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Autore: Francine    15/07/2014    2 recensioni
«Una sorta di super soldato?», chiese un giovane, dai capelli biondi e dall'accento sguaiato, con una cravatta da vaccaio al collo. «Come nei fumetti?»
«Esatto, mister Griffith», intervenne Volonskij, «solo che, questa volta, potreste ottenere dei dati concreti, invece che pagine disegnate per bambini delle elementari.»

Prima Pubblicazione: Settembre 2004
Genere: Avventura, Drammatico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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18.


Andrew aveva atteso i rinforzi sorvegliando i dintorni, ma con suo stupore non aveva visto alcun segno di movimento sospetto. Non che si aspettasse di trovare qualcuno armato fino ai denti aggirarsi per le vie di Minato; tuttavia quel silenzio non gli era piaciuto affatto. Non voleva cedere al fascino della soluzione più semplice, ossia che, vistisi scoperti, i nemici stavano abbandonando la nave che affonda.
Questo avrebbe significato due cose.
La prima, che avevano poco tempo prima che il nemico se la squagliasse, magari portandosi dietro Shun e gli altri.
La seconda, che forse il nemico non si sarebbe portato dietro Shun e gli altri. Forse erano diventati una zavorra, più che una risorsa. E quando sei costretto a fuggire, non devi avere pesi che ti ancorino le gambe. E quando sei costretto a fuggire non puoi certo lasciarti dietro qualcuno che ti possa riconoscere. Dei testimoni. Nossignore. I testimoni vanno resi inoffensivi. Silenziosi. E nulla come una bella raffica mitra garantisce la discrezione che può fornire un cadavere, giusto?
Giusto.
Così Andrew accolse col cuore grato la vista di Fiona e dell’Ofiuco. Arriva la Cavalleria, pensò, fermando il proprio pattugliamento anche solo per un istante. Anche solo per dare loro gli ultimi ragguagli. Anche solo per vedere il viso spruzzato di lentiggini di Fiona.
«Novità?»
La voce dell’Ofiuco era tagliente e gelida, come la pioggia che continuava a cadere dal cielo grigio e sporco.
«Non s’è visto nessuno», rispose Andrew. E poté accorgersi del nervosismo che stava attraversando le braccia della nuova compagna, nonostante la maschera d’argento celasse il suo viso.
«Questo non è bene», commentò l’Ofiuco. Che doveva essere giunta alle sue medesime conclusioni alla velocità del lampo. «Entriamo. Che stiamo aspettando?»
«Seguitemi. Conosco la strada», disse Fiona scattando verso l’obbiettivo.

 
Il dottor Katsuo Komatsubara uscì dalla stanza e scosse la testa.
«Dottore, come sta? È grave?», gli domandò Saori andandogli incontro.
Aveva aspettato nel corridoio della clinica della Fondazione che il miglior ginecologo del Paese visitasse Shunrei, mettendo a repentaglio la perfetta manicure che aveva pagato profumatamente nel Salon de Beauté più rinomato della città.
Al suo fianco, Jimena e Milo, che svettava di ben oltre venti centimetri rispetto a lei, le avevano tenuto muta compagnia, le gambe accavallate e le spalle libere da qualsiasi legame con quella ragazza in avanzato stato di gravidanza che avevano accompagnato di gran carriera in ospedale.
Fuori pioveva, e i lampi attraversavano da un capo all’altro il cielo. La luce del neon sbatteva sui loro visi, facendoli sembrare dei morti viventi in attesa di banchettare con i malati dell’ospedale.
«Devo operare. Subito», rispose Komatsubara con tono incolore, le mani sprofondate nelle tasche del camice immacolato. La posa non era delle più formali, ma riusciva comunque a trasmetterle un senso di grande professionalità. Era come se le stesse dicendo: «Stia tranquilla, non poteva capitare in mani migliori.».
Tuttavia, cosa avrebbe dovuto fare Saori nel peggiore dei casi?
Chi avrebbe scelto di salvare, Shiryu? Shunrei era una donna e avrebbe scelto di salvare il proprio bambino; ma Shiryu?
Che cosa avrebbe scelto lui?
«Mi dica, dottore…» quante probabilità ci sono di salvare entrambi?, sarebbe stata la domanda nella sua interezza, ma Saori non se la sentì di terminarla. Dentro di lei qualcosa le sussurrava che se l’avesse fatto avrebbe reciso qualche filo di troppo. O forse, avrebbe solo reso concreta una paura che si ostinava a considerare latente, relegandola in un angolo.
«Tenteremo di salvarli entrambi, anche se le confesso di essere piuttosto scettico sulle condizioni del feto. Sarò sincero», rispose Komatsubara massaggiandosi gli occhi stanchi, «le condizioni della signora mi preoccupano non poco. Se non si trattasse di due vite umane, definirei il suo caso piuttosto bizzarro, con quella pancia ancora così alta ed il feto che ha superato il periodo di gestazione.»
S’accorse che la rampolla dei Kido faticava a seguirlo, pur restando attaccata ad ogni singola parola che gli sentiva pronunciare.
«Vede», le spiegò, cercando di essere il più chiaro possibile, «quando s’avvicina il momento del parto, la camera gestazionale… la pancia, insomma, slitta verso il basso, per permettere una nascita più semplice. I muscoli si rilassano e la gravità pensa al resto.».
«Capisco», rispose Saori. «Ma questo cosa c’entra con le condizioni della paziente?»
«Vede», riprese il medico, le mani addormentate nelle ampie tasche del camice, «abbiamo sottoposto la signora ad alcuni accertamenti, dai quali è emerso che il feto dovrebbe aver superato le trentasei settimane; tuttavia, la pancia della signora non accenna a scendere.».
E questo è male, pensò Saori. Annuì.
«Dall’ecografia si evince che il feto non sta bene, si presenta in posizione podalica e che se aspettiamo ancora metteremo a rischio anche la vita della gestante. Sono costretto ad operare la signora.»
«Un cesareo?», domandò la ragazza.
«Esattamente», le rispose. «Ha quei moduli che le avevo chiesto di firmare?»
Saori aggrottò le sopracciglia. Gli porse tre fogli, firmati in ogni loro parte.
«Manca solo la sua, di firma, dottore.».
«Mi spiace, ma è la burocrazia che tiene in piedi tutta la baracca», ammise l’uomo con franchezza. Firmò il primo foglio, prendendo in prestito una penna dal bancone dell’infermiera. «Nel malaugurato caso in cui dovesse succedere qualcosa alla paziente in sala operatoria, l’ospedale vuole avere le spalle coperte. Lei capirà…»
Saori stava per ribattere che no, non capiva affatto e stava per sollevare altre domande quando Komatsubara aggiunse: «Non è questo il caso, ma come si dice? Mai dire mai, giusto?». E firmò il secondo foglio.
Saori guardò la porta chiusa oltre le spalle bianche dell’uomo che aveva davanti; la voce di Shunrei le giungeva attutita dal legno bianco, ma poteva distinguere lo stesso i flebili richiami che la ragazza lanciava all’uomo che amava.
«Shiryu…Shiryu»,
piangeva, e Saori non faticava ad immaginarsela mentre stringeva i lembi delle lenzuola tra le mani, cercando di resistere a quel dolore che la stava uccidendo dal di dentro.
Il medico pose anche l’ultima firma, si tolse gli occhiali, li pulì con un lembo del camice. Poi consegnò tutta la documentazione alle mani dell’infermiera e, rivolgendosi ai suoi assistenti, che l’attorniavano come premurosi angeli custodi, disse: «Ishida, vorrebbe andare a vedere se la sala operatoria numero sette? Shigeda, Mudo e Yamamura avvisate il dottor Sade e il dottor Sengo di tenersi pronti, abbiamo un cesareo da fare. Kamiya, ematocrito, pressione ed emocromo completo della signora. Non m’importa se i tecnici sono già andati via. Chiami chi le pare, anche il Padreterno, ma voglio quei risultati nelle mie mani entro mezz’ora.».
Rivolse un inchino veloce a Saori, sorrise e le disse:«Se adesso vuole scusarmi…», prima di avviarsi verso gli ascensori insieme ai suoi assistenti.
Saori lo vide svoltare l’angolo seguito da una diecina di persone, poi si rivolse ad un’infermiera che era appena uscita dalla stanza di Shunrei. «Potrei vedere la paziente?»
L’infermiera rispose di fretta: «Solo per pochi minuti. Tra poco dovremo prepararla per l’operazione», ed lasciò la porta socchiusa prima di allontanarsi tutta affaccendata.
«Vada pure. L’aspettiamo qui», le disse Jimena, mentre Milo annuì. Saori mormorò un grazie ed entrò in fretta nella stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
Si sentiva responsabile per tutto quello che la ragazza stava passando. Amava Shiryu con una delicatezza e un’intensità pari solo alla pazienza con cui lei, ogni volta, aspettava il ritorno dell’amato nella quiete dei picchi del Monte Lu.
E quest’amore, su cui le leggi del Santuario non potevano pronunciarsi bene, aveva dato frutto. Pazienza, le Leggi sono fatte per essere abrogate, pensò Saori dicendosi che al momento non erano loro la cosa più importante.
Perdonami, Shunrei. Adesso vorresti avere Shiryu al tuo fianco, ed è tutta colpa mia…
 
 
Un deserto di vetro e acciaio, questo sembrava l’interno del grattacielo F, illuminato dalle luci d’emergenza che conferivano all’ambiente un alone verdastro poco rassicurante.
I piedi di Shaina correvano veloci per le scale antincendio del palazzo, saltando da un mancorrente all’altro. Per guadagnare tempo. Non sapeva quanto ne avessero. Poco, comunque. E anche quel poco si andava assottigliando sempre di più. Minuto dopo minuto.
C’era ansia nei gesti di Shaina. Ansia e rabbia e frustrazione.
Aveva percepito il cosmo di Seiya spegnersi di colpo, come se qualcuno avesse premuto un interruttore. Un istante prima, c’era; debole, opaco e poco convinto, ma c’era. L’istante dopo, no. E non era accaduto nulla che facesse presagire quel silenzio o che lo giustificasse in qualche modo.
Nessuna esplosione, nessun’implosione, nulla.
Nemmeno un urlo nel buio.
E questo era il motivo per cui la pelle dell’Ofiuco era ingemmata di sudore freddo. Questo soltanto. Che diamine sta succedendo qui dentro?, si chiedeva Shaina correndo, saltando, balzando per quelle scale come una tigre che si precipita verso la libertà.
Avevano abbassato la guardia. Si erano illusi che si potesse vivere come normali esseri umani. Che sciocchezza!
Una persona normale ha paura. Di ciò che non conosce. Del buio, perché non sa cosa potrebbe nascondersi nell’oscurità. Nulla; oppure tutto.
Ma quando sai che nell’oscurità c’è qualcosa, che esiste una realtà ben diversa da quella che propinano le televisioni e i giornali, quando sai che gli dei camminano ancora su questa terra, non puoi più vivere come una persona normale. Perché per te il luccichio delle stelle ha un significato ben preciso. È un addio. O un cosmo che ruggisce e chiede aiuto lassù, in alto, a quella costellazione lontana che gli uomini non riconoscono. Perché gli uomini hanno smesso di guardare al cielo da troppo tempo. Chinando la testa verso i propri piedi. Scegliendo di vivere come prede, e non più come predatori.
«Dividiamoci!», propose Fiona. «Uno ogni quattro piani. A cominciare dal quarto.»
Shaina annuì. «Scendo alla prossima», disse, la maschera d’argento ben salda sul viso. Atterrò con grazia davanti alla porta del quarto piano, la socchiuse e scivolò oltre.
Fiona ed Andrew continuarono la propria corsa. Un paio di suoni attutiti – il loro battere e levare sui corrimano – e poi più nulla. Shaina si guardò attorno e poi scivolò a destra. Davanti a lei si apriva un corridoio, illuminato da quel fioco chiarore che le ricordava troppo da vicino le luci serali dell’ospedale in cui l’avevano ricoverata da piccola. Quando lei e sua madre erano state centrate in pieno sulle strisce pedonali da un pirata delle strada. Uno strike perfetto, tanto che sua madre aveva battuto la testa e, per quello che ne sapeva lei, era tuttora in coma al Gemelli. E poi era arrivato a prenderla quel ragazzo dalla pelle abbronzata e i modi spicci e dall’accento impossibile.
Shaina strinse i pugni, fino a sentire l’armatura contenere a stento le sue mani.
Basta coi ricordi, s’impose. Aveva una missione, giusto? Giusto. Prese un bel respiro e si lanciò nel corridoio.
 
 
Il venerabile Libra aprì un occhio. Per quanto tempo aveva meditato, questa volta? Per quanti mesi era rimasto nel torpore del misopethamenos? Sollevò la palpebra stanca e pesante e si guardò attorno. Era tramontato da poco il sole, una mezzora al massimo, ma si era già fatto buio, e quindi non poteva distinguere se la natura attorno a lui avesse intinto il proprio pennello nella tavolozza arrugginita dell’autunno o se fossero ancora i toni decisi dell’estate a colorare il bosco attorno al Monte Lu. L’aria s’era fatta più umida e fresca. La cascata scrosciava forte davanti a lui, ma aveva perso portata, segno che le acque andavano diminuendo. Autunno, decise il vecchio Doko. Le sue mani piegate dall’artrite cercarono il bastone di legno, trovandolo davanti alle sue ginocchia. Qualcuno gli aveva avvolto una coperta attorno alle spalle. Perché non prendesse freddo, la notte.
Un sorriso piegò le labbra della Bilancia e gli colorò gli occhi. Shunrei. E poi pensò che presto sarebbe stato il compleanno di Shiryu. E che Ade non si sarebbe fatto vivo, se non la prossima primavera. Abbiamo ancora qualche mese di tempo, pensò.
Il vecchio Sage era stato chiaro, quando secoli prima aveva spiegato loro come Ade amasse manifestare la propria collera – la propria potenza – in primavera. Quando la natura riprende a fiorire. Quando la sua sposa Persefone deve lasciarlo e tornare alla vita, tra le braccia della madre Demetra.
«Ma dimmi tu. Stai a vedere che il caro zietto soffre di solitudine e non vuole lasciare la sua amata mogliettina!», aveva commentato una volta Manigoldo, meritandosi un’occhiataccia del Sommo Sage e una risata partecipe di Kardia.
«Già. Dev’essere problematico avere una suocera come la divina Demetra», aveva rincarato la dose lo Scorpione con quel suo sorriso strafottente, che non aveva salvato né lui, né il suo compagno da una punizione esemplare.
«Cosicché non venga in mente a nessun’altro di giocare col fuoco», aveva detto Sage, spedendoli attraverso il proprio potere nello Yomotsu Hirasaka.
Ma tu guarda cosa vado a rammentare proprio adesso, si disse Doko alzandosi in piedi. E, a fatica, un piede leva e l’altro metti, guadagnò la strada di casa.
A quest’ora Shunrei starà preparando la cena, si disse il vecchio guerriero. E si chiese cosa avrebbe trovato di buono sulla tavola. Ravioli? Riso saltato? O una buona zuppa di pollo, che ben si sposava con il carattere frizzante della sera? O forse qualcosa di meglio, oso sperare la Bilancia. Tutto dipendeva dal fatto che Shiryu fosse tornato dalla sua missione oppure no. Shunrei era un’ottima cuoca, ma era quando il Dragone tornava al suo nido che lei dava il meglio di sé. E in angolino del suo vecchio cuore malato, il vecchio Libra si disse che sarebbe stato doppiamente felice di riavere l’allievo a casa, quella sera.
Ma non percepì il cosmo di Shiryu, nell’abitazione che condividevano poco più a valle, ma più lontano. Ad Est. Rabbioso, ruggente e tumultuoso. Come le acque della cascata. Doko si voltò. E vide lo scrosciare alle sue spalle rispondere al cosmo del Drago.
Dev’essere successo qualcosa. Qualcosa di brutto, pensò il vecchio mentore stringendo il bastone di legno nodoso. Ma cosa?
 
 
«Continua a non quadrarmi…», disse Genki, una mano sotto al mento.
«Cosa?», gli chiese Ichi. «Che il Santo dello Scorpione sia un concentrato di presunzione?», aggiunse, meritandosi un’occhiataccia da parte di Nachi.
«Oh, no. Quello l’avevo messo in conto», rispose l’Orsa Maggiore. «I Santi d'Oro sono dei pupazzi boriosi, pronti a ribadire al mondo la propria superiorità per la minima stronzata.»
«Genki… L'altro Santo d'Oro è oltre questa parete...»
Lo so benissimo che potrebbe sentirmi! È quello che voglio! «Intendo dire», riprese ignorando il richiamo di Nachi, «che non mi quadrano un bel po’ di cose in tutta questa storia.».
«Ad esempio?», chiese l’Idra facendosi serio.
«Shunrei. Avete visto quant’era grossa?» Gli altri annuirono. Bene. Allora non sono l’unico a far funzionare occhi e cervello, si disse pensando alla reazione nervosa che aveva avuto lo Scorpione. «Solo a me pare strano che quella ragazza si sia mossa dalla Cina in quelle condizioni, figuriamoci, poi, senza Shiryu?»
«E se fossero partiti insieme?», chiese Ichi.
Genki lo fissò serio.
«Insieme? Ma se Shiryu era in missione per conto del Santuario?! E poi, tu ce lo vedi un tipo meticoloso come lui che porta la propria bella, incinta, nel bel mezzo di una missione?»
«Va bene, va bene», intervenne Nachi. «Proviamo a ragionare per assurdo. Mettiamo che Shunrei abbia agito di testa propria. Mettiamo, anche se ne dubito, che avesse deciso di seguire Shiryu; quanto sarebbe potuta arrivare lontano, da sola, in quelle condizioni?»
«E se l’avessero rapita in Cina?», propose Ichi; era come se il suo cervello stesse mettendosi pian pianino in moto. O almeno, ci stesse provando.
«Shiryu non l’avrebbe mai permesso», rispose Nachi serio. Se ci fosse stata Djamila, al posto di Shunrei, lui non le avrebbe permesso di mettere il naso fuori di casa da sola, mai e poi mai; figuriamoci se se la sarebbe portata dietro in missione. A pochi giorni dal parto, poi.
«Dico che potrebbe essere successo mentre Shiryu era già via», precisò l’Idra incrociando le braccia.
«Ma anche se fosse successa una cosa simile, perché non avvisarci?», aggiunse Genki, una mano sotto al mento. «Pensate anche voi quello che penso io?»
«A questo punto, direi di sì», disse Nachi dando un’occhiata a Ichi, che si affrettò ad annuire. Tu hai capito, eh? Sicuro?, pensò il Lupo prima di mettere l’ultimo tassello al puzzle. «Quella ragazza non è Shunrei. Resta da scoprire chi sia, e in fretta anche.»
«È ora di andare», disse Genki alzandosi. «Milady è con quella ragazza, da sola.»
«Ma con lei c’è Milo. E anche il Capricorno», lo corresse Ichi.
«Oh, anche quando il jet saltò in aria, c’era con lei Milo. Ma c’era anche Gemini. Non te lo scordare.»
«Secondo me, stai esagerando.»
«Sempre meglio che trovarsi a piangere dopo. Non so te, ma non ho nessuna intenzione di vivere con l’angoscia di non sapere cos’è successo ad Athena. Avanti, dobbiamo anche avvisare sua maestà delle nostre ipotesi…», concluse riferendosi a Milo. Genki si alzò dalla poltrona dello studio imitato dai suoi fratelli.
«Non dovremmo avvisare anche…» Nachi non concluse la frase. E se lei avesse preso la palla al balzo e fosse uscita? Ban ci andrebbe di mezzo, pensò. Ma poi si disse anche che la situazione stava mutando sotto il loro stesso naso minuto dopo minuto. Ed occorreva pensare con elasticità, se c’era l’intenzione di sopravvivere a quella notte sciagurata.
«Me ne occupo io.» Il sorriso dipinto sul volto dell’Orsa parlava chiaro.
Stai scherzando col fuoco, Genki. Ma se vuoi morire giovane, io non ti fermerò. «Perfetto», commentò Nachi. «Ichi ed io andremo in ospedale, tu e Ban…»
«Aiuteremo gli altri al grattacielo F.»
«Allora andiamo! Che aspettiamo ancora?», disse Ichi schizzando fuori seguito a ruota dal Lupo. Era evidente che avessero voglia di sgranchirsi un po’ le ossa, dopo un relativo periodo d’inattività. E chi era, lui, per impedire loro un po’ di sano divertimento? Una scazzottata non ha mai ucciso nessuno.
Genki sorrise.
«Giusto. Che stiamo aspettando?», si disse. Si passò le dita tra i capelli con la sfumatura alta come George Michael, e si sistemò la giacca. Milo li aveva lasciati di piantone ed era schizzato in ospedale, ma in fondo non era questo che lui voleva? Lo Scorpione stesso l’avrebbe lasciato di guardia alla Sacra Guerriera del Cancro, favorendolo in tal senso. Lei non avrebbe dovuto muoversi di lì, cascasse il mondo e Genki si sarebbe premurato di eseguire gli ordini alla lettera. In fondo, non le aveva fatto una scenata meno di un’ora prima perché aveva agito di testa sua?
Non che gli premesse condividere la stessa aria di quella ragazza; era più che altro per fare un dispetto allo Scorpione. Trovare un punto debole sulla patina di perfetta efficienza di un Santo d'Oro equivaleva a scoprire una crepa profonda su di un vaso cinese di grande valore.
Bussò.
La voce di Ban ruggì un allarmatissimo: «Chi è?» e Genki entrò.
Ban e Cancer erano seduti l’uno di fronte all’altra, le mani sprofondate tra le ginocchia e l’aria preoccupata. Il Leone Minore lo osservava con gli occhi carichi di nervosismo, mentre la ragazza si fissava i piedi.
«Abbiamo tenuto un veloce conciliabolo, di là», disse Genki rivolgendosi a lei. Era la più alta in comando, giusto? Giusto. Ma sembrava essersene dimenticata.
«E?», chiese Ban, un occhio a lui e l’altro a lei. Temeva che avrebbe potuto approfittare della situazione, e Genki si chiedeva in che modo. Sarebbe stato curioso di saperlo, sì.
«E abbiamo convenuto che quella ragazza non è Shunrei. Non può esserlo. Per tutta una serie di ragioni e motivi che forse adesso non è il caso di esaminare.»
Quindi?, gli chiesero gli occhi di Ban.
«Idra e Lupo sono andati all’ospedale. Per dare manforte. E avvisare milady del pericolo», proseguì l’Orsa. «Noi che facciamo?»
 
 
«Shunrei?»
Era da qualche tempo che Doko non usava la propria voce. Una manciata di settimane, a giudicare dal calendario che Shunrei aggiornava di giorno in giorno con estrema precisione. Chiamò la ragazza con un tono di voce medio, ma gli sembrò di aver urlato.
«Shunrei?!», ripeté, allarmato da quel silenzio irreale. Dove era andata? Perché non rispondeva? Possibile che stesse ancora dormendo?
Doko abbandonò il bastone e il cappello sull’uscio ed entrò in casa, lasciando che la coperta gli scivolasse dalle spalle. Quasi non vi badò. Perlustrò la casa da cima a fondo, dando un’occhiata sul retro, nell’orto che Shunrei curava con le proprie mani. Non avrebbe avuto senso trovarvela a quell’ora, ma Doko aveva comunque voluto provare. Non riusciva a comunicare con Shiryu attraverso il cosmo. Il segnale del suo allievo era debole, e se riusciva a percepirlo era solo grazie alla grande rabbia e all’angoscia che lo coloravano di un nero cupissimo. E questo poteva voler dire una cosa sola: era successo qualcosa a Shunrei. E che Athena avesse pietà delle loro anime, ma se fosse accaduto qualcosa di brutto a Saori, il cosmo di Shiryu avrebbe assunto tutt’altre tinte. Sempre fosche, sì; ma bagnate della fredda determinazione dell’acciaio. Perché lui era un guerriero, il suo guerriero; e come tale, avrebbe combattuto per lei, fino a dare la vita. Ma con Shunrei… con Shunrei era tutt’altra faccenda.
«Shunrei!!»
Questa volta Doko gridò. E questa volta, Doko ebbe risposta.
«Maestro?» Era Shunrei. Sulla soglia di casa, una giacca sulle spalle e la borsa piena. E l’espressione stupita. «Vi siete svegliato?»
Doko sgranò gli occhi. E per poco il suo vecchio cuore non si fermò del tutto. «Dov’eri?»
«Al villaggio», rispose la ragazza. «Avevamo finito alcune cose e sono andata a fare scorta. E al villaggio ho incontrato un’amica, Linmei, la ricordate? Si sposa il mese prossimo, così ne abbiamo approfittato per fare due chiacchiere. Non credevo avrei fatto così tardi…»
Doko sospirò, ed il suo cuore batté un colpo. «Non importa», le disse.
«Vi siete svegliato da poco?», chiese la ragazza. Aveva un’aria spaventata. Forse era stata la sua assenza a preoccuparlo? Eppure non credeva che sarebbe rincasata a luna alta. E tutto per aver ascoltato le chiacchiere delle altre ragazze ed essersi convinta a provare una manicure.
«Sì. E ho una fame da lupi. Che si mangia di buono?»
«Ho preparato dei ravioli di carne, stamattina. Basterà riscaldarli», rispose Shunrei posando la sporta della spesa davanti all’acquaio. Prese un grembiule da cucina, lo annodò dietro la schiena ed iniziò a preparare la cena.
Sentì gli occhi del vecchio maestro fissi su di sé, nemmeno avesse un bersaglio proprio al centro della schiena. E poi lui le disse: «Ti sta bene lo… come si chiama quell’affare che voi donne vi mettete sulle unghie?».
«Smalto», rispose lei. Un po’ colpevole. Di aver ceduto e di aver comprato una boccetta. Piccola. Da usare nelle grandi occasioni, perché non si addiceva a lei avere le unghie laccate. E lo smalto si sarebbe rovinato subito, ma pazienza. Era un piccolo capriccio da tenere chiuso in un cassetto, assieme al pezzo di vetro blu che le aveva regalato Ohko quando erano bambini. Da guardare, in controluce. Come una cosa preziosa.
«Ti sta bene», le disse Doko, accomodandosi su un cuscino davanti alla tavola. «Da quant’è che meditavo?» Doko evitò di usare il verbo dormire, perché, pur se era questo che faceva, sarebbe sembrato poco consono al suo ruolo di maestro.
«Quasi cinque settimane», rispose Shunrei accendendo il fuoco.
«Caspita», commentò Doko con la sua voce di foglie secche. «Raccontami. Che si dice di nuovo giù al villaggio?»
 
 
Più la faccenda andava avanti, meno si faceva chiara. Chi diamine era quella ragazza? Che c’entrava lei con la missione?
Seduta su una comoda poltroncina, il Capricorno accavallò le gambe. Lei e Milo attendevano pazienti, i sensi tesi e pronti a captare la presenza di eventuali nemici. Lo spettro del sedicente vampiro che era apparso in città un paio di sere avanti, era più consistente che mai, anche scorrendo i principali titoli dei giornali. Nel giro di ventiquattro ore, due donne erano state aggredite nella zona del porto, mentre una in casa sua, nel tranquillo distretto di Nerima.
Jimena osservava i ritagli che le avevano dato a Kido Manor e le pagine dei quotidiani che l’infermiera di turno aveva fornito loro. «Per ingannare l’attesa», aveva detto, scusandosi per avere solo quotidiani del giorno avanti.
Jimena si chiedeva se tutti quei simboli fossero parole o no, e quali fossero i verbi, quali i sostantivi e via di seguito, mentre Milo, dal canto suo, non pensava alle leggi che il Dragone e Shunrei avevano infranto: con ogni probabilità, Athena avrebbe trovato il modo di aiutarli, rifacendosi all’adagio gnothi s’autòn. Aveva fatto altrettanto con la maschera rituale delle donne e con l’obbligo di risiedere al Santuario, e avrebbe continuato a piegare le leggi il più possibile per sempre. Più della sorte che sarebbe toccata a Shiryu e a suo figlio, allo Scorpione interessava cosa stesse accadendo sul campo di battaglia.
Perché non arrivavano i feriti?
Possibile che non avessero ancora evacuato il palazzo?
Perché ci mettono tanto, si domandava lo Scorpione. Fosse stato per lui, avrebbe scelto di bonificare l’area in modo radicale, e debellare così il problema, ma almeno era una strategia, e non il seguire l’istinto come i cani.
L’istinto è quello che ti salva le chiappe, larva, ripeteva spesso Aristoteles, il suo maestro, durante l’addestramento tra il mare e le rocce di Milos. Lui, invece, preferiva avere un piano ben preciso, da seguire tappa dopo tappa, ed usare l’istinto solo in caso di bisogno.
E lanciarsi a testa bassa nella tana del lupo non è seguire l’istinto. È suicidarsi, pensò osservando la situazione all’esterno: calma piatta e pioggia battente.
Con ogni probabilità, a cose fatte sarebbe stata istituita una corte marziale, e quei tre incoscienti avrebbero ricevuto una bella lezione. Esemplare. Qualcosa che avrebbe fatto passar loro la voglia di riprovarci, e che fosse di monito per il futuro. Athena o non Athena.
È giusto, sono dei Saint di Athena, non dei monelli in vena di bravate.
Si scoprì a picchiettare con un dito sul davanzale della finestra. I medici non avevano battuto ciglio vedendoli arrivare con indosso le armature. Per lui, invece, era la prima volta che rompeva la segretezza della sua identità. E a pensarci bene, era anche la prima volta in Giappone.
Athena aveva deciso di vivere come una ragazza comune – si fa per dire – e risiedeva per sei mesi al Santuario e, per i restanti sei, a Tokyo. A turno, un Santo d'Oro la raggiungeva per tre mesi, mentre le tre femminucce – e quanto si divertiva Milo, a chiamarle così e a farle imbestialire! – risiedevano una al Santuario, una a Tokyo e la terza sull’isola di Naxos, a studiare delle carte che Shaka aveva rinvenuto nella biblioteca personale di Saga.
Il vecchio maestro era stato irremovibile: aveva ritenuto fosse più saggio dividerle in modo da impedire altre manipolazioni mentali.
Nadja era piantonata alla Terza Casa, sotto lo sguardo vigile di Kanon, ed era tutto sommato quella cui era andata meglio. Per lei era come ritornare indietro all’addestramento, e per il fratello di Saga era un’occasione per dimostrare la propria fedeltà al Santuario.
Athêna ammuffiva tra documenti polverosi e lingue morte da esaminare, controllare, vagliare. Aveva provato più volte a coinvolgerlo, e con argomenti piuttosto convincenti, ma lui se ne era sempre tirato fuori. Lo studio e la ricerca si addicevano di più a personalità riflessive come Shaka o Mu, piuttosto che a lui. E a dirla tutta, Athêna avrebbe preferito avere gli occhi dolci dell’Ariete ad aiutarla in quel difficile compito, piuttosto che i suoi.
Quell’altra pazza, invece, non dava segni di vita. Ogni mese, inviava con puntualità dei resoconti striminziti scritti in francese, fregandosene dell’obbligo di allegare una copia in greco, e del fatto che laggiù quasi nessuno conoscesse la lingua di Molière.
Così, dopo le ultime righe mandate all’inizio di Agosto, riassumibili in: – Sto bene. Fa caldo. Un abbraccio ad Aiolia –, era andato a pescare il Leone per chiedergli di partire al posto suo, e dare così una raddrizzata alla sorella del suo migliore amico.
Purtroppo, era arrivato tardi, da come si erano messe le cose.
  Questa volta nessuno le toglie una strigliata coi fiocchi. Prima quel tranello che per poco non ci manda tutti al Creatore, e passi Nadja che era soggiogata da Loki, ma lei era ben capace d’intendere e di volere, altroché, ed è già tanto che le abbiano lasciato la testa sul collo. Ora, quest’insubordinazione, e io stavolta dubito che il vecchio…
Un lampo illuminò a giorno il parco che abbracciava l’ospedale.
Il vecchio maestro.
Com’era possibile che avesse permesso a Shunrei di seguire Shiryu, e in quelle condizioni, poi? E una volta accortosi che la ragazza era sparita, perché non dare l’allarme? Perché non avvertire Shiryu?
Un viaggio dalla Cina al Giappone non è come scendere a prendere la frutta al mercato, specie poi se non si conosce la lingua. Qualcuno deve averla aiutata, ma chi?
Fissò il proprio riflesso quando, in lontananza, sentì il Cosmo di Seiya esplodere e poi svanire. Dentro la stanza di Shunrei, Saori trasalì. Anche Jimena se ne rese conto e fissò lo Scorpione come a chiedergli cosa avrebbero dovuto fare.
Poi si aprirono le porte dell’ascensore e ne uscì fuori Hyoga urlando: «Quella non è Shunrei!».
 
 
 Note:
Questo credo sia il capitolo più sconclusionato della storia. Chiudete un occhio, per favore.

Lo Yomotsu Hirasaka è il passaggio che dal mondo dei vivi porta alla Bocca dell'Ade. Quel luogo ameno dove vi spedisce Death Mask con un Sekishiki Meikaiha come si deve, insomma. E non dite che Manigoldo e Kardia non se lo sono meritato, ché l'ubris è una bruttissima bestia. E gli dei sono molto, molto permalosi. Sì, ho capito. Ho capito. Mi butto anch'io nel gorgo. Spero che Manigoldo mi afferri al volo!

Il Policlinico Universitario Agostino Gemelli è un ospedale di Roma collegato all'Università Cattolica del Sacro Cuore. Avrei voluto far ricoverare Shaina e sua madre al C.T.O. alla Garbatella, storico quartiere dell'Urbe, ma all'incrocio mentale è arrivato prima il Gemelli. Da destra.
   
 
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