebbe messa a ridere se non fosse stata così infuriata.
Non può essere vero, adesso mi sveglio e mi ritrovo nel mio letto a casa mia, sicuramente è un sogno non poteva essere vero.
«Fate tutti così inizialmente, quando capirai che i nostri professori e i nostri psicologi sono lì semplicemente per aiutarti ti ricrederai.
Mi sono accorta sai...» Disse la donna con un’aria maliziosa: «Tu ostenti sicurezza, questo ti aiuterà, potresti essere fuori prima del diploma, le tue fobie sono perfettamente superabili.»
Sciocchezze era debole.
«Sciocchezze.» Ripeté seguendo l’esempio della sua coscienza: «Ostento un sacco di belle cose da parecchio tempo e la mia situazione è peggiorata di giorno in giorno.»
«Senti...» Disse la psicologa addolcendo un altro po’ il suo sguardo già troppo zuccheroso: «Ti va di dirmi perché hai cercato di... si beh, di fare quello che hai fatto?»
Kell sbuffò sonoramente cercando di irritarla: «Perché ho cercato di uccidermi vuole dire?» La sua interlocutrice annuì pazientemente.
«Sono stufa di questa vita.» Rispose semplicemente.
«Potresti cambiarla.»
«Si, potrei morire.»
Al posto dello sguardo docile la sua interlocutrice divenne tutto a un tratto seria e decisa: «Voglio dirti una cosa Kellan.»
Kell abbassò lo sguardo, non voleva che pensasse che le importava qualcosa delle sue parole, non era così.
«Non puoi opporti alla decisione dei tuoi genitori, loro sono assolutamente disperati, è anche per loro che devi accettare di trasferirti nel Quattrocentoventisette, non fargli anche questo, non farli sentire in colpa.»
Kell scosse la testa arrabbiandosi sempre di più; la rabbia saliva fin dentro i suoi occhi, difficilmente la psicologa avrebbe potuto ignorarla: «Scusi, prima dice che non posso oppormi, poi dice che devo accettare la loro decisione, non le pare un tantino contraddittorio?» L’aria derisoria era la sua preferita, potevi provare a ferire la gente, forse qualcuno ci sarebbe persino cascato.
Lei la ignorò fermamente: «Se ti opponi Kellan, non cambierà niente, sarà solo più difficile per te. Per questo è meglio se te ne fai una ragione.»
«Come posso farmene una, non uscivo di casa da otto mesi prima di venire qui.»
Uscire di casa era stato un trauma abnorme, non sapeva neanche come facesse a essere ancora cosciente: «Mi viene la nausea al solo pensiero di vedere delle persone, di camminare in posti nuovi, di dormire in un altro letto, di tornare a scuola...» Fece una smorfia di dolore, poi la donna si alzò in piedi facendole segno di alzarsi.


I suoi genitori attendevano in sala d’aspetto, le bastò fare pochi passi per vederli comparire davanti ai suoi occhi, seduti e accigliati.
Si fermò davanti alle loro sedie imbottite di tessuto rosso e parlò tentando di avere una voce ferma: «Voglio mettere bene in chiaro una cosa.» Sua madre cominciò già da subito a scuotere la testa sconsolata, ma a Kell non importava, continuò imperterrita: «Non intendo mettere piede in un istituto per gente fuori di testa, è chiaro? Sarebbe il primo passo verso la pazzia.»
I suoi genitori però la guardarono come se fosse pazza già da un bel pezzo.


Non era mai stata viziata per questo opporsi non era esattamente il suo forte, riusciva a controllarsi si, ma opporsi era una cosa completamente diversa, mancava il coraggio.
Era stato un errore interrompere la terapia, sua madre disse che era per quello che lei aveva avuto quel tracollo mentale; per quello aveva deciso di buttarsi dalla finestra di camera sua.
Se avesse avuto un po’ più di coraggio si sarebbe opposta, avrebbe detto che sarebbe andata allo stesso modo anche tre mesi prima, non appena avesse abbassato la maniglia di camera di Sam per andare da lei scoprendo che non era abbastanza sana di mente per stare con sua sorella.
Da quel punto di vista non era del tutto scontenta di andarsene, era evidente quello che avevano visto i suoi genitori trovandola intenta a scivolare giù dalla finestra.
Forse, una nuova possibilità di avere una vita normale con il loro bambino di appena sei mesi. Visto che la prima figlia non era venuta sù bene, meglio tentare con il secondo.
Lei era di troppo, avrebbe dovuto rendersene conto molto tempo prima, forse sarebbe riuscita a buttarsi di sotto senza che nessuno se ne accorgesse, senza sbattere quella stupida finestra...
Sua madre frugava in camera sua alla ricerca degli oggetti da mettere in valigia, con il regolamento d’istituto in mano, c’era scritto cosa poteva e cosa non poteva portarsi da casa.
Sarebbe voluta andare via, era vero, ma non da quella casa, avrebbe semplicemente voluto morire e lasciarsi alle spalle il presente il passato e il futuro.
L’idea del Quattrocentoventisette la rendeva ancora più agitata, quasi come se stesse per tornare nella sua vecchia scuola.
«Hai sempre detto che odiavi che ti guardassero come se fossi pazza.» Le disse sua madre sorridendole riferendosi alla vecchia scuola e alla gente che c’era dentro: «Adesso non sarà più così.»
«Già.» Fece Kell buttandosi a peso morto sul suo letto: «Perché saranno tutti pazzi, molto acuta.»
«Non dirlo neanche per scherzo! Non sono pazzi, sono affetti da fobie, possono capirti, hanno gli stessi identici problemi che hai tu.» Sbottò, facendo un gesto sbrigativo con la mano, i capelli castani svolazzanti ad amplificare il gesto: «Cerca almeno di essere gentile, ti prego Kell.»
«Gentile? Non sono capace di essere gentile, sai, nessuno della mia età è mai stato gentile con me.»
Sua madre sospirò chiudendo la valigia, mollò il regolamento d’istituto sul letto e si sedette al suo fianco: «E’ tutto pronto, adesso va a vestirti.» Inghiottì la saliva indicando il bagno con gli occhi.
Kell lo raggiunse con i vestiti ben stretti tra le mani e sentì sua madre bisbigliare: «Dio... sono così preoccupata.»
Faceva bene a esserlo.
Talaltro non poteva portare veri effetti personali da casa per evitare spiacevoli inconvenienti diceva il regolamento... non sia mai che qualcuno avesse messo una spilla da balia dentro il portacipria. Niente libri, album, ipod, cellulare, forbici... sorrise di gusto al suo riflesso nello specchio. Molto saggi quelli della sicurezza, niente oggetti appuntiti in un posto per gente fuori di testa, immaginava già le sbarre alle finestre di una cameretta angusta, quasi riusciva a vedersi da sola dentro la sua stanza.
Si sbrigò a indossare la divisa con i pantaloni lunghi. C’erano diverse combinazioni come in ogni istituto di lusso che si rispetti, tutto rigorosamente stemmato da un numero: 427 dorato. Una gonna a quadretti bianca e nera (che non avrebbe mai e poi mai indossato), pantaloni neri a tinta unita e a quadretti, un maglione nero, una maglietta dal taglio brutalmente giovanile, una a maniche corte... insomma, un’infinita possibilità di combinare la divisa con i propri vestiti. Il regolamento parlava chiaro, l’importante era indossare almeno uno dei capi offerti dall’istituto ogni giorno, la cosa la irritava già solo dal modo forbito con cui era stata scritta nel regolamento, roba da ricchi.
Non aveva ancora scoperto quanto costasse la retta per il Quattrocentoventisette ma Kell già sapeva che avrebbe fatto impallidire i conti di casa, poco le importava, l’avevano voluto loro, tanto valeva che pagassero visto che avrebbe giovato solo e unicamente a loro. Chissà cosa ci andava a fare... sarebbero dovuti venirla a riprendere una settimana dopo.
Si lavò la faccia sciogliendosi i capelli, si osservò allo specchio valutando quanto fosse cambiata dall’ultima volta in cui si era guardata attentamente.
Stessi occhi scuri quasi neri. Stessi lunghi capelli lisci, troppo lisci, marrone scuro. Stessa faccia ovale, pallida, si dava da sola l’impressione di avere lo sguardo perennemente corrucciato, come se stesse continuamente a rimuginare, figurarsi che impressione potesse fare agli altri. Ecco, era proprio quello il problema, si strinse nelle spalle e uscì dal bagno.
Preferiva decisamente non pensare all’impressione che di solito faceva agli altri e all’impressione che avrebbe fatto...
Ragazza chiusa, cupa, , spocchiosa, con la puzza sotto il naso e il pensiero fisso a parer di tutti che nessuno fosse meritevole di starle accanto perché troppo normale, troppo stupido, troppo semplice. Era lo zimbello di tutti, la ragazza pazza che non voleva stare con nessuno.
Valigia ai piedi e sguardo basso Kell attraversò il corridoio, salutò quella cretina della baby sitter che sarebbe rimasta a casa con Sam e uscì di casa con i suoi genitori, di nuovo.
Scese le scale appoggiandosi al muro con una mano per darsi sostegno, l’aria fresca della mattina a solleticarle il viso: «Non riesco a crederci...» Borbottò più a se stessa che agli due mentre saliva in macchina imbronciata.
Kell mise i piedi nell’abitacolo nell’auto di suo padre, il suo cervello era una triste tempesta in corso di svolgimento.
Sapeva di non volere andare al Quattrocentoventisette, sapeva anche che suo padre aveva appena messo le sicure all’auto, a tutte e quattro le portiere, pure quella sua e di sua madre, le venne da ridere, tutta la vita costretta.
Anche in quel momento costretta, non era difficile da prevedere.
«Non fare quella faccia, lo facciamo per il tuo bene.»
La voce permissiva, compassionevole e benevola di sua madre, le faceva venire il vomito, perché non si infilava una racchetta da tennis in bocca?
«Per il mio bene?» Ripeté basita: tutta la vita da sola e ora in un istituto per ragazzi fuori di testa, quella era la sua idea di bene?
«La tua idea di bene, lasciatelo dire, fa schifo.» Diede libero sfogo ai suoi pensieri, ne valeva la pena, chissà se almeno sarebbero venuti a trovarla... «Ma non ti vergogni neanche un po’ a parlare così?»
«Non parlare così a tua madre Kell!»
«Sta zitto!» Gridò infuriata senza riuscire più a trattenersi.
Suo padre si voltò a guardarla stupefatto: «Non rispondermi in questo modo Kell! Sono tuo padre!»
«Lei è tua madre, io sono tuo padre! Non sai dire altro eh? L’unica cosa che siete in grado di fare a quanto pare e lavarvene le mani. Almeno smettila, fammi questo piacere! SMETTILA.» Scandì a tutta voce: «E’ così squallido, dovreste solo vergognarvi, vi state disfacendo di me, come si lascia un cane su un’autostrada, avete davvero coraggio, devo ammetterlo, un coraggio che io non avrò mai, sottoscrivo!» Gridò, con la fronte a toccare il vetro freddo del finestrino. «Mi mandate da quello da cui sto scappando da tutta la vita, almeno accettatelo, NON starò zitta, non questa volta!» Il suono nella sua voce si alzava e abbassava, era furibonda, avrebbe voluto semplicemente ferirli con le parole, perché tanto sapeva che non sarebbe riuscita a fare altro, ne a dire altro.
«Kell...» Sussurrò sua madre abbassando la testa sulle proprie mani.
«Non parlarmi, lasciatemi in pace.»


«Sto bene a casa.» Disse dopo qualche minuto, le mani ancora tremanti strette in grembo.
«Certo, si vede da quello che è successo come stai bene a casa, ti credo sulla parola.» Quel tono ironico.
Il sangue le ribolliva nelle vene, riusciva quasi a sentirlo.
Rimase zitta, forse avrebbe dovuto dire la verità... rimase ancora zitta, ma sapeva di non volerlo dire e si rispettò.
Certe volte è bello avere un segreto, è bello essere furiosi, arrabbiati, feroci, ti fornisce l’impressione di essere viva.
Un segreto è qualcosa da nascondere, e qualcosa da nascondere rappresenta un motivo di interesse verso se stessi e Kell non era certa che le importasse ancora qualcosa di se stessa.


«Manca poco ormai.» Si sbilanciò a dire sua madre.
Da qualche chilometro erano usciti dall’autostrada: «Siamo stati straordinariamente fortunati ad avere il Quattrocentoventisette qui vicino.»
«Vicino?» Ripeté suo padre irritato guidava già da tre ore...
«Relativamente lontano.» Si corresse sua madre.
A Kell venne un’improvvisa voglia di saltare giù dall’auto in corsa ma vista la sicura alla portiera, preferì chiedere con il voluto intento di metterli in difficoltà: «Da quanto tempo esattamente progettavate di portarmi in questo manicomio giovanile?» Il tono più fastidioso possibile.
«Non è un manicomio giovanile.» Disse per prima cosa suo padre come da prassi: «E non stavamo progettando proprio un bel niente.» Era cauto, quasi impaurito.
«Si certo.» Non ci avrebbe creduto neanche morta. «Davvero Kell, come ti viene in mente? Te ne avremmo parlato.»
I sedili blu della macchina le urlavano: sta mentendo! Sta mentendo! E lei credeva ai sedili piuttosto che a quei due.
«Me ne avreste parlato allo stesso modo in cui mi avete chiesto il permesso di portarmici vero?»
«Quello che hai fatto...» «Intendi cercare di ammazzarmi?» Li irritava un sacco quand’era così franca.
«Si, ha cambiato tutto Kell, non pensiamo più che tu sia in grado di prendere delle decisioni da sola, non avresti mai dovuto smettere di andare a scuola tanto per cominciare.»
Suo padre si rese conto che sua moglie non avrebbe proprio dovuto dirlo visto quanto Kell fosse paranoica: «Oh, ecco, siamo arrivati!» Fece sollevato, contendo da cambiare discorso.
Il gelo la avvolse.
Era fatta.
La bocca di Kell istintivamente si aprì, quella struttura era... mastodontica, quante persone ci saranno state là dentro? Più di seicento? Le saltarono di mente tante di quelle domande che dovette contenersi per non cominciare a parlare ad alta voce.
Quante facce e quante vite diverse c’erano lì in mezzo?
Suo padre suonò il campanello e una vocina squillante chiese: «Si?»
«Siamo gli Hall, per nostra figlia Kellan.»
Il cancello appuntito grigio topo si scostò da solo di qualche centimetro, era inquietate. Chissà perché Kell pensò che un cancello alto di quel tipo non sfigurasse affatto con l’edificio che aveva di fronte. Bianco candido, con tante minuscole finestrelle ad adornarlo come tanti piccoli occhi.
Suo padre spazientito lo aprì lasciando entrare sua moglie e sua figlia dopo di lui.
Sua madre la prese per un braccio e se la accollò addosso: «Non pensarci Kell, guarda in basso.»
Diceva così per via della grandezza del parco esterno che costeggiava tutta la struttura, era enorme, e la parola enorme per un’agorafobica come lei non è mai un fattore positivo.
Faceva ancora freddo nonostante fosse gennaio inoltrato e il cappotto non riscaldava Kell abbastanza, scocciata si strinse al braccio di sua madre.
Tenne lo sguardo basso e non alzò gli occhi neanche un momento.
Ancora troppo colpita dalla visione di quella struttura bianca con le sbarre alle finestre, tanto simile a una prigione quanto a un manicomio.
Delle finestre lo ricoprivano da una parte all’altra, sopratutto sulla parte superiore dove le finestrelle erano talmente tante che contarle sarebbe stato impossibile per lei, finestre con sbarre sporgenti, si sarebbe potuto definire a prova di salto.
C’erano parecchi alberi alti, non troppi, non abbastanza per farla sentire al sicuro, e Kell ebbe l’impressione spaventosa che fosse voluto. Che quel parco servisse anche per la terapia di esposizione degli agorafobici? Kell si diede della stupida, certo che si.
Per arrivare al portone di legno massiccio servì loro un tempo che le parve un’eternità, era spaventata ma si sforzò di non darlo a vedere come al suo solito. Adesso avrebbero parlato con il dirigente, il signor Rang a detta di sua madre.
Dopo aver messo un piede dentro l’istituto per prima cosa sentì l’odore tipico di deodorante per ambiente alla menta, poi si accorse di trovarsi in un atrio, le casette della posta dorate (meno di quelle che Kell si sarebbe aspettata) attaccate alle pareti da entrambi i lati, una scrivania di legno in fondo con una donna che si sbracciava per attirare la sua attenzione.
«Qui signori Hall!»
Attraversando la lunga sala d’entrata Kell si rese conto di un’altra porta legnosa, dall’aspetto molto meno pesante sulla parte laterale del corridoio; la superarono fino ad arrivare alla scrivania della segretaria. Tutta sorridente e con uno chignon ingombrante in testa indicò loro l’ufficio del dirigente: «Il dirigente Rang vi sta aspettando.»
Sua madre la spinse a entrare e Kell si ritrovò davanti a un’altra scrivania di legno; il marrone e il bianco regnavano sovrani, il dirigente si alzò in piedi e andò a stringere la mano a entrambi i suoi genitori, e infine a lei.
Aveva l’aspetto aspro di un giovane vecchio, occhialetti dorati pacchiani a parte non era ne acciaccato ne tanto meno aitante, non le piaceva affatto, era troppo contento.
«Oh santo cielo!» Esclamò tutto sorridente: «Visto il nome mi aspettavo un ragazzo, forse c’è stato un errore...» Si gettò sulla scrivania e prese un mucchio di carte iniziando a sfogliare un fascicolo.
«No, no, si chiama Kellan davvero.» Maledetti i suoi genitori che avevano avuto la brillante idea di darle un nome da maschio, era la prima e l’ultima cosa che le persone dicevano di lei. Si sedettero tutti davanti alla scrivania mentre il dirigente Rang prendeva posto dietro.
Ecco che ricominciavano a raccontare la storia del suo nome, interminabile, imbarazzante, tristissima: il dirigente la adorò.
I suoi genitori avevano un amico in comune al collage, si erano conosciuti proprio grazie a lui, erano rimasti molto legati e Kell aveva ascoltato ogni genere di racconto possibile sulle loro scorribande da grandi amici. Certe volte si era chiesta che cosa volesse dire avere degli amici così importanti, sarebbe stato sicuramente il suo padrino se non fosse morto, sua madre diceva sempre che con sua moglie si trovava benissimo, sarebbero stati una grande famiglia allargata e Kell non sarebbe mai diventata quello che era circondata da tanto amore. Nessuno dei due voleva dargli la colpa, era più una scusa.
Avevano deciso di chiamarla Kellan nonostante fosse un nome maschile come tributo a loro amico.
Aveva raccontato la storia del suo nome a tutti gli psicologi che aveva avuto, per non parlare degli altri, chiunque altro che magari incuriosito da quella ulteriore stranezza si spingeva a chiedere spiegazioni.
«Molto bene Kellan.» Disse il dirigente estraendo da uno zaino in cuoio che aveva sulla scrivania una piccola tessera plastificata. Sopra c’era una foto con la sua faccia, risalente a circa un anno prima, la scritta camera: 185, il suo nome e... tutte le sue fobie messe in fila.
«Agorafobia, demofobia, acluofobia, sociofobia, fobofobia e agyrofobia.» Il dirigente annuì alla scheda passandogliela: «Sono in ordine, dalla più forte alla più debole.»
Kell pregò silenziosamente che non si mettesse a spiegare il significato di ogni fobia, ci sarebbe mancato solo quello per coronare il quadretto.
«Portala con te ovunque tu vada, sarà utile ai professori.
Ah, inoltre anche i tuoi compagni probabilmente ti chiederanno di vedere la tua tessera, quindi se vuoi essere gentile...» Molto improbabile«Sarebbe carino che tu acconsentissi.»
«Certo.» Mentì Kell, il dirigente le sorrise passandole lo zainetto: «E’ tuo, ci sono dentro i tuoi libri scolastici.» Kell infilò una mano dentro per sbirciarci, c’era un libro di lettere, uno di matematica, uno che comprendeva sia geografia che storia, uno d’artistica, uno di psicologia e uno di scienze, insomma il minimo indispensabile.
Meglio così, evitò di sudare freddo per degli stupidi libri.
«Farai parte della 4°C. E’ l’unica quarta classe con ancora un posto libero, ogni classe è composta al massimo da venti studenti, se non ci fosse stato un posto libero in una delle quarte non avremmo potuto accettarti.»
Ma che peccato... Kell per un attimo ebbe paura che le si fosse letto in faccia.
«Per ogni classe ci sono quattro sezioni diverse, A, B, C e D, in tutto ospitiamo circa quattrocento ragazzi.»
SOLO? Quel posto era una reggia e ospitavano solo quattrocento ragazzi, assurdo.
«Ci teniamo che ogni studente abbia la propria privacy.» Spiegò il dirigente: «Ogni camera è accessorista di un bagno personale, un letto da una piazza e mezza, una scrivania e un armadio spazioso.» Esitò un momento: «E ora, ti consegno gli orari che dovrai seguire durante la giornata.» Il foglio, altrettanto plastificato era molto chiaro e semplice.
Il dirigente cominciò uno sproloquio interminabilmente noioso sull’orario fittissimo e precisissimo che avrebbe dovuto seguire, concluse con: «Si cena dalle 20:00... uh, devi sapere anche che il coprifuoco scatta alle 22:10, se non sarai in camera tua da sola per quell’ora...» Il direttore sospirò: «Dovremmo ricorrere in sanzioni, vale lo stesso discorso per ritardi durante l’intero arco della giornata, sono tollerati al massimo 5 minuti di ritardo. C’e scritto tutto...»
Il suo vecchio orologio da polso avrebbe patito le pene dell’inferno, già lo sapeva.
Seguì il discorso dal suo foglio plastificato su cui era scritta per filo e per segno ogni cosa con gli orari e gli avvisi.
«Ho un paio di domande se non le dispiace.» Dovette raccogliere tutta la sua sfrontatezza per farle davvero.
«Dimmi pure Kellan.»
«In cosa consistono queste sanzioni?
«E’ scritto tutto dietro.» Kell girò il foglio plastificato accorgendosi di alcune scritte in un grigio slavato: «Sono tollerati massimo tre ritardi gravi ingiustificati, al quarto scatta la sanzione che consiste in una punizione di una settimana in cui il paziente dovrà lavorare insieme alle donne di servizio.»
«E succede spesso?»
«No.» La cosa non la stupì affatto, con un programma così dettagliatamente spaventoso difficilmente qualcuno affetto da fobie comportamentali si sarebbe arrischiato a disubbidire.
«Domenica non c’è lezione, cosa succede?»
«Lo vedrai.» Il dirigente sorrise orgogliosamente, Kell non chiese altro, l’avrebbe scoperto presto.
Ma c’erano ancora delle altre cose che voleva “sapere”, ad esempio: «Chi è che controlla che tutti siano sempre puntuali?»
I suoi genitori cominciavano a spazientirsi, Kell ne era perfettamente conscia, quello che non sembrava affatto irritato era il direttore Rang.
«Durante l’orario regolare delle lezioni ovviamente ci pensano i nostri professori; invece, per quanto riguardo l’orario dei pasti abbiamo un sistema che seguono le nostre inservienti. Ci sono esattamente quattrocento posti a sedere in mensa, ne rimangono vuoti solamente nove visto che abbiamo esattamente trecentonovantuno studenti, se rimangano vuoti più di nove posti qualcuno non c’è, ecco spiegato l’arcano.»
Molto acuto pensò Kell.


«Oh, naturalmente a sorvegliarvi durante l’orario notturno ci pensa la signora Patricks, è la sorvegliante da circa due anni, veglia tutta la notte in una cabina posta lateralmente al sesto piano.»
La cosa le metteva ansia al solo pensiero, passò oltre aggrottando le sopracciglia: «Ho un altro dubbio.» Disse Kell.
Sua madre alzò gli occhi al cielo. Ormai era partita, meglio non fermarsi: «Le camere non saranno mica...» Il direttore Rang la lesse nel pensiero: «Insonorizzate, come tutte le altre aule dell’istituto, ti senti sufficientemente soddisfatta?»
«Direi proprio di si.» Era irritata, era riuscito darle fastidio rimanendo comunque immancabilmente cortese in quel momento le stava passando un terzo foglio plastificato con la piantina stilizzata dell’edificio, era così dannatamente irritante, avrebbe voluto tirargliele in faccia quelle sue stupide piantine plastificate.
Talaltro, utilissime visto che non sarebbe riuscita a parlare con nessuno neanche per chiedere indicazioni.
Il dirigente Rang sorrise orgogliosamente ai suoi genitori e lei venne indirizzata verso i dormitori dove avrebbe dovuto disfare il suo bagaglio.
La segretaria con l’ingombrante chignon le sorrise e domandò a suo padre e a sua madre: «Sapete tutto sugli orari di visita e i permessi d’uscita?» «Ah già.» Disse Kell avvicinandosi alla scrivania: «Non posso uscire fuori dall’istituto vero?»
«No, a meno che non ci sia un professore con te, e in quel caso comunque sarebbe un’uscita didattica di gruppo, altrimenti no, ovviamente non puoi uscire.»
Kell fece un passo indietro, lo sguardo pressante della segretaria si spostò su suo padre; ricominciò a spiegare rivolgendosi a lui.
Già non ne poteva più di tutti quei contatti; per rivolgere quelle due stupide domande al direttore si era quasi slogata la mandibola, colpa della sociofobia? Le venne il dubbio che forse quella fobia era realmente lì solo per merito suo, immotivata come tutte le altre, stupida come le altre.
Sua madre le si avvicinò cacciando un pugno chiuso da dentro la borsetta: «Sul regolamento c’è scritto che è vietato prendere pasticche di ogni tipo, la terapia di esposizione non ne necessita.» Aprì la mano mostrandole il suo ciondolo argentato con il porta pillole a forma di uovo. Durante la sua altalenante carriera scolastica era stata salvata molte volte da un paio di pillole.
Kell lo prese e sua madre la aiutò ad agganciarlo: «Che ci hai messo dentro? Antidepressivi?»
«No, certo che no.» Estrasse dalla borsa il regolamento dell’istituto e glielo infilò dentro la cartella marrone ancora aperta. «Ci ho messo solo un paio di calmanti, nel caso ne avessi urgente bisogno, non si sa mai.»
Giusto, per prevenire attacchi di panico erano l’ideale.
Non disse niente, non voleva ringraziarla.
Si ritrovò stretta dalle braccia di entrambi i suoi genitori senza riuscire ad opporre resistenza: «Kell non fare sciocchezze, ti prego.» A Kell venne da ridere, come siamo sentimentali...
«Sta tranquillo.» Disse a suo padre sciogliendo l’abbraccio bruscamente, scocciata da quel contatto fisico indesiderato: «Scommetto che hanno il sistema anti-suicidio migliore di tutto il paese.»
Nessuno dei due naturalmente rise e Kell ancora una volta non riuscì a dire niente riguardo quello che aveva scoperto della porta di camera di Sam.
Quello che fece dopo testimoniava la sua natura codarda.
Ancora con lo sguardo basso, assolutamente terrorizzata, si girò verso la porta, la aprì e la oltrepassò senza voltarsi indietro, ipocrita quanto cinica, tipico di lei.
  
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