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Autore: ___Ace    14/07/2014    3 recensioni
Diamine! Perché a me? Perché? Mai una volta che le cose vadano per il verso giusto. E poi, per quale sacrosanta ragione non ho ascoltato la parte razionale di me stesso e ho deciso di venire ugualmente a questa festa di matti? Semplice Ace, perché sei una emerita testa di cazzo, ecco.
Evidentemente trovarsi all’ultimo minuto senza un costume adatto per una cavolo di festa in maschera aveva contribuito a far si che, prima di partire, afferrassi i primi vestiti che mi capitarono a tiro nell’armadio e che li indossassi senza far caso ai colori o senza l’intento di somigliare a qualcuno o a qualcosa. La camicia gialla e antiestetica che avevo deciso di mettere, una delle mie preferite, nemmeno ricordavo dove fosse finita sinceramente. Probabilmente l’avevo persa quando i primi bicchieri di troppo avevano iniziato a fare effetto. Quanto influisse un cappello arancione da cowboy, poi, dovevano giudicarlo gli altri. Per non parlare del mio fisico: ero il cowboy più sexy della serata, ovvio che poi la gente mi saltasse addosso.
*
Accenni Kidd/Law.
Thatch.
Accenni Marco/Ace.
Genere: Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Ciurma, di, Barbabianca, Eustass, Kidd, Thatch, Trafalgar, Law | Coppie: Eustass Kidd/Trafalgar Law
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Rising Tide.

 
Diamine! Perché a me? Perché? Mai una volta che le cose vadano per il verso giusto. E poi, per quale sacrosanta ragione non ho ascoltato la parte razionale di me stesso e ho deciso di venire ugualmente a questa festa di matti? Semplice Ace, perché sei una emerita testa di cazzo, ecco.
Attorno a me le luci psichedeliche, aiutate dalla sfera stroboscopica che dominava il soffitto della sala, mi accecavano gli occhi, facendoli bruciare più del dovuto e mandandomi in tilt il cervello ormai annacquato per via dell’alcool bevuto in precedenza. Odiavo bere. Non lo sopportavo e non reggevo bene come facevano altri miei amici. Ubriaconi per l’appunto.
Ma quella era una di quelle sere in cui ti permettevi di mandare a quel paese i buoni propositi e inibizioni e ti buttavi nella mischia, solo per una volta, tanto per provare. Provare ad essere qualcuno che non eri, provare a raggiungere un obbiettivo altrimenti impossibile.
Provare.
«Ehi, ma guarda dove metti i piedi!».
Mi voltai in direzione del colosso mal vestito che mi aveva appena urlato dietro, accorgendomi di avergli appena pestato le sue orrende scarpe, se così potevano definirsi un paio di pantofole a punta. Sul serio, non riuscivo a capire che bisogno c’era di dover seguire alla lettera la regola che stabiliva che ad una festa in maschera ci si dovesse mascherare. E se uno aveva una faccia da schiaffi o da babbeo tutto l’anno?
Quel ragionamento contorto mi passò per la mente nell’attimo in cui mi persi ad osservare il ragazzone travestito da Gandalf, neanche fosse stato un cosplay, con tanto di cappello e barba finta, o era vera?, che stava aspettando le mie scuse. Non credevo le meritasse, infatti i suoi piedi sembravano ancora sani dopo essere stati calpestati dai miei anfibi, ma non mi pareva il caso di impuntarmi per sciocchezze simili. Così, anche se con la mente annebbiata dall’alcool ingerito, dissi ciò che voleva sentire senza impegnarmi troppo nel fargli capire che mi dispiaceva. Perché non potevo concentrarmi anche su quello, avevo troppi problemi in corso da risolvere per perdermi in futilità.
«Scusa, non ti avevo visto.» fu tutto ciò che riuscii a mettere insieme, defilandomi subito dopo da quella situazione per evitare di tirarla troppo per le lunghe. Era già abbastanza complicato dover scavalcare tutta quella gente ammassata e ansante che si dimenava senza creanza in mezzo alla palestra, trasformata senza ritegno in una sorta di bordello pieno di musica, alcolici e gente sfatta. Nonostante fossi al mio primo anno di università ero già stato messo in guardia, da fonte più che sicura, che le feste che venivano organizzate all’interno dell’istituto erano veri e propri Rave Party e non deludevano mai. Lo credevo bene, fino a che gli studenti si rincoglionivano in quel modo qualsiasi cosa sarebbe apparsa divertente e indimenticabile.
Venni spintonato da tutte le parti quando attraversai la pista, inciampando sui miei stessi passi un paio di volte e allungando il collo nel tentativo di respirare aria abbastanza pulita e non troppo inquinata dal fumo delle sigarette per evitare di rimanere soffocato dalla bolgia di corpi che cantavano a squarciagola sulle note della canzone del momento, agitando le braccia a ritmo e saltando come dei fottuti marsupiali australiani.
Non appena raggiunsi il tavolo allestito per le bevande mi fiondai direttamente su una bottiglia di birra, perché ero quasi del tutto sicuro che fosse birra, già stappata e appartenuta a qualche povero diavolo, buttando giù senza pensarci una bella sorsata di schiena e pentendomene subito dopo quando la testa prese a girare drasticamente. Era normale sentirsi lo stomaco sottosopra? E da quando il pavimento ondeggiava?
«Vacci piano cowboy, quella è roba forte.».
Ah, ecco perché le luci stroboscopiche sembrano navicelle aliene. Ehi, aspetta un po’, cowboy a chi? Oh, giusto, il cappello.
Evidentemente trovarsi all’ultimo minuto senza un costume adatto per una cavolo di festa in maschera aveva contribuito a far si che, prima di partire, afferrassi i primi vestiti che mi capitarono a tiro nell’armadio e che li indossassi senza far caso ai colori o senza l’intento di somigliare a qualcuno o a qualcosa. La camicia gialla e antiestetica che avevo deciso di mettere, una delle mie preferite, nemmeno ricordavo dove fosse finita sinceramente. Probabilmente l’avevo persa quando i primi bicchieri di troppo avevano iniziato a fare effetto. L’ultimo ricordo che avevo di essa riguardava una mezz’ora prima, o erano due ore?, quando, mentre uno più grande mi aveva spiaccicato addosso al muro per infilarmi la lingua in bocca, mi era venuto caldo e l’avevo tolta con l’idea di buttarmela in spalla. Forse, nella foga del momento, impegnato a rispondere per le rime a quel bacio rubato con l’intenzione di lasciargli i segni dei denti affinché imparasse che con me non si scherzava, avevo finito per lanciarla chissà dove, restando a petto nudo. Pazienza, non faceva affatto freddo, inoltre i pantaloni, sebbene non così lunghi, li avevo ancora, per cui non ero arrivato a rendermi del tutto ridicolo. Quanto influisse un cappello arancione da cowboy, poi, dovevano giudicarlo gli altri. All’appello mancavano solo le pistole, se volevamo essere pignoli, ma un finto coltellaccio di plastica rigida, quello che solitamente usavano i bimbi per picchiarsi a carnevale, mi sembrava un ottimo sostituto, assicurato con un laccio alla mia splendida ed eccentrica cintura che riportava con orgoglio l’iniziale del mio nome. Per non parlare del mio fisico: ero il cowboy più sexy della serata, ovvio che poi la gente mi saltasse addosso.
Sono come un temporale, pensai orgoglioso, quando passo si bagnano tutti.
Mi rendevo vagamente conto che l’alcool in circolo nel mio sangue stava contribuendo ad abbassare il livello della mia timidezza, alzando smisuratamente il mio ego e l’autostima che, solitamente, rasentava il gradino più basso. Non ero mai stato un tipo eccentrico e sentirmi così a mio agio e disinibito mi sembrava strano, ma divertente. Quella era una festa universitaria, dopotutto, per giunta in maschera, nessuno si sarebbe ricordato di me, il novellino un po’ sfigato e anonimo.
«Cowboy? A me sembra più un disperato!».
Il sosia di Elvis Presley accompagnò il suo non richiesto commento con una risata, rivolgendomi un’occhiata che, se non fosse stata appannata da fiumi di vodka, probabilmente avrebbe voluto risultare amichevole. Non lo sarebbe stato comunque perché mi aveva indispettito parecchio e non ero di certo propenso ad elargire gentilezze a chi si prendeva gioco di me. Sbronza a parte, anche se ero ubriaco ciò non mi rendeva di conseguenza anche simpatico, disposto al gioco e socievole.
Tsk, tagliati i capelli e fatti una vita!
Sul serio, non avevo mai visto una capigliatura più orrenda ed esibizionista di quella. Era come se il ciuffo di capelli cotonato e impiastricciato di gel e schifezze simili avesse una vita propria. Ero addirittura terrorizzato che, se si fosse voltato di scatto, avrebbe centrato in pieno la faccia del moschettiere baffuto accanto a lui, e gli avrebbe fatto pure male! Di sicuro la parrucca non doveva essere morbida, pareva cemento data la compattezza. Gli abiti più originali se li inventavano solo quelli dell’ultimo anno che, per la precisione, mi stavano parecchio sulle scatole. Troppo sbruffoni e con l’aria da gente vissuta, si credevano i padroni indiscussi del campus.
Diedi loro le spalle, assicurandomi di reggere ancora tra le mani la bottiglia con all’interno qualche goccia di qualunque cosa ci fosse dentro e avviandomi verso il buffet che si trovava a poca distanza dal palco allestito per le band di musicisti improvvisati formate da studenti che avevano voglia di esibirsi e fare un po’ di chiasso. Non mi piaceva la musica troppo alta, soprattutto se dovevo mangiare, ma avevo l’intenzione di rubare giusto qualche panino per mettere qualcosa sullo stomaco e calmare i giramenti di testa che, di tanto in tanto, portavano la mia camminata già scoordinata di suo a tendere verso sinistra.
Raggiunsi i tavolini senza incappare in troppi ostacoli evitando attentamente la zona in cui una ragazza dai capelli rosa era impegnata a vomitare anche l’anima. Le avevo rivolto un’occhiata schifata e avevo continuato per la mia strada, nascondendo le mani nelle tasche e riflettendo con sarcasmo che, alla fine, finiva sempre così: esageravano fino a stare male, ma non ne volevano sapere di smettere prima. Bravi, bella idea, avevano tutto il mio appoggio.
Agguantai un tramezzino facendolo sparire in un sol boccone e compiendo lo stesso gesto per i tre successivi, quando una voce al microfono mi spaccò i timpani mandandomi una fitta lancinante alla testa che mi fece chiudere gli occhi e sfuggire un lamento.
Ottimo lavoro, non potevo fare di meglio, sul serio, nemmeno se mi fossi impegnato. Bere come una spugna e lasciarmi distrarre da sciocchezze. Davvero, sono proprio uno sfigato. A me nemmeno piace bere, mi fa schifo! Perché allora sono ubriaco marcio come un asparago? Bleah, odio gli asparagi.
Il mio terrore più grande era rischiare di andarmene dalla festa in modo squallido, sdraiato su una barella, senza ricordare nemmeno il mio nome. Quelle erano figuracce che molto spesso capitavano ai novellini che avevano voglia di farsi una fama, oppure gli sfigati. E la fortuna ed io, per la precisione, non andavamo molto d’accordo ultimamente.
Quando la voce di quello che si definì il miglior deejay dell’università smise di essere accompagnata da un fastidioso sibilo diventando più sostenibile, capii che di lì a poco avrebbero aperto le danze e dato inizio alla vera festa. Quella a cui avevo partecipato fino ad allora cos’era stato, l’aperitivo? Ad ogni modo non ci feci molto caso, non mi disturbai nemmeno ad aggregarmi agli altri nell’acclamare quel, come si chiamava, Sacrathem Abou? Scarabocchio Baboo?
«Scratchmen Apoo!».
«Sei il migliore!».
Bah, e chi se ne frega, non posso pretendere che il mio cervello riesca a connettere bene a tutte le ore e in tutte le situazioni. Inoltre sto mangiando, per cui tutto il resto passa in secondo piano. Faranno festa anche senza di me.
Addentai un bignè dall’aria invitante e cremosa che, per l’appunto, si rivelò una vera delizia, tanto che ne presi un altro, giusto per sottolineare il mio apprezzamento, quando, per bontà Divina, prestai attenzione a un trambusto alle mie spalle sempre più vicino e rumoroso; così, per miracolo, mi scomodai a voltarmi per guardare cosa diavolo stesse succedendo, spostandomi dal tavolo dei dolci giusto in tempo per evitare di venire investito da un colosso di due metri, largo tanto quanto un armadio, il quale finì dritto, dritto con la faccia spiaccicata su una torta al cioccolato.
Peccato, quella volevo assaggiarla.
Il tizio, sicuramente un fanatico dell’Heavy Metal data la pelliccia di un indefinito animale morto e con dei capelli rossi piuttosto interessanti, puntò le mani sul ripiano, facendo tremare le gambe in legno e, con lentezza calcolata, si tirò su, afferrando la tovaglia e pulendosi il viso alla bell’é meglio. Guardandolo notai come i muscoli delle braccia erano tesi e non mi stupii affatto dell’espressione assassina che assunse quando si voltò, puntando lo sguardo davanti a sé e incenerendo qualcuno vestito di nero e incappucciato al limitare della pista. Era difficile riconoscere il pazzo che l’aveva fatto volare in quel modo data la calca di gente che continuava a muoversi e a passarci davanti perciò, quando lo vidi avanzare a passo svelto verso la sua preda, liquidai la faccenda con un’alzata di spalle, finendo quello che era rimasto del dolcetto che avevo fortunatamente salvato dalla strage custodendolo nelle mie mani.
Certo che giravano proprio dei tipi strani in quel campus. Eppure quella che avevo scelto era stata descritta ed elogiata da tutti come una delle università più prestigiose del paese, ma da quello che avevo visto facevano entrare cani e porci. Oh, beh, non erano problemi miei, bastava solo tenersi alla larga da certa gentaglia.
«Pardon, Monsieur, avez-vous vu un garçon abeillé comme moi?».
Sbattei le palpebre e mi concentrai sulla figura che mi era spuntata davanti agli occhi nel giro di un secondo, guardandola stranito e sorpreso dal suo costume da astronauta. Perché quella tuta bianca non poteva significare altro, nonostante lo stupido cappello con scritto Penguin sulla visiera. Al massimo poteva passare per un eschimese moderno. Restava comunque il problema che non avevo capito un accidente di quello che aveva appena detto. Che razza di lingua parlava?
«Scusa, non ti capisco.» ammisi, indietreggiando nel tentativo di allontanarmi e togliermelo di torno.
«Qu’est-ce que vous avez dit?» insisté invece quello, avanzando, anzi, ciondolando in avanti. Doveva essere per forza ubriaco pure lui, altrimenti non mi sarei spiegato la presenza di un francese al campus.
Con mio sollievo qualcuno alle mie spalle attirò la sua attenzione perché il suo sguardo annebbiato si illuminò e si affrettò a sorpassarmi, mormorando frasi sconnesse in quello che mi parve tedesco o greco, o altre diavolerie internazionali, lasciandomi libero di ritornare a farmi gli affari miei e a cercare di non dare nell’occhio.
O almeno così credevo.
Una mano sbucò dal nulla, afferrandomi per un braccio e trascinandomi verso la pista, facendomi scontrare con chiunque si trovasse in mezzo al mio, o nostro, cammino e urtando i nervi e la pazienza di parecchi presenti ai quali pestai i piedi senza rendermene conto. Quando una luce accecante mi abbagliò, il mio livello di ebbrezza si abbassò all’improvviso, dandomi modo di capire che mi trovavo nientemeno che in piedi al centro del palco improvvisato davanti a più di mille studenti che frequentavano le diverse facoltà all’interno del campus. Poco importava che fossero mezzi rintronati, una presentazione del genere non l’avrebbero dimenticata mica tanto facilmente e, anche se speravo di sbagliarmi, avevo la sensazione che a breve mi sarei pentito di aver preso parte a quella festa.
Al diavolo Usopp, Sanji, Nami e le loro madri baldrac… la colpa è tutta loro. E Rufy! Cristo Santo, lo ucciderò quell’idiota! Dov’è? Che fine ha fatto? Aspetta solo che mi capiti a tiro! Io non ci volevo venire, l’avrò ripetuto migliaia di volte, e loro che hanno fatto? Mi hanno costretto per imbucarsi, quei mocciosi!
Dopo lo stupore iniziale mi riscossi, muovendo i primi passi verso le scale, intenzionato a scendere e ad evitare di fare il mio ingresso all’università riconosciuto da tutti e garantendomi così un anno di battute ed etichette varie del tipo ‘oh guarda, c’è il cowboy spogliarellista’. Perché si, dovevo ammetterlo, il pensiero che volessero incitarmi a spogliarmi anche dei pantaloni e del resto mi era passato per la mente facendomi accapponare la pelle.
«Frena cowboy, dove credi di andare?». Di nuovo quella mano mi arpionò per i passanti della cintura, fermando bruscamente la mia avanzata e rischiando di farmi cadere rovinosamente a terra. Mi voltai con l’intento di dirgliene quattro e, quando riconobbi la faccia da schiaffi del mio interlocutore, mi sentii doppiamente motivato ad insultarlo.
«Cowboy un paio di palle! Lasciami andare John Travolta dei poveri!» dissi ad alta voce per sovrastare il caos attorno a noi. Le luci si erano abbassate e non erano più puntate addosso a noi, quindi potevo ancora darmela a gambe. Se solo quell’idiota cotonato avesse mollato la presa.
«Hai un bel caratterino.» rise l’altro, per niente intimidito, «Mi piace. Che anno frequenti?».
Cosa? E a lui che gli frega?
«Il primo.» ribattei sulla difensiva, sperando che, se l’avessi accontentato, mi avrebbe lasciato andare.
Sollevò le sopracciglia con fare sorpreso e sinceramente stupito, ma non perse mai il sorriso allegro e divertito che aveva stampato in faccia.
«Per essere un ragazzino impertinente hai del fegato da vendere, mi pare. Meglio così, sarà interessante vedere come te la caverai.» decretò con convinzione, voltandosi e continuando a trascinarmi dietro di lui fino ad arrivare ai piedi della console dove altri giovani dall’aria poco sveglia, ma non per questo poco robusti, attendevano l’inizio di qualcosa.
Ignorando le mie proteste, Elvis, o come diavolo si chiamava, fece cenno al dj che poteva cominciare quando voleva e che erano al completo. Poco dopo, quello che doveva chiamarsi per forza Apoo, attirò l’attenzione di tutti su di sé, anzi, sul palco dove io e il resto dei poveracci venimmo allineati con l’ordine di restarcene buoni, buoni e sorridere. Quello fu l’ultimo dei problemi, dato che tutti non avevano smesso un secondo di ghignare ubriachi, ma il cibo che avevo mangiato aveva fatto il suo effetto e mi sentivo molto più attento e vigile, quindi tutto ciò che ottennero da me fu un broncio poco cordiale.
«E’ con grande piacere che stasera, per inaugurare l’inizio dell’anno, come da tradizione si terrà la Grande Sfida! Si, si urlate, forza, vi voglio carichi! Uno di questi arditi giovanotti avrà l’occasione di entrare nella Confraternita dei Pirati di Barbabianca! Un applauso per loro, prego!».
Certo, la Grande Sfida, me ne avevano parlato. Se vincessi entrerei già in una confraternita, avrei un sacco di vantaggi e potrei pure studia… Oh cazzo! I Pirati di Barbabianca! Nessuno ne è mai entrato a far parte prima dl terzo anno e io nemmeno speravo di potermi candidare così presto! Che botta di culo! Grazie ragazzi, ovunque siate svenuti, grazie per avermi costretto a venire stasera!
L’edificio universitario era una delle costruzioni più antiche e storiche della città, costruita intorno al XVI secolo con l’intento di creare una residenza che prestasse asilo ai fuorilegge e ai pirati che per anni avevano operato attorno alle acque che bagnavano il nostro paese, ritenuto uno dei luoghi più frequentati dai bucanieri. Era stato proprio il pirata Barbabianca a finanziare i lavori e, in suo onore, dato che con il potere accumulato proteggeva gli abitanti delle città portuali, erano state istituite varie confraternite a tema che facevano riferimento alle molteplici leggende sul suo conto, sulle sue scorribande e sui suoi compari di lavoro. Tra tutte, quella era l’università che mi aveva affascinato anche dal punto di vista riguardante le origini. Non ne esistevano di migliori.
Cercai con lo sguardo l’idiota cotonato che mi aveva dato l’occasione di mettermi alla prova, ma non riuscii a vederlo e pensai che l’avrei certamente ringraziato più tardi, quando avrei vinto la gara. Se c’era qualcuno che meritava di essere premiato quello ero io per il semplice fatto che avevo patito le pene dell’Inferno per convincere mio nonno a lasciarmi iscrivere alla facoltà. Per non parlare dei test d’ingresso impossibili da passare. Avevo in qualche modo superato quegli ostacoli ed entrare in quella confraternita sarebbe stato il massimo visto e considerato che era ritenuto un privilegio esserne membri. Ed io avevo tutta l’intenzione di lasciare un segno e di stupire tutti. Ce l’avrei fatta, senza dubbio.
«Ehi, ma cosa… oh, stupendo, gente! Indovinate chi abbiamo qui stasera, una leggenda indiscussa! Fate sentire il vostro affetto per il Comandante della Prima Divisione: Marco!».
Uh, la Prima Divisione? Ma quante ce ne sono? E dov’è questo tizio, non lo vedo.
A giudicare dall’entusiasmo degli studenti qualche gradino più in basso rispetto a me, questo Marco doveva godere di una certa notorietà e di una buona fama. Sembrava che Apoo avesse appena nominato un personaggio famoso o amato dalle masse. Era davvero così benvoluto da tutti?
A furia di guardarmi attorno almeno riuscii ad individuare Elvis, il quale, stringendo convulsamente qualcuno addosso a sé nell’intento di passargli un pugno tra i capelli e ridendo sguaiatamente, si accorse del mio sguardo interrogativo e ammiccò nella mia direzione, sorridendo spensierato e lasciando andare il povero ragazzo che aveva rischiato di soffocare. Bei Capelli gli sussurrò poi qualcosa all’orecchio per farsi sentire e, quando quest’ultimo alzò lo sguardo alla ricerca del mio, mi sentii sprofondare nel riconoscere quel ciuffo biondo e inconfondibile, pensando bene di dargli le spalle e sperare di scomparire tra il resto dei partecipanti.
Sono nella merda.
Ovviamente lo studente più in vista, guarda caso, era anche il ragazzo con cui qualche ora prima avevo passato un quarto d’ora schiacciato addosso ad una parete, intento a cercare di liberarmi di lui.
La gente continuava a urlare e ad ammassarsi addosso al palco, schiamazzando e vociando, gli uni sopra agli altri quasi come se si fossero trovati ad un concerto dei Queen. Ad ogni modo, poco mi importava: fino a che nessuno mi teneva in considerazione le cose andavano bene e non volevo nemmeno pensare a cosa stava per toccarmi. Era certo, però, che avrei fatto di tutto pur di entrare nella confraternita, parola mia.
«Bene, Signori e Signorine,» fece Apoo, sostenuto da un coro femminile di urla, «Diamo inizio allo spettacolo! Quest’anno i ragazzi dovranno sostenere una prova d’intelligenza, o di stupidità che dir si voglia! Avranno una serie di domande a cui dovranno rispondere entro un determinato numero di tempo e, se sbaglieranno, dovranno bere ogni volta tre bicchieri di un indefinito qualcosa. chi resiste fino all’ultimo senza svenire, vomitare o morire vince!».
Che stronzata, pensai, mordendomi un labbro e prendendo un respiro profondo, sentendo lo stomaco gorgogliare minaccioso. Per un istante temetti di poter iniziare a rimettere l’anima addirittura prima di iniziare la sfida.
Per qualche miracolosa ragione ciò non accadde e riuscii a tenere a bada l’agitazione fino a quando il dj incallito non diede il via, sbraitando al microfono e abbassando la musica per permettere a John Travolta di porre le domande.
Guardandomi attorno mi accorsi che in totale eravamo circa sette povere anime ubriache. Alcuni si reggevano in piedi a fatica, mentre altri avevano un colorito verdognolo in faccia. Non ero certo di essere messo meglio, dato che non riuscivo a vedere bene oltre i due metri, ma speravo di poter essere abbastanza forte e lucido da poter resistere fino alla fine.
Oltre a ciò e al fatto di dovermi concentrare, quando già di mio faticavo a restare attento per più di dieci minuti, dovevo pure nascondermi dietro alle corporature degli altri prescelti per non farmi vedere dalla leggenda dell’università.
Quel tale, Marco, ad essere sinceri me l’ero ritrovato tra i piedi il primo giorno di inizio corsi, esattamente due settimane prima, e da allora l’avevo sempre visto in giro. Sorvolando sul fatto che cercassi di mia spontanea volontà la sua zazzera di capelli assurdi in giro per il campus, mai mi sarei aspettato di ritrovarmi incollato a lui durante una squallida festicciola studentesca. Non che mi fosse dispiaciuto il nostro scambio di salive alcoliche, intendiamoci, semplicemente non era da me lasciarmi sopraffare e prendere alla sprovvista. Ero un uragano, una forza della natura, una marea, che diamine! E speravo di poter sfruttare l’annebbiamento dei miei sensi, e dei suoi, per dimenticare l’accaduto e non dovermi nascondere quando l’avrei incontrato per i corridoi i mesi a venire.
Sicuramente, se mi avesse riconosciuto, e se avessi vinto, sarebbe stato scomodo doverlo vedere tutti i giorni e ricordarmi delle sue labbra invitanti e di quella schiena scolpita.
Smetti di pensarci, mi dissi, o portare i pantaloni diventerà scomodo.
«Dunque, prima domanda e iniziamo da… come ti chiami? Koby! Allora, rispondi: Mediamente, quanto può durare un rapporto prima di raggiungere l’orgasmo?».
Io impallidii, mentre il povero malcapitato dai capelli rosa e dagli occhiali tondi crollò a terra svenuto ancora prima di dare la risposta sotto agli occhi di uno stupito Elvis, il quale, con un’alzata di spalle, rese noto che eravamo appena rimasti in sei.
La successiva mezz’ora fu un vero e proprio massacro. Furono poste le domande più assurde, insulse ed inutili che si potessero immaginare e altri due vennero eliminati. Dopo tre gironi io mi ero scolato solamente tre birre, avendo risposto in modo, a detta della giuria, incompleto alla domanda imbarazzante che mi era stata posta.
Ovvio che non potevo sapere esattamente come funzionasse il ciclo per le donne, mica mi interessava saperlo e, a quanto pareva, citare la fase lunare non era bastato, dato che mi avevano chiesto se per me le donne fossero come lupi mannari.
Dopo altri tre quarti d’ora di sofferenze eravamo rimasti in due, barcollanti e storditi fino all’osso, ma ancora in piedi.
Il mio avversario dai capelli verdi e l’aria da schiaffi era un osso duro, ma avevo tutta l’intenzione di farlo fesso e prendermi tutta la gloria.
Davanti a me, alcuni membri della Confraternita di Barbabianca ci osservavano divertiti, commentando di tanto in tanto il nostro equilibrio precario e le nostre facce da babbei, ma poco importava. Non mi interessava nemmeno più di essere riconosciuto da Marco, sinceramente. Insomma, tanto mi ero già messo nei guai, uno in più non faceva la differenza. Se dovevo farmi una figura di merda tanto valeva farla bene.
«Siamo alle ultime domande!» si entusiasmò Apoo, affiancando un membro della confraternita e stringendolo a sé, «Thatch, continua pure!» lo esortò.
Quello si schiarì la voce con fare solenne, portandosi il foglio con i quesiti sotto al naso e iniziando a leggere le battute finali. Se Zoro, il mio sfidante, ed io avremmo risposto correttamente senza svenire, allora la gara sarebbe continuata fino a che uno dei due non avesse ceduto.
«Zoro, rispondi: quale di questi ha… ehi, aspetta, ma che diavolo?».
«Gneh, basta bere questa roba. Vado a prendermi un po’ di vodka.» disse il ragazzo con i capelli verdi sotto gli occhi impressionati di tutti, facendo il giro del tavolo dove svettavano bicchieroni di birra e dirigendosi verso le scale per lasciare il palco.
«Ti stai, ehm, ritirando?» gli chiese Thatch, stranito. «Non vuoi entrare nella confraternita?».
«Uhm? E che me ne importa? Io nemmeno faccio parte di questa università, mi sono imbucato solo per bere.» detto questo, deliziando il pubblico con un sonoro rutto, si dileguò verso il bar, barcollando e appoggiandosi di tanto in tanto alle spalle di qualche altro povero diavolo ubriaco marcio giù in pista.
Rimasi da solo davanti agli studenti e ai giudici mezzi svampiti e vestiti in maniera orrenda e bizzarra. Andiamo, quale uomo sano di mente avrebbe mai avuto il coraggio di indossare un kimono femminile?
Thatch si voltò a osservarmi a bocca aperta, fissandomi dall’alto in basso mentre ero impegnato a stringere le mani sui bordi del tavolino fino a far sbiancare le nocche. Non dovevo vomitare, prima dovevano dichiararmi vincitore. Solo dopo avrei potuto prendere in considerazione l’idea di risparmiarmi una corsa ai bagni e inondare il palco.
«A questo punto credo che…» iniziò a dire Apoo, ma un coro esaltato coprì la sua voce, mentre quel Thatch mi correva incontro a braccia aperte, sbraitando frasi veloci di cui riuscii solo a capire ‘nostro nuovo acquisto’.
Ce l’avevo fatta quindi, senza nemmeno averlo previsto ero riuscito nell’impresa in cui avevo giurato di cimentarmi una volta raggiunto il terzo anno. Che botta di culo pazzesca.
Capelli cotonati mi abbracciò stretto, scrollandomi da una parte all’altra, dimentico del mio stomaco straziato dall’alcool. Certo che aveva coraggio a stringermi così forte, avrei potuto esplodere da un momento all’altro, ma ciò sembrava non interessargli affatto.
«E bravo, cowboy!» esultò.
«Te l’avevo detto che questo era un pazzo!» si intromise l’energumeno che avevo intravvisto a metà serata, vestito da spadaccino e con dei baffi finti, almeno così speravo, e delle spade di plastica assicurate ai fianchi.
Mi diede una poderosa pacca sulla schiena e se non vomitai fu solo perché mi morsi a sangue un labbro. Dovevo filarmela, e alla svelta. L’idea di rimettere davanti ai miei nuovi confratelli non era più tanto brillante come lo era sembrata all’inizio.
Nel frattempo, ignari delle mie preoccupazioni, i membri della Confraternita di Barbabianca chiacchieravano attorno a me, parlandosi l’uno sopra l’altro e presentandosi. Non avevano capito che dimenticavo i loro nomi l’istante dopo aversi sentiti.
«Ohi, testa d’ananas, vieni qua e fa gli onori di casa!» schiamazzò qualcuno.
Faticando per tenere gli occhi aperti e per mettere a fuoco la visuale appannata, vidi avanzare in mezzo al gruppo un tizio biondo con i capelli che facevano concorrenza allo stesso Elvis, o Thatch, chiunque fosse, sondandomi da capo a piedi una volta che mi fu davanti.
Deglutii a fatica, sperando che si fosse dimenticato del nostro precedente incontro. Insomma, mica potevo essergli rimasto così impresso. Morsi e graffi a parte, ero solo un ragazzino e se era vero che lui era all’ultimo anno, allora doveva per forza essere abituato ad avere di meglio e non dei veri e propri selvaggi.
«Ma guarda,» disse invece, sorridendo allegro, forse per via della sbronza che aveva attaccato pure il suo cervello, «E io che mi chiedevo come avrei fatto a rintracciarti.».
Il salto che fece il mio stomaco a quelle parole fu il colpo di grazia e feci appena in tempo a scattare fuori dal cerchio, prendendo a gomitate le persone, per raggiungere un angolino del palco e iniziando a tirare fuori anche i polmoni, ma evitando che nessuno rimanesse traumatizzato a vita.
Alcuni colpetti rassicurativi sulle spalle mi rivelarono la presenza di qualcuno e un panno umido apparve sotto ai miei occhi stanchi.
«Tieni, avevamo pensato che avrebbe potuto servirti.» spiegò Marco, sorridendomi amichevolmente.
Borbottai un piccolo ringraziamento e mi asciugai il viso sudato, notando che le mie mani tremavano e che le gambe erano tanto, tanto pesanti.
Aspettò paziente che riprendessi fiato e, quando mi voltai a guardarlo con l’intenzione di dire qualcosa di non stupido, dovetti pregare tutti i Santi per non ricominciare a stare male, dato che il mio stomaco si contorse in tutti i modi quando il ragazzo mi prese il mento tra le mani con decisione.
«Sappi che non l’avrai vinta sempre tu, ragazzino.» mormorò sogghignando, e fui certo che non si stesse affatto riferendo alla Grande Sfida che avevo sostenuto, bensì a qualcos’altro in particolare.
Stavo per aggiungere dell’altro, ma arrivò Thatch che, con il suo tatto espansivo, mi passò un braccio attorno alla vita, trascinandomi con sé giù per gli scalini, puntando la pista da ballo. «Pronto per festeggiare il tuo ingresso nella nostra ciurma?» domandò, facendo apparire una bottiglia di whiskey ancora sigillata.
La guardai dubbioso, pensando di declinare l’offerta e scappare a dormire per non esagerare, ma quando adocchiai per caso un vichingo con i capelli rossi caricarsi in spalla un tizio incappucciato, trascinandoselo chissà dove, e due astronauti corrergli appresso, decisi che, probabilmente, non ne avevo ancora viste abbastanza di assurdità e se volevo avere un bel ricordo da raccontare a Rufy quando l’avrei ritrovato, era meglio darsi da fare.
«Non vedo l’ora.» assicurai sorridendo.
Proprio una bella festa.

 

 

 
Special*
Mi rifiuto di crederlo, non è successo sul serio. Quella maledetta piaga non ha davvero avuto il coraggio di osare così tanto.
Mi passai la lingua sulle labbra, riconoscendo l’inconfondibile gusto di cioccolato. Di conseguenza battei violentemente i palmi sul tavolo.
Figlio di puttana, l’ha fatto eccome!
Mi pulii nel miglior modo possibile il viso, almeno quel tanto che bastava per vederci bene ed esibire un’espressione omicida che difficilmente avrebbe potuto essere fraintesa da coloro che ormai conoscevano il mio carattere. Quell’affronto non potevo perdonarlo, non quando la scena era avvenuta sotto gli occhi di tutti. Quel bastardo me l’avrebbe pagata cara. Molto, ma molto cara.
Ignorando lo sguardo allibito di un mocciosetto del primo anno con un cappello da cowboy assurdo, camminai a passo svelto verso il mio peggior nemico, ovvero colui che da ben tre anni si divertiva a rovinare la mia vita universitaria. Avrei ribaltato lui e la sua confraternita, prima o poi, poco ma sicuro, dopotutto guerre di quel genere erano all’ordine del giorno.
«Com’era la torta, Eustass-ya?» mi chiese con l’intento di sfottermi il ragazzo che presto sarebbe finito al cimitero più vicino a far compagnia ai morti. Di lui e della sua brutta faccia da schiaffi ne avevo avuto abbastanza.
«Che ne dici di assaggiarla? Ho giusto un pugno ripieno pronto per te.» lo avvisai, affrettando la mia avanzata e alzando il braccio pronto per sferrare il colpo e rivoltargli il muso, tanto da cancellargli una volta per tutte quel ghigno derisorio che tanto detestavo.
«No grazie, preferisco non rischiare di diventare grasso e assomigliarti.» sibilò, giusto l’attimo prima di abbassarsi e schivare abilmente il colpo, rialzandosi subito dopo e costringermi di nuovo alla vista di quel suo sorrisetto compiaciuto. Nonostante tutti i miei tentativi ce l’aveva sempre vinta lui.
«Non sono grasso!» ribattei infervorato e punto sul vivo. Ma mi aveva guardato bene almeno?
«Certo che no, è la pelliccia che ti fa sembrare rotondo.» mi assecondò sarcastico.
Strinsi i pugni nel disperato tentativo di calmarmi e digrignai i denti. Conoscevo quel piantagrane da una vita e ancora non riuscivo a capacitarmi della sua infinita insolenza, mista a sfacciataggine, bastardaggine, sadismo e una grande, grandissima dose di macabro. Anche in quel momento, guardandolo bene, sembrava il ritratto della Morte con quella spada a portata di mano, probabilmente un’alternativa alla falce, e una tunica nera completa di cappuccio calato sugli occhi. In quanto a Re dei Vichinghi quale ero, non potevo di certo farmi mettere in ginocchio dalla riproduzione di una delle sfighe peggiori del mondo. Ero un guerriero, e che cazzo.
«Sul serio, Eustass-ya, come devo dirtelo che non ti ho messo appositamente i bastoni tra le ruote per farti finire con la faccia in mezzo a strati di pan di spagna e panna con l’obbiettivo di fotografarti per poi vendere le foto al giornalino del campus? Non sono così subdolo e calcolatore come credi.» ghignò, dandomi così la conferma che tutto ciò che era appena uscito dalla sua bocca altro non era che la pura e semplice verità. Voleva sabotarmi e mandare a monte la mia reputazione, quello stronzo. Ma se credeva di potermi mettere nel sacco così facilmente si sbagliava di grosso. Ormai doveva sapere abbastanza bene che non mi lasciavo fregare da nessuno. Gli assi nella manica ce li avevo anche io ed erano dei veri e propri piani geniali, quasi quanto i suoi.
Ingoiai quel quasi dal sapore amaro. Ammettevo difficilmente persino a me stesso che le sue idee avevano sempre quel qualcosa in più. A differenza delle mie, dirette e prevedibili, da lui non si sapeva mai cosa ci si poteva aspettare. Sarebbe stato anche capace di vendere i cuori di un centinaio di studenti vivisezionati al miglior offerente sul mercato nero dei malati mentali.
«Non lo farai.».
«E chi me lo impedirà? Tu? Come credi di poter… ehi! Mettimi giù!».
Due tizi vestiti con delle tute bianche si mossero per andare in soccorso del loro cosiddetto capo, ma bastò un mio cenno del capo per far apparire davanti a loro due miei compagni di studio, o di guai, armati di muscoli e una buona voglia di iniziare una rissa, soprattutto quello con i capelli biondi e con delle lame, all’apparenza finte, agganciate ad un aggeggio meccanico sulle sue mani.
«Voi ragazzi restate pure qui a godervi la serata.» mormorai, riferendomi a tutti e quattro, i quali non si scomposero nel vedermi afferrare quell’impiastro e caricarmelo con disinvoltura sulle spalle come se fosse stato un sacco di patate. «Noi andiamo a fare i fuochi d’artificio.» sogghignai, ignorando l’incappucciato che si dimenava inutilmente nel tentativo di liberarsi.
«Toglimi le tue manacce di dosso Eustass-ya!».
«Chiudi il becco, Trafalgar!».
«Non ti permettere…» iniziò a dire.
«‘Di darmi ordini’.» lo imitai, concludendo la frase che mi ripeteva sempre e che ormai mi aveva scartavetrato le palle. «Bla, bla, bla. Adesso ti faccio vedere io chi è quello grasso».
«Ti ho punto sul vivo, eh?» mi sfotté una volta che lo ebbi scaricato malamente per terra, sul retro dell’edificio dove si stava svolgendo quella stupida festa.
Gli chiusi quella boccaccia con un bacio improvviso e che di dolce non aveva proprio niente. Era meglio definirlo uno scontro fra titani. «Ti odio.» mormorai piccato.
«E io ti odio di più!» ribatté saccente.
Mai una volta che potessi averla vinta.
*

 

 

 

 
 
Angolo Autrice:
E’ una cosa che non ha senso, ma era in cantiere da una vita, per cui se vi siete fatti qualche risata mi fa piacere, altrimenti pace, amici come prima ^^
Spero sia tutto chiaro: Ace ha appena iniziato l’università e già fa faville, mentre Law e Kidd, beh, si fanno la guerra come sempre.
Scappo, un abbraccio a tutti.
A breve altre One-shot e si, il capitolo di Chi non muore si rivede. NON ME LO SONO DIMENTICATO *O*
See ya,
Ace.
 
  
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