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Autore: G K S    13/07/2014    4 recensioni
Agorafobia, demofobia, acluofobia, sociofobia, fobofobia, agyrofobia.
Queste sono tutte le facce di Kell, tutti i suoi demoni, tutte le sue fobie.
L’unica cosa che ha sempre potuto fare è resistere, contro ogni convinzione e anche contro il suo stesso volere, ha quasi diciassette anni e l’unica cosa che vorrebbe fare è vivere.
E dove finisce? Beh, il Quattrocentoventisette è un istituto correttivo per ragazzi affetti da fobie, proprio come lei. Troverà Cecely, Victor e anche Jeh, il fantasma del suo passato, il ragazzo sfigurato con l’occhio di vetro che non ha mai dimenticato e le cose per lei non sembrano andare troppo male...
Solo che le cose non sono esattamente come sembrano, anzi, le cose in realtà sono ancora più complicate di quelle che sono...
Genere: Introspettivo, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Prologo // Caduta


Avere paura è comunemente considerato un sinonimo di debolezza. Sei hai paura, sei debole.
Non era forse quello il suo problema? 
Si. Era arrivata ad annullare sé stessa, pur di non sembrare debole davanti agli altri.
Ma era peggio avere paura o essere considerati deboli? 
Kell sospirò nel suo letto aprendo gli occhi, stufa dei discorsi auto-trattativi con la sua coscienza. 
Era costantemente in gabbia, tramortita e impaurita, aveva accettato da tanto tempo quella condizione ma essere considerata debole era molto, molto peggio.
Se una persona ha paura di tutto e non può venirne fuori, non è più sensato essere in grado di nasconderlo? 
La sua coscienza sbuffò sonoramente rispondendo per lei che sì, certo stupida, ovviamente, imbrogliando.
Quei discorsi contorti nel cuore della notte alla fine cominciarono a darle la nausea, la sua coscienza aveva ragione. Di sicuro, è meglio avere paura ma avere la forza di nascondere di essere deboli. 
Se lo ripeteva quasi ossessivamente a volte, le dava forza.
Ma alla fine, si rigirò nel letto sorridendo un tantino: la vita non cambiava. Rimaneva sempre uguale. 
Sarebbe rimasta sempre la stessa; anche perché, ora non aveva più nessuno a cui dimostrare di poter resistere oltre che alla sua famiglia, non si sentiva più così bisognosa di nascondersi. Dopotutto, i suoi genitori sapevano perfettamente che lei aveva delle fobie, un sacco di fobie, da un po’ si sentiva stranamente tranquilla; si era sepolta dentro di lei.
Kell aveva sedici anni, quell’anno ne avrebbe fatti diciassette e se li sentiva tutti addosso, uno dopo l’altro e nonostante questo dormiva ancora con la luce accesa. 
Perché? 
Aveva una raggelante e attanagliante paura del buio e di quello che questo conteneva. Quindi, molto semplicemente era acluofobica. Il suo psicologo gliel’aveva detto in tutte le salse. 
Non usciva di casa da quasi otto mesi. 
Perché? 
Era agorafobica e demofobica, terrorizzata dagli spazi aperti e da quelli affollati.
Aveva paura persino della sua ombra e non riusciva in nessun modo a venirne fuori, ci aveva provato per troppi anni. 
Da un mese aveva smesso di fare terapia. 
Il suo psicologo le aveva confessato in via del tutto confidenziale di aver trovato altre fobie da cui era affetta, tra cui una molto importante: la sociofobia, una paura assolutamente immotivata  dei contatti sociali e umani.
Quella fobia, era il massimo della debolezza, praticamente l’apice dell’apice della peggiore paura che conoscesse; forse la odiava così tanto perché ne aveva paura. Kell non ne aveva idea.
Si alzò in piedi arcistufa di sentirsi riflettere sul passato.
Aprì la porta azzurra di camera sua pensando che in effetti non riusciva a pensare al futuro perché non ne vedeva ancora nessuno, ma d’altra parte faceva fatica a ricordare un giorno in cui si era alzata felice.
Attraversò il corridoio bianco passando davanti a camera della sua sorellina, come al solito, sua madre aveva lasciato tutte le luci di sorveglianza accese per il corridoio, molto saggia. 
Se si fosse messa a urlare nel pieno della notte avrebbe svegliato tutto il palazzo, era già successo, difficilmente i loro vicini avrebbero dimenticato quelle urla. 
Tante, troppe, terribilmente acute, incredibilmente forti. 
Ricordava ancora le riflessioni flemmatiche di una vecchietta loro vicina: “Santo cielo, pensavo che stessero ammazzando qualcuno!”, e pensare che aveva soltanto avuto un attacco di panico...
Arrivata in cucina prese un bicchiere dalla mensola sopra il lavello e lo riempì d’acqua fresca, bevve e poi insoddisfatta riempì il bicchiere nuovamente.
Non aveva voglia di tornare a letto, non sarebbe riuscita a dormire, ne era certa, in effetti la sera prima aveva scordato “accidentalmente” di prendere la medicina per dormire, come la chiamava sua madre.
Depositò il bicchiere dentro il lavello d’acciaio e si incamminò verso camera sua. 
Tutto sommato poteva fare qualcosa di più interessante.
Annoiata, con lo sguardo un po’ appannato decise di dare un’occhiata alla sua sorellina, aveva appena sei mesi, dormiva ancora dentro la culla, in fin dei conti sarebbe stato divertente cullarla nel caso si fosse svegliata...
Convinta della sua decisione, arrivò davanti alla vecchia porta di legno della cameretta di Sam, abbassò la maniglia e... 
e niente.
La porta non si apriva.
Sentì il suo cuore accelerare di un battito non appena il suo cervello recepì la notizia. 
La porta era chiusa a chiave.
Una forte delusione amara la invase.
Scosse la testa trattenendo una risata smorzata e arrabbiata.
Non riusciva a capacitarsi di quello che aveva appena scoperto.
Tentò di nuovo di girare la maniglia della porta, a vuoto. La porta doveva essere chiusa da fuori, i suoi genitori avevano chiuso Sam dentro la sua camera. Ricacciò dentro l’idea di dare un calcio alla porta; in quel caso avrebbe dato prova ai suoi genitori che avevano avuto un’idea intelligente a chiudere il loro bambino di sei mesi dentro la sua cameretta. 
Dopotutto, avevano una figlia che non ci stava con la testa...
Digrignò i denti così infuriata da spaventarsi, i pugni stretti e le nocche bianche ben in vista; fece un passo indietro, e poi un altro e poi un altro ancora dirigendosi svelta verso camera sua, improvvisamente facendosi seria.
Era troppo anche per lei, un rifiuto simile, una mancanza così colossale di rispetto, non era mai stata violenta con nessuno, neanche una volta, nonostante il fatto che credesse con tutto il cuore che certe volte avrebbe davvero voluto esserlo.
Si ributtò i capelli dietro la testa angosciata.
C’era qualcosa che poteva fare, qualcosa a cui aveva pensato saltuariamente durante certe noiose notti insonni nei mesi passati, ma che non aveva mai avuto il coraggio di mettere in pratica. Le era sempre mancato, il coraggio.
Qualcosa di definitivo quanto un punto fermo alla fine di un libro, veloce, incredibilmente facile, semplice, qualcosa che avrebbe risolto in un istante tutti i suoi problemi.
Entrò in camera ancora scossa da un tremore persistenze; aprì la finestra di camera sua con un gesto brusco. 
I suoi genitori non avevano mai pensato di metterci le sbarre e avevano fatto male, pensò Kell senza però riuscire a sorridere.
Si sollevò di peso e finì seduta sopra le mattonelle del davanzale, le tegole del tetto dell’ultimo piano sotto i piedi nudi.
Si vedeva il mare, il porto era vicino e l’odore salato delle onde  e della notte per un attimo sconvolse le sue narici, la luce della luna illuminava il buio, troppo poco affinché lei fosse tranquilla. A farla calmare c’era il faro che ogni tanto tornava a illuminare quella parte di costa con la sua luce bianca.
Il suo pigiama congelato ondeggiava spostato dal vento, in un momento del genere, alla fine non serviva essere tranquilla, e neanche importava il fatto che facesse freddo da morire.
Non pensare Kell, se ci riesci. Smetti di pensare per un momento.
Non era facile, anzi, forse le era impossibile. 
Si convinse di non volerlo fare, pensò corrucciata e stranita che in effetti, in fin dei conti le sarebbe piaciuto non dimenticare quel momento.
L’attimo fatidico in cui finalmente metteva fine alla sua vita.
Si lasciò scivolare giù dal davanzale, ignorando fermamente l’oscurità raggelante in cui sarebbe piombata cadendo sull’asfalto della strada.
Tutto sommato, era un bel modo di andarsene.


Sentì delle urla mentre scivolava e poi un dolore lancinante... sentì qualcosa afferrarla così forte che dovette girarsi a guardare dietro di se per rendersi conto che non era stata pugnalata.
Una mano, poi due mani, poi tre mani, poi quattro.
L’afferravano, la tiravano su, le urlavano in faccia parole senza senso dal suono scomposto e gutturale.
Non era caduta eppure si sentiva come se stesse per morire, senza più avere aria in corpo, sentendo il suo cuore battere all’impazzata dalla vergogna, era stata scoperta.
La paura, ce l’aveva fin dentro i polmoni e le faceva trasudare dolore ad ogni movimento come paralizzata. 
Finì sul tappeto di camera sua tremando come una foglia, i suoi genitori urlavano il suo nome, riusciva a leggere il labiale perché nonostante tutto aveva ancora gli occhi sbarrati ma non voleva capire le loro parole.
Non potevano proprio lasciarla morire?
Appoggiò la testa sul tappeto e sentì la solita sensazione di nulla che avvertiva mentre stava per svenire. 
Così, il nero la avvolse.

 
  
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