Erano trascorse due
settimane dacché Mary aveva preso pieno possesso della vecchia stanza di John. Due
settimane di silenzio da una parte del muro e di attente, private
considerazioni dalla parte opposta.
Sherlock aveva l’aspetto
di un soldato che si appresti alla battaglia, che sia sul piede di guerra, ma
senza avere idea di quando dovrà partire per raggiungere il fronte e affrontare
il fuoco nemico. Si comportava come se avesse il diavolo alle calcagna.
Due settimane scarse erano
bastate a smagrirlo, dargli un’aria consumata che addosso a chiunque altro
sarebbe stata estenuata, ma che su di lui faceva risaltare il
barlume febbrile e burrascoso del suo intelletto acuminato.
Era puro istinto,
ferale, famelico di notizie e indagini, sempre attivo e in movimento, che
rincasava e usciva a rotta di collo e dormiva tre ore ogni paio di giorni. Con
disperazione di tutti e buona pace della perseveranza di John, aveva ripreso a
fumare come un turco, rendendo il salotto un limbo di miasmi e di esalazioni
irrespirabili.
“Oh, quel ragazzo
testardo! Sembra che abbia l’argento vivo addosso!”
Molly non sarebbe potuta
essere più d’accordo né avrebbe saputo trovare parole migliori di quelle usate
da Mrs. Hudson. Si rese conto che, aspettando
Godot, nulla sarebbe mai cambiato. Doveva agire. Doveva essere lei ad
abbattere il muro.
*
L’opportunità gliela
offrì Mycroft, insperabilmente, qualche giorno più tardi.
Era una notte
tranquilla. Molly era nel salotto del 221B, impegnata ad ammazzare il tempo,
nonché ogni briciolo di amor proprio, con Mary, Wiggins e Victoria.
Stavano giocando a
Diplomacy (Mary era in netto, clamoroso vantaggio su tutti loro e la partita
non sarebbe potuta andare peggio) e Mrs. Hudson era seduta sulla poltrona di
John e cullava Katie.
“A chi tocca?” domandò
Wiggins.
Nell’ordine del gioco era
il suo turno leggere quanto aveva scritto. Molly stava per indicare la mossa
sulla plancia di gioco, quando, senza preavviso e arbitrariamente, nel modo
appropriato, elegante e al tempo stesso sprezzante che gli apparteneva, sulla
soglia dell’appartamento comparve Mycroft.
Non sarebbe sembrato più
fuoriposto in quel contesto neanche se loro fossero stati nudi e lui vestito di
tutto punto per una festa in maschera.
“Mi duole interrompere
quella che si prospetta una totale disfatta per Miss Hooper, ma devo vedere
Sherlock. Anche se deduco dalle vostre espressioni rilassate e dall’atmosfera
godibile che non sia in casa.” Il sorriso che accompagnava quelle infamanti parole,
così come il suo sguardo, erano più amichevoli del previsto.
Per quanto insolitamente
cordiale, Molly sfidava chiunque a farsi piacere un prognostico a proprio
svantaggio. Prognostico di cui, tra l’altro, era stata del tutto consapevole
senza che lui affondasse il dito nella piaga.
“Prego, Mr. Holmes,” lo
salutò con familiarità Wiggins e fece per cedergli il posto sul divano.
Mycroft lo guardò come
uno scarafaggio e marciò oltre, insediandosi invece sulla poltrona di Sherlock.
Con l’ombrello tenuto in una perfetta parallela e simile al bastone-bacchetta
di legno di un istitutore di inizio secolo, si limitò a seguire il gioco con
occhi di falco.
Molly sospirò interiormente
– aveva imparato a farlo spesso negli ultimi anni, tanto da avvalersi di quei
sospiri interiori con deleteria costanza e frequenza.
Aveva pensato che la partita
non potesse andare peggio, per lei. A quanto pareva il destino, o il karma,
aveva un senso dell’umorismo altamente contestabile.
*
Molly non era stata per
niente sfiorata dal pensiero che Mycroft sarebbe davvero rimasto in silenzio fino all’arrivo di Sherlock, né che la
mancanza del suo bersaglio preferito lo avrebbe trattenuto dall’individuare tra
i presenti alternative fonti di diletto personale, diletto conseguito nel metterne
in vista le manchevolezze.
Aveva semplicemente sperato
che non fosse lei la fortunata fiduciaria di quell’onere gravoso.
“Se fossi in lei, non lo
farei, Miss Hooper.”
Non di nuovo.
“Oh,” Molly guardò
intenta l’unità che era stata sul punto di dislocare, “perché?”
Victoria sogghignava
impenitente, ma Wiggins le rivolse un’occhiata simpatizzante e Mary era tipo da
‘vivi e lascia vivere’, o almeno questa era sempre stata la sua impressione.
“Se persiste in questo
schema pericoloso, in base all’accordo tra Mastro Wiggins e Mrs. Watson, la sua
armata verrà spazzata via in un duplice contrattacco e Miss Queen diventerà inveterata
regina del suolo britannico che lei ha l’incarico di proteggere.”
Molly fece un verso
scoraggiato, riflettendo su una nuova, eventuale mossa.
“Le consiglio caldamente
di spostare la flotta di Edimburgo e –”
“Un attimo,” lo interruppe
Molly, “per quanto gentile, suggerire è barare.”
“Nessun problema, Doc,”
sorrise Wiggins.
“Già, praticamente il
gioco è in chiusura.”
Molly corrugò le
sopracciglia. In parole povere le stavano dicendo che non c’era modo che lei si
salvasse da una debacle
disastrosa, pur contando sull’astuzia di Mycroft.
Be’, pensò risoluta,
questo era tutto da decidersi.
*
Quando John mise piede
nell’appartamento, agitando le spalle anchilosate e passandosi una mano tra i
capelli bagnati, rimase impalato sulla porta per una manciata di secondi, forse
qualcosa in più, decisamente per uno
scarto di secondi di troppo, a fissare la scena surreale che si presentava
ai suoi occhi.
C’era il salotto, non
sottosopra e niente affatto a soqquadro. C’erano sua moglie, sua figlia, Mrs.
Hudson, Wiggins e Victoria Queen distribuiti attorno a una plancia di gioco
sistemata sul basso tavolino di fronte al divano.
E poi c’erano Molly, Molly Hooper e Mycroft, Mycroft Holmes impegnati in un acceso
scambio di vedute su qualcosa che riguardava ‘un centro di rifornimento’ e la
‘volubilità dei francesi’ e l’essere ‘potenzialmente razzisti’.
Lesse il nome sul contenitore
sul pavimento e la confusione naufragò in rassegnazione. Diplomacy. ‘Un Gioco di Intrigo Internazionale, Fiducia e Tradimento’
recitava la tagline.
Dannazione, come aveva fatto a perderselo?
Cercò lo sguardo di Mary
e vi trovò riflesso lo stesso brillante divertimento.
E poi salì l’ultima
rampa di scale anche Sherlock, simile a un fosco e minaccioso fantasma. Scosse
i capelli neri come il pelo irsuto di un cane e stette ad osservare faziosamente
quella scena impagabile.
Sherlock fece una
smorfia terribile e malevola, dopodiché voltò le spalle ai presenti, imboccò regalmente
la porta della sua camera da letto e scomparve alla vista.
Ricomparve quindici
minuti più tardi. Il gioco da tavolo nel frattempo era stato riposto; Mrs.
Hudson, Wiggins e Victoria avevano augurato la buonanotte ritirandosi nei
rispettivi appartamenti e i restanti del gruppo avevano preso un atteggiamento
serio che mal si adattava al contesto di appena poco prima.
Specialmente Mycroft –
le gambe accavallate, l’espressione severa che accompagnava un leggero
increspamento della fronte - la cui dignità era ormai definitivamente
compromessa agli occhi di John; e Molly che aveva assunto un’aria mortificata e
colpevole e occhieggiava a Mycroft come se attendesse il momento opportuno per
porgere delle scuse di cui l’altro non avrebbe visto alcun beneficio o
provento. Poteva già immaginarseli alla perfezione: la reazione di lui e il
commento di accompagnamento, qualcosa sulla falsariga di ‘mera forma sociale’
o, come l’avrebbe convenientemente definito, un puro pro forma.
Purtroppo Sherlock
scelse di mostrarsi in quel momento.
Non andò a sedersi sulla
sua poltrona, quella era occupata da Molly, ma prese il gatto che stava in
panciolle sul davanzale della finestra e si posizionò alle spalle di lei.
A quel gesto per niente
implicito di galanteria, con buona grazia di chi stentava a crederlo capace di
atti davvero gentili, Molly gli regalò un sorriso di rara limpidezza a cui
Sherlock rispose con una vaga carezza sulla spalla di lei e lo scorcio di un
rapidissimo, altrettanto raro, sorriso.
John si sfregò il mento
per eclissare il proprio di sorriso e Mary fece lo stesso, dietro la tazza di
tè che Mrs. Hudson si era premunita di preparare loro prima di scendere
dabbasso.
Si sarebbe detto che tra
tutti quei sorrisi Mycroft trovasse all’improvviso l’ambiente stomachevole. Più
del consueto, s’intendeva.
“Hai sprecato tempo
prezioso nonché i servizi del Governo per un viaggio a vuoto. Non che
solitamente siano meglio impiegati. Pare un netto miglioramento questo.”
“Sherlock.” Non un
blando richiamo o uno soffice di pericolosità in avanscoperta, ma un tono
pregno di minacciosi sintomi premonitori. Mycroft si massaggiò l’attaccatura
del naso. Uhm, pensò John, nuvole in purgatorio. “Malgrado tu abbia collezionato
un considerevole repertorio di tentativi compiuti per dimostrare il contrario, la
mia tolleranza non è infinita.”
“No, certo che no.”
Sherlock gli rivolse un sorriso da iena, deliberatamente provocatorio. “A
quanto pare lo è solo il tuo pingue stomaco.”
“Ti ho lasciato
risolvere dei casi, ma ciò non significa che io non possa intervenire in
qualsiasi momento. Dammi una ragione, Sherlock e te ne farò rimpiangere.”
“Sono terrorizzato.”
Perfetto. Ci mancava una
buona dose di sarcasmo. John avrebbe voluto capirlo. Era di pessimo umore e
d’accordo, forse ne aveva ogni ragione. Il tentativo di quella notte si era
rivelato l’ennesimo buco nell’acqua, ma non riusciva proprio a trattenersi? Non
poteva se non altro tentare?
“Almeno potresti ascoltare
quello che ha da dire,” intervenne Molly.
Sherlock si sgonfiò un
poco e abbassò la testa per guardare Molly, che invece aveva alzato la sua.
“So già cosa dirà,”
disse Sherlock.
“Potresti rimanere
sorpreso.”
“Ne dubito.”
Con una smorfia,
grattando le orecchie del gatto che gli si era arrampicato su una spalla e se
ne stava là appollaiato, Sherlock fece un cenno impercettibile a Mycroft, che
dal canto suo, ovviamente, non poteva lasciar passare la cosa sottobanco.
Indirizzò a Molly
un’occhiata di affettato apprezzamento. “Poche lezioni ancora e potrebbe
aspirare ad una carriera da agente diplomatico.”
Molly si strinse al
petto il gatto che Sherlock le aveva messo in grembo, sembrò riflettere sulla
proposta di lui con solennità. “Non sono mai stata un granché in lingue
straniere,” disse con franchezza, “e il diplomatichese sembra fin troppo problematico.”
Tatto, finezza, abilità nella trattazione di affari delicati
che richiedevano prudenza, o anche nelle relazioni tra persona e persona. Molly era una
diplomatica nata.
Mycroft le rivolse uno
sguardo fermo, nel suo modo di dire ‘Touché’, quindi espose gli estremi del
caso.
*
La mattina successiva
tutti recavano i segni della nottata che si era protratta fin quasi all’alba.
Tutti tranne Sherlock che aveva una robusta costituzione e una caparbietà e
resistenza quasi inumane.
“Ricordami perché ho
accettato il caso,” lo sentì lamentarsi a bocca piena.
John storse gli occhi
dietro il Times. Gli sovvenne il pensiero, forse maligno ma sicuramente
sincero, che quella sfera della vita in comune – svegliarsi al suono degli
strimpelli del suo violino, fare colazione con Sherlock che gli rubava il cibo
dal piatto e deduceva venti cose prima che lui voltasse pagina – non gli fosse
affatto mancata. “Perché te lo ha chiesto Mycroft.”
Sherlock fece una faccia
scettica, trangugiando il suo caffè.
Nel momentaneo spiraglio
di silenzio, John ridacchiò. “Perché Molly ti ha fatto gli occhi dolci e tu non
hai saputo resisterle. Arrenditi, sei un uomo anche tu.”
“La tua dabbenaggine non ha fine.”
Sentire qualcuno
inserire la parola dabbenaggine in un qualsiasi contesto conversativo e prima
che scoccassero le nove di mattina, questo sì, lo ammetteva, gli era mancato da
morire.
*
Se si fossero ritrovati a
percorrere lo stesso marciapiede, l’uno di fianco all’altro nel traffico
londinese, John non avrebbe riconosciuto in lui un nobile Lord, se non per quel
non so che nel portamento – qualcosa di vagamente impettito, una sorta di
austerità che non riusciva a trovare pace, a rilassarsi – e per l’abbigliamento
estremamente ricercato. La sua cravatta di raso con minuscoli fiorellini lilla doveva
costare da sola uno se non due dei suoi stipendi, pensò John con una punta
d’invidia. Per non parlare del fermacravatte d’argento.
“Sabato sera Hatty, Hatty
Doran, la mia fidanzata, aveva uno spettacolo al Future Theatre. Da allora è scomparsa.”
Lo disse in un tono che molti avrebbero definito piatto o addirittura freddo,
ma che non lo era affatto, non per John.
“Non è la prima volta che
accade,” constatò Sherlock.
“No, non lo è,” riconobbe
Lord Simon. “È quasi una settimana che questo fenomeno ha luogo. Alla fine di
ogni spettacolo Hatty svanisce nel nulla. Non la si trova nei camerini e con
lei scompare anche il costume di scena. Ho provato ad aspettarla dietro le
quinte e sulla boccascena, ma niente sembra funzionare. Cala il sipario e non si
riesce più a trovarla da nessuna parte. È come se si volatilizzasse. Questo ha
mandato in agitazione anche la sartoria del teatro e il resto della compagnia. Come
lei può ben immaginare mancano gli estremi per richiedere l’intervento delle
forze di polizia o avviare le procedure di allertamento. Non è semplicemente
scomparsa, perché di fatto scompare unicamente nei periodi di tempo che intercorrono tra uno
spettacolo e l’altro. Ebbene io non posso adeguarmi agli iter burocratici.
Voglio trovare Hatty e voglio farlo subito.”
“Ci parli della signora,”
ingiunse Sherlock.
John simulò un colpo di tosse
e gli indirizzò un’occhiata delle sue. Si sporse in avanti, decidendo di prendere la
parola. “La ritiene capace di giocare un brutto tiro al teatro? Il suo può
essere un modo estremo per allontanarsi da lei, per timore di affrontarla faccia
a faccia?”
“Hatty è molto superstiziosa,
non ama distrazioni nel periodo che precede la prima, ma scappare o nascondersi
non è nel suo carattere. No, se agisce in questo modo è perché è costretta
dalle circostanze.”
“O perché a costringerla è qualcuno.”
Sherlock incrociò le mani davanti al naso. “Quindi vuole che ritrovi la sua
fidanzata, pur non trattandosi di un caso di rapimento.” Perché dovrei scomodarmi?
Lord Simon si accigliò. “Come
può escluderlo a priori?”
È evidente. Non è evidente, John? Sherlock si voltò verso di lui con stampate in
faccia quelle riflessioni. Incrociando il suo sguardo di ammonimento, roteò gli
occhi e sbuffò, tamburellando le lunghe dita sui braccioli della poltrona. “Miss Doran
è un’attrice. Chi meglio di lei è al corrente dei trucchi del mestiere sul
palcoscenico? Inoltre è scomparsa con il suo abito di scena, il che elimina
numerose alternative dal ventaglio di probabili soluzioni.”
Lord Simon non era
persuaso e John intravide per la prima volta un’intensa preoccupazione farsi
largo in lui, prendere il sopravvento. “Lei è mai assalito dal timore di
sbagliare?”
Sherlock sembrò ponderare sulla
questione con grande serietà, quindi con un cenno di assenso assicurò nella
voce flautata che sapeva usare, alle volte: “Molto raramente.”
John si apprestava a seguirne
l’esempio quando Molly irruppe nella stanza. Indossava il soprabito e aveva un
ombrello rosso in mano. Mary la seguiva e John, sospirando, si accorse di cosa
stringeva in mano: una radiolina-interfono.
Sperava che non diventasse
un’abitudine, quella. Il brillio esasperatamente divertito nello sguardo di sua
moglie pareva assicurargli il contrario.
“Voglio venire con voi,”
disse Molly in tono risoluto.
Sherlock la fissò a lungo,
intensamente, poi con lentezza annuì. “D’accordo.”
Nessun infernale
discorso sulla sicurezza. John era allibito. No, di più: era assolutamente
sbigottito; in buona misura perfino arrabbiato. “Sherlock, posso parlarti?”
domandò a denti stretti. “Possibilmente in privato.”
Lui reagì con fastidio alla
proposta. “Qualsiasi cosa tu possa dire, ci ho già pensato. Ho valutato le
opzioni e deciso di conseguenza. Molly verrà con noi. Fine della questione.”
Contenendo a stento un’imprecazione,
John serrò i pugni. “Come preferisci.”
“Speriamo che vada tutto
bene.” Mary non aveva dubbi in proposito, ma lo stesso una parte
di lei non
poteva non essere impensierita di fronte alle molteplici occasioni di
pericolo che, lei più di chiunque, sapeva essere acquattate
dappertutto, in luoghi
impensati. C’erano tante variabili in quel gioco, troppe.
Mrs. Hudson sospirò e scosse
la testa, sistemandosi meglio la frangia dello scialle su una spalla. “A Dio
piacendo, cara. Che dici, inforniamo un po’ di pane?”
Molly studiò affascinata la facciata dell’edificio.
Era in cemento, con pilastri in mattoni di supporto al
tetto e la famosa statuetta
di Tersicore arroccata sopra l'ingresso. “Scolpita da una compagnia celebre di artigiani di Worcestershire,” la mise al
corrente Sherlock, indicandogliela col braccio.
Accedettero attraverso le doppie
porte di bronzo in un atrio di marmo grigio
e rosso, con una biglietteria di rame battuto.
“Con 432 posti
a sedere nella sala, è il secondo più piccolo teatro del West End.”
Con un sospiro esasperato e insieme stizzito, John lo minacciò di
sconsigliabili ripercussioni sul suo posteriore se non si fosse deciso a stare
zitto. “Siamo
nel bel mezzo di un caso.” La voce di lui era fiacca, gli occhi più stanchi che mai
mentre squadrava sia lei che Sherlock. “Potreste cercare di avere un’aria meno
compiaciuta? Tra voi due non so chi sia il peggiore.”
Molly chinò la testa. “Scusa,
John.”
Sherlock nascose poco e male
un sorriso asimmetrico. “Non prometto nulla.”
John era di guardia nel
sottopalco mentre lei e Sherlock si trovavano sulla piccionaia, o forse sarebbe
stato più corretto chiamarlo col suo nome, ballatoio.
Poco prima che lo spettacolo
iniziasse, Molly vide uno dei macchinisti arrampicarsi come un trapezista sulla
struttura di legno della graticcia e armeggiare con le corde di canapa legate
agli stangoni. Alle loro spalle il pesante fondale di velluto nero cominciò una
lenta discesa. Molly incrociò le braccia sul corrimano e guardò in basso,
godendosi la prima vera uscita in compagnia di Sherlock.
Come se le avesse letto nel
pensiero, lui si tastò le tasche del Belstaff, nella ricerca evidente di
qualcosa, quindi le passò un binocolo e una brochure.
“Per il prossimo appuntamento
sarebbe bello vestire abiti da sera e chiacchierare nel foyer,” disse Molly a
cuor leggero, prendendoli.
Sherlock annuì, come se lo
fosse appuntato.
Molly lesse distrattamente il
titolo sul manifesto e le sfuggì un piccolo verso di giubilo ed eccitazione.
Sherlock inarcò le
sopracciglia.
“Scusa,” disse lei con un
sorriso che sembrò disarmarlo per un attimo. “È che – La signora in nero,” gli
sventolò il pezzo di carta sotto il naso, “è stato praticamente uno dei miei
racconti preferiti da bambina.”
Sherlock arcuò un angolo di
bocca e i suoi occhi si concessero un guizzo di qualcosa, piacere forse nello
scorgere il piacere di lei, prima di tornare seri e concentrati.
“E gli attori,” aggiunse
Molly. “La signora in nero è interpretata da Miss Doran?”
Sherlock le fece segno di
tacere. Molly obbedì e seguì la direzione del suo sguardo. Era appuntato sopra
le loro teste, in alto, sulla torre scenica là dove un uomo, un’ombra appena
visibile, ma agile e smilza, si stava muovendo di soppiatto in direzione delle
quinte, verso qualcosa che assomigliava a una torretta metallica che sorreggeva
dei riflettori spenti.
Sempre a gesti, Sherlock le fece capire di rimanere dove si trovava e si affrettò a seguire l'ombra dell'uomo.
Pochi minuti dopo vide
l’ombra cadere nel vuoto, appesa ad una grossa fune e poi fare un capitombolo
da un’altezza approssimativa di un metro, un metro e mezzo sul palco
sottostante.
Lo stesso Lord che rispose a
quello sguardo compunto con uno afflitto. “È per via del mio titolo, Hatty?”
Lei scosse la testa con
decisione, incrociò le mani sulla gonna dell’abito vittoriano. “Non ho mai
voluto essere una Lady.”
“È questo allora? Che per te
non abbia rinunciato al titolo, il problema?”
“Non te lo avrei mai chiesto,
Robert.”
Lui aveva un’espressione
amareggiata quando lei gli rese l’anello di fidanzamento – un gioiello d'oro scuro e di foggia
antica, di sicuro tramandato per generazioni. “Forse avresti dovuto.”
“Cosa intendi?” Molly si
voltò a fronteggiarlo.
Sherlock aveva una smorfia
che non era solo disgustata, ma di ostile, manifesta disapprovazione. “Come ha potuto
dimenticare così facilmente il suo amore precedente?”
Molly si accigliò. “Non l’ha
fatto. È proprio questo il punto, no? Non l’ha mai dimenticato e quando ha
scoperto che era vivo –”
“Ma come può tradire il
nuovo, voltare le spalle a una promessa fatta a un uomo in virtù di quella
fatta a un altro uomo? Promesse che rompono promesse.” Lo disse nel tono
da ‘non capisco’.
Molly sorrise senza averne
seriamente l’intenzione. “Io credo di capirla molto bene invece. Non ha rotto
un giuramento. La sua era speranza.”
“Speranza.” Sherlock la fissò
come una povera squilibrata.
“Sherlock,” iniziò dolcemente
e fece uno dei suoi sospiri interiori, “quando ami a lungo qualcuno ti rendi
conto che quella persona ti è entrata dentro, ti ha influenzato senza quasi che
ne avessi coscienza. L’amore ti cambia. Non so dirti se in male o in bene, ma
di certo lo fa, ti cambia. E anche quando quella persona non c’è più o è andata
via o si è allontanata, non rinunci a quella nuova parte di te. La puoi
addormentare, puoi illuderti che altre prendano il sopravvento, crederci
abbastanza da renderlo possibile. Poi incontri qualcuno di diverso e ti scopri
ad amarlo, ma è un amore molto, oh, molto differente dal primo e tutto
ricomincia daccapo. Si ama sempre e mai in modo uguale. L’unica caratteristica
che li accomuna è che non sono in nessun modo semplici. Non è amare o perché si
ama, ma come lo si fa ad essere importante.”
Lo aveva spiazzato. Per un
istante, un istante languido e disincantato, Sherlock lesse con serena trasparenza
quello che lei non aveva tentato di nascondere neanche una volta in quelle
settimane. So che c’è qualcosa che mi
nascondi, ma non ti forzerò per scoprirlo. Sempre durante quell’istante,
sembrò giungere a una decisione finale. Molly la vedeva profilarsi nei suoi
occhi, nell’azzurro che ad un tratto si faceva incerto, sospeso come il cielo
quando non sa risolversi tra sole e pioggia e trova l’armistizio di una
copertura di nuvole. Aprì la bocca. “Molly,
io –”
Poi l’istante si spezzò, la
magia fu rotta dal suono vibrato del cellulare di lui. Con un sospiro condiviso
Molly mise da parte quel miraggio e Sherlock controllò il display, accigliato. “È
John,” disse ruvidamente. “Dobbiamo andare.”