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Autore: Leia    05/08/2003    0 recensioni
Esistono sempre ricordi, memorie di qualcosa che deve ritornare. Le memorie di un passato che non è concluso, e che si farà, un giorno, come neve chiara e soffice, per ricadere dolcemente sul presente. Imprigionata in questa sensazione insolita sento nostalgia, attendendo il ritorno di una notte senza fine.
Genere: Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non mi è mai stata bene la gonna. Anzi, non capisco proprio come mi sia saltato in mente di comprare anche solo quelle poche che ho nell’armadio.

Devo segnarmelo assolutamente da qualche parte, “mai più gonne”… magari distribuisco anche qualche promemoria fra i parenti, così, giusto per non ritrovarsi regali indesiderati ai compleanni e alle feste, cosa che a me capita spessissimo, naturalmente.

Bleah, lo specchio mi dice decisamente “no, per carità, levatela”. Così, seguendo il suo consiglio, mi sfilo velocemente anche quell’orrore, lanciando insieme un’occhiata all’orologio appeso al muro. Come sempre, sono in ritardo. Gli ospiti arriveranno a momenti, e io non ho nulla addosso.

“Ok, vada per i pantaloni”, mi dico quindi, aprendo l’ultimo cassetto leggermente agitata. La mia ultima spiaggia.

Dopo aver rovistato per cinque minuti fra varie paia, propendo per i miei preferiti: neri, svasati, comodissimi. Perfetti quando non sai cosa mettere, vale a dire sempre per me.

Soddisfatta, scelgo in pochi secondi cosa abbinarci sopra. Un maglioncino morbido, di non so quale strano tessuto chimico, corto, scollo ampio a v e leggermente aderente, regalatomi l’anno prima da Noemi. Per una volta, il suo gusto pacchiano non ha avuto il sopravvento.

Aggiungo un girocollo in oro bianco, sottile, e un paio di orecchini molto semplici. Spendo gli ultimi quindici minuti in bagno, uscendo puntuale come un orologio svizzero al primo campanello alla porta. Che donna che sono, penso sorridendo, per poi infilarmi un paio di scarpe dal tacco non troppo alto, sobrie, semplici ma eleganti. Voilà, sono a posto.

Scendo le scale, dirigendomi in soggiorno. C’è uno strano profumo nell’aria. Devono essere le candele che ho comprato due mesi fa, al muschio bianco. La mamma deve averle accese, spargendole per tutta la casa. Beh, meglio così, sicuramente a me non sarebbe proprio venuto in mente. Però… non ricordavo più quanto amo questo odore. Mi rilassa, incredibilmente. E mi fa pensare solo a cose belle.

“Incredibilmente puntuali… non ci avrei mai scommesso!”, esclamo, scendendo i due scalini che mi separano dal salotto. Serena e Noemi, in piedi fra le poltrone, stanno chiacchierando con mia madre. Appena sentono la mia voce si girano.

“Ma come siamo eleganti!” mi dice Noe, squadrandomi. Sorride, poi mi punta un indice al petto.

“Sbaglio o questo ha qualcosa di familiare?”.

“Chissà chi me lo ha regalato!”, rispondo, abbracciandola. Anche lei stasera è in pantaloni: dalla vita bassa, di un bordeaux scuro. Sopra ha una magliettina dagli strani disegni tribali, sempre su toni caldi, che le lascia scoperta un po’ di pancia. Brr, mi viene freddo solo a guardarla. Noto che fortunatamente si è portata anche un golfino, ora abbandonato sul mio divano. Nonostante tutto sta veramente bene. Si è anche rinnovata il taglio, e i riflessi rossi delle corte ciocche sfilate le illuminano il viso, facendolo sembrare più abbronzato.

Sere, invece, si è messa un vestito scuro, semplice ma che fa decisamente la sua figura. Lungo fino alle ginocchia, ha un fantastico spacco laterale. Quando si veste seriamente - evitando strane pacchianate - sembra più grande di almeno cinque anni. Tra l’altro si è lisciata i capelli, e truccata alla perfezione devo ammettere che è davvero bella. Come dice sempre il suo ragazzo, Federico, ha un fascino d’altri tempi, di quelli che ti mettono addosso malinconia e un timore quasi reverenziale, come se ti trovassi davanti a una di quelle attrici bellissime e perfette degli anni ’40. Che sembrano rompersi come bambole di porcellana al solo pensiero di sfiorarle, insomma. Sia chiaro, io riesco a provare suddetto timore solo per un paio di secondi… poi la solita e pazza Sere si sostituisce all’immagine della Cleopatra dagli occhi da gatta che tanto adora Fede, e finisco per scoppiare a ridere. A proposito di Fede, non vedo né lui né Ale.

“Scusate, ma i vostri ragazzi?”, chiedo, dopo aver abbracciato anche Sere.

Noe alza le spalle, scocciata.

“Ci hanno detto che arrivavano più tardi. Sembra che siano stati costretti a passare almeno due terzi della serata in famiglia”.

“Traditori…”, sbuffa Sere.

Guardo per un po’ tutte e due, poi stendo improvvisamente le braccia verso l’alto, aprendole con aria gloriosa.

“Coraggio, non è una tragedia! Avete me, dopotutto!”.

Loro mi fissano inespressive, poi Serena guarda Noemi.

“Che fortuna, eh, Noe?”.

“Già! Morivo dalla voglia di passare una serata con Mara! Tu no?”.

“Eccome!!”.

Scuoto la testa, fingendomi delusa.

“Stasera siete adorabili, davvero”.

Dopo avermi insultato per circa una decina di minuti, le mie dolcissime amiche si offrono di aiutarmi a sistemare gli ultimi addobbi. Tanto, a quanto pare, tutti sembrano in ritardo, e io come sempre ho fatto il tour de force per niente. Intanto, mia mamma si è già rinchiusa di nuovo in cucina, felicissima di poter finalmente sperimentare tutte quelle strane ricette che io gli avevo naturalmente proibito di testare sui miei amici.

Ormai sono quasi le otto e mezza. Finalmente, uno dopo l’altro, tutti gli ospiti si riversano in casa mia, che lentamente si fa sempre più rumorosa. Era da tanto che non sentivo più così tante voci fra queste pareti. Da molto tempo.

Anche se mi sembra ieri quando, prima i miei nonni, poi mio padre, se ne sono andati, senza che quasi me ne rendessi conto.

Improvvisamente triste, faccio un lungo respiro. Il muschio bianco, l’aromaterapia e tutte quelle cose lì fanno per fortuna il loro effetto e, dopo aver recuperato il sorriso, vado ad accogliere gli ultimi amici.

“Eleeee!”, grido, gettando le braccia al collo della ragazza dai lunghi capelli biondi e un po’ mossi che è comparsa davanti a me, dietro alla porta. 

“Che accoglienza, eh eh!”, riesce a dire lei con la sua voce cristallina, prima di restare quasi soffocata dal mio abbraccio. Era veramente da molto tempo che non vedevo Elena, e quasi non potevo crederci quando, mesi prima, mi aveva assicurato che sarebbe venuta a trovarmi per Natale.

La conosco praticamente da sempre. Per me è come una sorella maggiore, o una seconda mamma, se vogliamo. E’ più grande di me di parecchi anni, ma ci intendiamo alla perfezione, come se fossimo gemelle. Mia mamma ha una casa vicino Roma e da sempre, ogni estate, io e la mia famiglia andiamo a passarci le vacanze. Elena è, praticamente, la figlia dei nostri vicini. Purtroppo, però, quando io avevo quattordici anni sono stati costretti a traslocare a Firenze, e da allora noi due siamo riuscite a vederci solo poche volte durante le tre estati seguenti. Comunque, siamo sempre rimaste in contatto.

“Mara! Come stai? Cavoli, non ti riconosco più… ”.

“Ma dai, sono passati solo due anni”.

“Ti assicuro, mi fai sentire meno vecchia… ”.

Ridacchia. Mentre la faccio entrare, le lancio un’occhiatina.

“Cosa vuoi dire?”.

Lei continua a ridere ancora un po’.

“Beh, che ora i nostri dieci anni di differenza sembrano essersi dimezzati… ”.

“Ah, ma davvero sembro così grande?”.

“Mh, sì sì… ”.

Io scuoto il capo, mettendole un braccio intorno alle spalle. “Non so se prenderlo come un complimento o altro… ”.

Faccio velocemente le presentazioni, decisa a trascorrere almeno tre quarti d’ora a chiacchierare ‘dei vecchi tempi’ con Elena. Proprio quando sto per dirigermi verso il divano con lei, però, il campanello suona ancora.

“Vuoi che vada iooo?”, cerca di gridarmi Sere qualche metro più in là, in punta di piedi, nel tentativo di superare il baccano prodotto da un qualche CD di musica pop che uno dei miei amici deve aver fatto partire sullo stereo. Cerca di raggiungermi, ma una ventina di persone che ballano, mangiano e parlano ci dividono, e non sembrano essere intenzionati a spostarsi. Non sembra più un festa natalizia… okay la casa piena e l’atmosfera allegra, ma ho l’impressione che forse avrei dovuto invitare meno gente. Soprattutto, dire esplicitamente ai miei amici di non portare i loro amici. E gli amici dei loro amici.

“No no, non preoccuparti, vado io!”, le urlo quindi con tutto il fiato che ho in gola, facendole dei segni con le mani, sopra la testa. Mi scuso con Elena e, sospirando, mi dirigo nuovamente all’ingresso.

Questa volta, però, quando apro la porta non posso proprio credere ai miei occhi. Un fantasma, .o quasi.

“Ra… Rachele?”, balbetto.

La ragazza davanti a me, avvolta in un lungo cappotto rosso deliziosamente natalizio, mi guarda, poi annuisce lentamente. Ferma sulla soglia, rimane in silenzio fino a che non scoppio in lacrime. Meno male che mi ero promessa di non piangere, almeno oggi.

“Se sapevo che ti avrei fatto questo effetto, non avrei chiesto a mio zio di ospitarmi fino a metà gennaio… ”, mormora quindi lei, stringendomi forte. Io sorrido, e dopo essermi asciugata gli occhi, prendo le sue mani, gelate, fra le mie.

“Ma smettila, se mi dicevi che venivi ti ospitavo io!”.

“Scusa, ma se te lo dicevo che sorpresa era?”.

Mi passo ancora una mano sulla guancia umida, poi conduco Rachie in casa. Rachie… già, è così che l’ho sempre chiamata. Chiudo la porta alle nostre spalle.

“Io… non ci posso credere”, continuo, tornando a osservarla sempre più convinta di avere davanti un ectoplasma.

La mia amica mi sorride dolcemente, come solo lei sa fare, poi volta la testa verso il salotto. E’ identico a come l’ho lasciato prima di andare ad aprirle, purtroppo.

“Ehm… scusa il casino, ho organizzato una piccola festa che mi è un attimo sfuggita dalle mani… ”, dico, un po’ imbarazzata.

Lei però ride, divertita.

“Non preoccuparti, capita spesso con le feste… eh eh. E poi sono piombata qui, sono io che mi dovrei scusare con te, Mara”.

Scuoto il capo con decisione. “Non pensarci nemmeno!”.

Ci allontaniamo dal soggiorno. Mi dispiace lasciare Elena così, ma una sorpresa del genere proprio non me la sarei mai aspettata. Mai.

“Mi avevi detto che non ti saresti potuta muovere da Londra per ancora un paio di mesi… il tempo di finire il libro… ”, dico, riempiendole un bicchiere di Coca-Cola e porgendoglielo. “Come hai fatto a trovare il tempo per venire in Italia?”.

Rachele beve un sorso, poi torna a guardarmi.

“L’ho finito”.

“Cosaa?”.

“Già, prima del previsto. Si vede che ero molto ispirata”.

A quelle parole, spalanco le braccia, felice. La abbraccio. 

“Ma è grandioso! E quando sarà pubblicato?”.

“Non lo so ancora con esattezza. Ma entro l’anno prossimo di sicuro”.

Mentre continuo a parlarle, vado a versarmi anch’io un bicchiere di Coca. Rachele è rimasta sempre uguale. Nonostante abbia ormai ventun’anni, il suo viso è sempre quello di una ragazzina, una ragazzina che solo pochi anni prima avevo conosciuto via Internet. Era la webmistress di un sito dedicato interamente alle opere e ai racconti di autori esordienti, che lei si preoccupava di raccogliere e diffondere per la rete. Di molti ne era l’autrice, e fu proprio dopo aver letto una delle sue storie che, entusiasta, decisi di scriverle per farle i miei complimenti. Da quella mail e da quelle che seguirono, io e Rachele iniziammo a diventare amiche inseparabili. E nemmeno tanto lontane, visto che poi scoprimmo che ci separavano solo pochi chilometri.

Sì, Rachele è davvero una scrittrice eccezionale. Leggere le sue storie è come leggere dei sogni, tanto belli, luminosi e chiari quanto reali, veri. Dei sogni incredibilmente concreti, ma non per questo tristi, noiosi o prevedibili, come lo sono oggi quasi tutte le cose terrene. Sono semplicemente ritratti vivi e palpitanti di persone, di ragazzi, di vite. Io, a quel tempo, ne ero rimasta semplicemente incantata, convinta che quella scrittrice in erba, giovanissima e incredibilmente dotata di talento, un giorno sarebbe arrivata lontano. Molto lontano.

Alla fine del liceo, lottò per conquistare una borsa di studio per andare a studiare lingue all’estero, vincendo anche in modo definitivo alcuni disturbi fisici che da sempre erano stati per lei come delle catene. E alla fine, ce la fece davvero. Partì per l’Inghilterra, e in questi tre anni non ha fatto altro che impegnarsi al massimo. Per studiare, e per scrivere. L’anno scorso, finalmente, un editore a cui aveva mandato i suoi racconti si è fatto sentire, accettando di pubblicarglieli. Visto il successo riscosso, non elevato ma comunque molto buono per una scrittrice sconosciuta e per di più così giovane, l’ha poi pregata di scrivere ancora. Un romanzo, però, non dei racconti. Roba grossa, mi aveva detto in una mail.

Sono veramente felice per Rachele. Veramente, veramente felice, perché di sicuro si merita questo e altro. E ora, che dopo tanto tempo è di nuovo qui, davanti a me, lo sono ancora di più.

“Voglio che tu sia la prima a leggerlo. Anche perché sei una dei protagonisti”.

Detto questo, tira fuori dalla grande borsa che ancora porta in spalla un corposo blocco di fogli stampati, tenuti insieme da una fascetta di carta. Lo appoggia sul tavolino di fronte a noi, poi alza nuovamente gli occhi su di me.

Io, incredula, la fisso.

“Io… cosa sono?”.

“Su, non fare quella faccia. Ti assicuro che ti ho resa bene, simpatica e con pochi difetti”.

“Non è per questo, è che… non credo di essere un soggetto interessante su cui scrivere”.

“Maruccia, non ti conosci abbastanza”.

Mi guarda con i suoi magnetici occhi nocciola, poi la sua espressione cambia. Si fa più dolce, forse anche più seria, per poi iniziare a parlare pacatamente.

“Ho scritto molto su di te. Sentivo che dovevo farlo, e quando ho iniziato non mi sono più fermata, fino alla fine. Sai, credo che sia anche merito tuo se sono arrivata fin qui”.

Per poco non scoppio a ridere.

“Ma io non ho fatto proprio nulla… senti, Rachele… ”.

“Lo so”.

Fa una piccola pausa, chiude gli occhi. Dopo pochi secondi sorride.

“… lo so. E’ grazie alle mie capacità e alla mia volontà se ce l’ho fatta… me lo dicono tutti. Ma ti posso assicurare che tu mi hai dato qualcosa. Forse si sarà trattato solo di qualche parola, o di una stupida sensazione che ho provato io, ma è andata così. Mara, mi sei stata vicino come da tempo nessuno aveva più fatto per me… nessuno ha mai creduto veramente che sarei riuscita a diventare qualcuno, e a vincere i miei limiti. Solo tu. Sei stata un’amica meravigliosa, e lo sei ancora. Ma, soprattutto, sei una ragazza con tanti sogni. E questo, è bellissimo”.

Alzo gli occhi. “Anche tu lo sei”.

“Tu sei speciale”.

Rimango in silenzio un po’. Non riesco a capire fino in fondo le parole di Rachele e, inspiegabilmente, divento un po’ triste.

“Chissà… forse, in un’altra vita, eravamo legate in qualche strano modo, eh eh… ”, mormoro, senza guardarla negli occhi.

Non posso vederla, ma credo che lei, invece, mi stia fissando.

“Devi avere più fiducia in te stessa”.

Continuo a restare in silenzio, non sapendo bene che dire. Non serve, Rachie… me l’ha già detto Sere, questo…

Per un po’ non diciamo entrambe più nulla, poi lei, forse intuendo il mio stato d’animo, decide di cambiare argomento.

“Sai, ho già qualche idea per il mio prossimo libro”.

“Davvero?”. Finalmente riesco a dire qualcosa.

Rachie annuisce, contenta del mio interessamento.

“Sì. Ho deciso che tratterà una storia d’amore. Però… sinceramente, mi manca un’idea originale. E non so proprio dove trovarla”.

Rimango qualche secondo a pensare, poi le sorrido.

“Non preoccuparti, vedrai che quando meno te l’aspetti ti verrà la giusta ispirazione. Sei un asso nel trovare la giusta ispirazione… ”. La guardo, ironica.

Lei mi ricambia l’occhiata.

“Mhh, già, soprattutto se del buon materiale a disposizione…”.

Mentre ridiamo, sento il campanile a pochi passi da casa mia suonare. Strano che riesca a sentirlo, in mezzo a tutto questo chiasso. Uno, due, tre, quattro, cinque. Sei, sette, otto, nove… dieci. Dieci rintocchi.

Sono solo le dieci, ma mi sembra di avere trascorso un secolo a parlare con Rachele.

Questa notte… questa notte non è ancora nemmeno iniziata.

Chiudo per un attimo gli occhi, concentrandomi sul battito del mio cuore, mentre il tempo sembra perdere i suoi confini per estendersi verso l’infinito. L’unica cosa che conta davvero, adesso, è quello che sento. Un presentimento. Lo stesso che, pochi giorni fa, mi aveva fatto alzare gli occhi al cielo per cercare delle risposte.

Provo ancora nostalgia, ma allo stesso tempo, mi sento bene. Mi sento veramente bene.

 

****

 

L’agitazione in soggiorno si è leggermente pacata, e io posso portarci Rachele per presentarle Elena, Noemi e Serena, più qualche altro amico. Incominciamo a chiacchierare, fino a che, verso le undici, arrivano sia i ragazzi di Noe e Sere che alcuni miei parenti. C’è anche Teo, che per tutto il giorno è rimasto a casa del mio cuginetto più piccolo, con cui va, inutile dirlo, d’amore e d’accordo. L’abbiamo spedito dagli zii giusto per evitare che intralciasse i miei piani festaioli, ma a quanto pare ne è stato felicissimo, visto l’infinito numero di giocattoli con cui è tornato a casa.

C’è qualche scambio di regali, poi, fortunatamente, tutta la gente che era per me semi-sconosciuta se ne va. Rimaniamo in pochi, e io posso finalmente tirare un sospiro di sollievo.

“Mara, l’anno prossimo una cena fra pochi intimi, d’accordo?”, mi dice Sere, lanciando un’occhiata critica alla sala. In effetti è ridotta in uno stato più che pietoso. Mi porto una mano alla fronte.

“Spiritosa, come se non me lo fossi già detto”, mormoro, tirandomi indietro una ciocca di capelli. “Beh, pazienza… ”.

Tutto ad un tratto mi rendo conto di quanto mi facciano male i piedi. Non riesco a portare i tacchi per più di qualche ora.

“Sentite, se non mi metto al più presto qualcosa di più comodo potrei anche morire”, dico, andando verso le scale. “Scendo subito, voi fate pure come se foste a casa vostra”.

“Io ho voglia di mangiarmi una fetta gigante di panettone”, esclama Noemi lanciando un’occhiata famelica al tavolo della cucina, dove è in bella mostra una forma familiare avvolta da carta argentata e da un nastro rosso. Mia madre e l'Ale si mettono a ridere, dopodiché la guardano.

“Ho capito, ho capito. Vado subito a dividere le cibarie”, le dice poi mia madre, sorridendole.

“Mhh, la adoro quando fa così, signora”.

Anche Elena e Rachele ridacchiano. “Sbrigati Mara, oppure non ti resterà niente!”, aggiunge poi Ele, mentre mio fratello le si butta sulle ginocchia per essere preso in braccio. Mentre mi allontano, sento mia mamma ricordargli che forse è diventato un po’ troppo grande per queste cose. Teo immancabilmente strepita.

Salgo i gradini lentamente, e ad ogni passo le voci dei miei amici si fanno sempre più lontane, come ovattate. Credo di essere un po’ stanca.

Arranco fino alla porta della mia camera. Dentro respiro un'aria strana, assomiglia un po’ a quella del negozio di Gustavo, come se fosse rimasta chiusa da giorni. Un profumo dolce, di cose passate e preziose.

Sarà un caso, allora, che proprio nel momento in cui penso a lui, cercando nella penombra gli stivaletti, il carillon che mi ha regalato si metta improvvisamente a suonare?

Mi volto di scatto, lanciando un'occhiata alla finestra. E' lì, sulla mia scrivania, a pochi centimetri dal vetro. Il giorno prima l'avevo caricato, ero rimasta tutta la sera ad ascoltare quella musica…

Poi la carica era finita. L'avevo lasciato aperto, ma la carica era finita… me lo ricordo bene.

Eppure…

 

[Win dain a lotica…]

 

Adesso sta suonando.

 

[... En vai tu ri... si lo ta...]

 

Sta suonando. E le parole della canzone mi compaiono nella testa, una lettera dopo l'altra.

 

[... Fin dein a loluca... en dragu a sei lain...]

 

Rimango nell’oscurità, immobile, a fissare la sagoma del carillon che si staglia contro il chiarore proveniente dalla finestra. E' molto buio, ormai, eppure c'è luce. Fioca, tenue…  ma non può essere quella dei lampioni, giù in strada…

E' una luce diversa. Una luce che ho già visto, cinque anni prima. In quella notte.

Quella notte senza fine.

Mi avvicino, quasi con timore. Non so definire con esattezza cosa sto provando, non ci riesco, ma qualcosa, o qualcuno, mi sta dicendo che devo guardare.

Cerco di mettere a fuoco qualcosa che si muove, attirata da una forza misteriosa. Sì, c'è qualcosa che si muove, lì dietro. Piccoli fiocchi, piccoli e fitti, cadono veloci oltre la superficie trasparente, quasi volessero inseguirsi. Brillano come lucciole, tanti bagliori candidi nella notte nera che mi assicurano, con un sussurro, che un ricordo è tornato.

Mi stringo nelle braccia, ma non ho freddo. Anzi, sento un calduccio piacevole, come quello che si prova nelle notti di temporale, sotto le coperte, in compagnia del proprio libro preferito. Nel mio caso, mi basta questa musica da fiaba, e la neve di una notte di Natale.

Non so se, sotto sotto, provi anche un po' di dolore. Forse, ma è di gran lunga superato da questa sensazione di incredibile pace, di serenità, che avvolge e penetra ogni fibra di me. E' quasi struggente, trascendentale. Non credo di aver mai provato nulla del genere, di così lancinante, forte e lieve allo stesso tempo.

Mentre rimango a contemplare quello spettacolo silenzioso, rapita perfino dal mio respiro, all'improvviso un rumore sordo mi fa sobbalzare.

Rimango qualche secondo a cercare di capire cosa possa essere stato, col cuore a mille per lo spavento, poi, voltandomi verso il corridoio, mi rendo conto che qualcuno deve aver suonato alla porta. Il fatto è che non mi sono mai abituata al suono che produce il campanello al piano di sopra.

Chiudo il carillon, spezzando con la melodia anche la magica atmosfera che si era creata dentro di me. Pazienza, mi dico, mentre mi infilo gli stivaletti. E' stata una cosa strana, però. Bellissima.

Scendo le scale, sentendomi tutta ad un tratto completamente sveglia. Le ragazze a quanto pare si sono trasferite in cucina, probabilmente a mangiare. Che morte di fame, proprio non mi hanno aspettato, penso, mentre i miei zii, dall'altra parte della sala, chiacchierano animatamente fra di loro. Sento una risata di mia madre, inconfondibile, poi le voci di Elena, Rachele e di Noemi. Faccio per dirigermi verso di loro, quando noto la porta all'ingresso spalancata. Ah, già, il campanello.

Arrivo sulla soglia, e scendo i due gradini che mi separano dal viale. La neve ha già ricoperto ogni cosa di uno strato leggero, appena un paio di centimetri. L'aria non è particolarmente fredda, non tira nemmeno vento.

Alzo lo sguardo. A qualche metro da me, vicino al cancello, scorgo una figura di spalle. Sembra Sere, e sta certamente parlando con qualcuno, anche se non riesco a vedere chi.

Mi incammino verso di lei con passo veloce, curiosa di sapere chi è arrivato. Tanto, ormai, stasera non mi stupisco più di nulla, mi dico mentalmente.

"Ehi!", li chiamo, tirandomi sulle mani le maniche della maglietta. "Perché non venite in casa?".

Nel momento in cui sente la mia voce, Serena si irrigidisce, e smette di parlare. Il misterioso interlocutore sta esattamente davanti a lei, e non posso ancora vederlo. Anche lui non dice nulla.

"Mara…", mormora poi Sere, ad un tratto.

Il suo tono è serio, così serio che mi fa paura. Sento un brivido percorrermi la schiena. Per un attimo, quello che ho provato pochi minuti prima in camera, davanti al carillon di Gustavo, ritorna violentemente dentro di me, concentrandosi in un solo, unico istante, così denso e luminoso da farmi quale male. E' amplificato, e cento volte più forte.

Sere si sposta.

"Ciao, Mara…".

Forse…

Forse è solo un sogno.

Si spiegherebbe tutto, sì.

E' sicuramente un sogno…

"Ne è passato di tempo".

Davanti a me, il paesaggio cambia improvvisamente, facendosi bianco e nero, come in un vecchio film.

Come quel pomeriggio, quando andai a prendere Teo a scuola. Tutto è immobile, come in un fermo immagine, ed io non riesco a proseguire. Prima, ho bisogno di ogni piccolo particolare, di ogni elemento di questa scena, perché voglio che rimanga per sempre nel mio cuore. E' troppo bella da lasciare andare, come una farfalla rara. Bella, unica e fuggevole.

Porto le mani alla bocca, e quello che può uscirvi è solo un nome sussurrato.

"Steph".

 

****

 

I fiocchi di neve son sempre più fitti. Ringrazio quel velo chiaro e opaco che mi separa da lui, a qualche metro da me. Almeno, così, non può vedere i miei occhi, lucidi.

Sere mi osserva. So cosa significa, il suo sguardo mi dice di parlargli, di non lasciar passare nemmeno un minuto, un secondo. Eppure ancora non ci credo. Come… come potrei farlo?

Un’apparizione…

E se fosse solo un’illusione della mia mente?

Penso ad ogni cosa. Mi passano per la testa mille scemate, poi tento di riacquistare un minimo di razionalità.

Inizio a studiarlo, senza fare un passo, ferma in mezzo al viale, stretta nelle braccia ma non più per il freddo. Tremo senza sapere perché, e solamente dopo qualche istante mi rendo conto che qualcuno, lassù, deve aver ascoltato dei desideri che non avevo mai creduto si potessero realizzare.

Far tornare un ricordo. Una notte di cinque anni prima. Una lunga, interminabile notte, insieme a dei sogni grandi come quel cielo stellato, i desideri di due persone che andavano incontro all’ignoto, lungo strade diverse. Una piena di fiducia nel futuro, l’altra terrorizzata da ciò che avrebbe portato. Terrorizzata di proseguire da sola, senza l’altra. Terrorizzata all’idea di non rivederla più.

“Steph… ”, ripeto ancora, felice, puramente felice di risentire il suono di quelle lettere, di risentirlo nell’aria fredda della sera, fra la neve, di vedere il suo nome diventare vapore col mio respiro, ancora una volta.

Lui sembra aver capito. Si è accorto di quello che provo, e non dice nulla. Mi guarda sorridendo, in un modo così dolce, così lieve che non posso fare a meno di provare il desiderio di gettarmi su di lui.

La sua figura è slanciata, avvolta da un cappotto color seppia, del tutto simile a quello che indossava l’ultima volta che ci eravamo visti. A quanto pare, per mia gioia, ha davvero abbandonato i piumini degli anni delle medie.

“Io… io torno dentro… ”.

Sento appena la voce di Serena, che con discrezione si allontana da noi. Chiude piano la porta.

Steph tossisce, e abbassando un poco gli occhi accenna un sorriso.

“Lei… ”, prende a mormorare.

“… ci ha voluto lasciare… da soli, sì”.

Riesco a parlare di nuovo. Però una frase migliore la potevo anche dire…

“Ehm, cioè… ”. Tento di correggermi, ma è troppo tardi. Spero ardentemente che lui non abbia capito male.

Ma in fondo chissene frega, mi dico poi. Stephen è qui. Qui. Davanti a me.

Cos’altro può importare?

“… sì?”.

“Beh… volevo dire che… che… tu… ”.

Non balbettare come un’idiota… dio santo, parlagli!!

Avanti! Diglielo… digli che lui ti è mancato e…

“Anche tu mi sei mancata, Mara. E molto”.

Il suo tono è cambiato, d’improvviso. E’ una di quelle cose che non ti aspetti… no, che decisamente non prevedi. O che prevedevi solo nelle tue fantasie più belle.

Che ti fanno avvampare nonostante gli zero gradi, e l’aria gelida che ti graffia il viso.

Come se non bastasse, ci sono anche quei venti, miseri centimetri che distanziano il suo viso dal tuo. Si sono ridotti a venti dai novanta buoni che erano fino a poco prima grazie ad un rapido avvicinamento da parte sua, di cui tu non ti sei resa minimamente conto. Ovviamente.

“I-io… ”.

Dio santo… sento il suo profumo.

E appena mi abbraccia, percepisco anche il suo calore.

“Sei sempre la stessa. Non sei affatto cambiata”.

Mi stringe con forza, ed io, col naso nel suo petto, sento le parole arrivarmi ovattate ma dolci, scandite in un mormorio rassicurante, un tono soffice, morbido, che da tanto non sentivo. Mentre chiudo gli occhi, la sua mano affonda fra i miei capelli.

“Ehi… ”.

Mi allontana, e io, un po’ delusa, lo guardo.

“Che… che c’è?”.

“I capelli… ecco cosa c’è di diverso!”.

“Eh?”.

Mi tocco la testa, senza capire a cosa si riferisce. Probabilmente cinque anni fa non li avevo così. Ma anche se ricordo benissimo com’era lui, non riesco a visualizzare me.

Steph mi vede sorpresa, e ridendo prende una ciocca fra le dita.

“Una volta non eri rossa. Eri bionda. Ma nonostante questo ti ho riconosciuta subito quando ti ho vista”.

Mi rivolge un altro dei suoi sorrisi dolcissimi. Io mi sento di nuovo andare a fuoco, ma  stando fuori, di sera, non dovrebbe notarlo. Lo spero. O forse lo spero.

“Non… non ricordavo di averli tinti dopo che te n’eri andato”, dico, la voce un po’ tremante. “Sai… alla fine, dopo un po’ che li tieni così, ti sembra di averli sempre avuti rossi. Cioè… per me, è così”.

“Ehehe, immagino. Comunque stai benissimo. E sei anche più alta”.

“Ah… grazie. S-sì, anche tu… in fondo son cinque an… ”.

“E più carina”.

Altro colpo inaspettato. Se non avessi diciotto anni e non fossi in piena salute, crederei di stare per morire d’infarto.

Carina?? Carina, io?

Ma… ma… ma ci vede?? Forse col tempo ha iniziato a soffrire di miopia.

La verità è che… che non riesco a tirare fuori una sillaba. Insomma, questa era meglio se non la diceva. Cioè, è bello che l’ha detta, anzi, bellissimo, però io…

Io…

“Perché… sei tornato?”.

Giusto. Perfetto. Allontaniamoci abilmente dall’argomento prima che la cosa si faccia davvero troppo emozionante per il mio povero cuore… e comunque, questa è la prima cosa che voglio sapere. Che ho bisogno di sapere.

Inizio a camminare, ficcando le mani nelle tasche dei pantaloni. Dopo qualche secondo, però, non ricevendo risposta da Steph, mi fermo.

Lui è ancora immobile, sul vialetto. Sembra concentrato, sta pensando a qualcosa.

“Senti… ”. Mi restituisce lo sguardo, serio. “Che ne dici di… fare una passeggiata?”.

Io annuisco, leggermente preoccupata dal suo cambio d’espressione.

“Ok. Entro… a prendere il cappotto”.

 

****

 

Le vie sono piuttosto animate. Dalle mie parti festeggiare il Natale significa stare tutti insieme per le strade fino a notte fonda, a cantare e a scambiarsi regali. Una tradizione che adoro, e che ho sempre rispettato, tranne per l’appunto quest’anno. O magari posso dire di starla rispettando in parte visto che adesso sono a braccetto di Steph, illuminati dalle luci appese ad ogni angolo dell’ampia strada che stiamo attraversando. E’ una bella sensazione, magica.

“Mi è mancato tutto questo”.

“Cosa?”.

“Questa atmosfera. C’è solo qui”, dice, come se mi avesse letto nel pensiero. Mentre una nuova melodia natalizia si diffonde nell’aria, improvvisamente mi sento le gambe molli, senza forze, e sorreggendomi a lui cerco di stare in piedi. Credo di essermi resa conto solo adesso della reale situazione in cui mi trovo.

Del fatto che siamo io e lui, ancora una volta, sotto la neve, sotto le stelle, e le luci del Natale.

Io, e lui…

Come una volta.

“Mara… ?”, mi dice ad un tratto, fissandomi sorpreso. “Sei sbiancata…”.

“Eh? No, no… t-tranquillo… è solo un po’ di stanchezza”.

Ricomponiamoci. Assumi un’espressione normale… calma… perché dovresti agitarti?

Attimi di silenzio. Steph torna a guardare davanti a sé. Tiro un sospiro di sollievo.

“Sai… in America… era tutto molto diverso”, riprende. “La gente… beh, sì, era gentile, allegra… ma non poteva darmi lo stesso calore del posto in cui ero nato. E poi, anche se ero con la famiglia di mio padre, non mi sentivo a casa”.

Si ferma, e alza il viso. Nei suoi occhi castani si riflettono i bagliori delle luci intorno a noi.

“Ed è per questo che sei tornato?”, domando.

Lui si gira, e scuote debolmente la testa. Sorride con una lieve malinconia.

“Oh, no. Anche se spesso avrei voluto farlo, per questo”. Fa una pausa. “Non sai quante volte”.

Dicendolo, mi trapassa con un’occhiata. Un’occhiata intensa.

“Sul serio?”.

“Certo”.

Non mi accorgo di essere persa negli occhi di Stephen finché delle grida festose non giungono da dietro. Ci scostiamo per far passare una comitiva che sta cantando allegramente, forse fin troppo. Alcuni sono infatti un po’ brilli, e ridono come pazzi. Nemmeno fosse l’ultimo dell’anno, penso, squadrandoli severa.

All’improvviso uno di loro mi urta, facendomi quasi cadere a terra. Fortunatamente, Steph mi afferra al volo. Con mia grande gioia, in tutti i sensi.

“Gra… grazie”, mormoro, rimettendomi in posizione eretta.

“Figurati”. Ridacchia. “Ecco, questa è una delle cose che mi sono mancate. Mara imbranata!”.

Lo fisso.

“Mi stai prendendo in giro o è solo una mia impressione?”.

“Mh, da cosa lo intuisci?”.

Scoppiamo di nuovo a ridere entrambi, poi riprendiamo a camminare.

“Avanti. Fai il serio per un attimo”, dico, tornando ad essere agitata.

Lui non risponde subito, ma fa un profondo sospiro.

“Ecco… cinque anni fa, come sai, me ne sono andato per poter frequentare l’Accademia Aeronautica… ad Atlanta, dove abitavano i parenti di mio padre. E dove mio nonno aveva realizzato il mio stesso sogno”.

A quelle parole, pronunciate in modo lento, cauto, inizio a ricordare. Già. Era stato grazie a suo nonno se Steph aveva iniziato ad amare il volo, fin da bambino. Ricordo bene di come mi raccontava entusiasta di lui, delle imprese che aveva compiuto in guerra e dei guinness che aveva battuto prima per divertimento, poi per sfide personali. Era stato un uomo fantastico, di sicuro. E che per Stephen aveva rappresentato moltissimo.

“Si… ricordo che me l’avevi detto”, mormoro, osservandolo. Improvvisamente mi sembra che si sia intristito.

E credo anche di sapere il motivo, di quella tristezza.

“Era per mio nonno che dovevo farcela. Dovevo… ”.

“Ti è mancato molto… vero?”.

“Moltissimo”.

Mi viene da stringermi ancora di più a lui. So che è forte, ma so anche che ancora oggi prova un grande dolore per la morte di suo nonno. Lo so, perché è lo stesso dolore che provo ancora io per quella del mio, e per quella di mio padre.

La sofferenza per la perdita di una persona amata, di un punto di riferimento, è immensa. Soprattutto se è inaspettata, improvvisa. Ti logora dall’interno, porta via una parte di te, e fa male. Anche se all’inizio sei convinto di poterla superare, non ne sarai mai capace davvero. Sì, magari un giorno si trasformerà in qualcos’altro… ma molto difficilmente sarà un sentimento diverso dalla malinconia.

E poi, quando crederai che sia finita, essa muterà in rimpianto. In mille rimpianti. E quelli, sono ancora più terribili.

“Steph, tutto bene?”.

Cerco i suoi occhi, ma lui li chiude, scuotendo la testa.

“Si… si. È stato un attimo… così, ora mi passa”.

“Ok… ”.

“E’ che… lui non doveva andarsene in quel modo. E’ stato un errore dei meccanici, non è stata colpa sua, però non… lo saprà mai”.

“Steph, io non credo che abbia pensato a… ”.

“Ma è morto credendo di essere stato tradito dalla sua stessa passione. E anche mio padre ha sempre pensato la stessa cosa, pur sapendo la verità. Il volo aveva ucciso mio nonno, e avrebbe fatto lo stesso con me, se avessi seguito le sue orme. Una folle ossessione, secondo lui”.

La sua voce non trema, ma per un attimo si ferma.

“… Avrei… avrei voluto imparare tutto da lui. Tutto quello che sapeva”.

Si porta una mano alla bocca, come per impedirsi di continuare a parlare.

Io sono sorpresa. Non credo di aver mai visto Steph parlare di suo nonno in questo modo, anche se non è la prima volta che mi racconta di come è morto. Forse… forse c’è qualcosa in più, che non so.

L’unica cosa che spero è che… non sia ancora più dolorosa.

Ma devo saperlo. Assolutamente.

“Tu… sei riuscito comunque a diventare come lui… ”, dico con voce incerta e bloccandogli il passo. Lo fisso. “… vero?”.

Un sospetto, nella mia testa.

Terribile.

Guardami Steph. Guardami.

Ti prego.

“… vero?”, ripeto, a voce più bassa, prendendogli un polso.

Lui reagisce al mio tocco. Leva la mano dal viso, e nella penombra riesco a vedere un sorriso triste. Tirato.

“Mara… ”.

“… sì?”.

“Grazie. Hai sempre creduto in me. Sempre”.

Solleva finalmente la testa, e quando noto il modo con cui mi sta guardando, sento una corrente calda che mi attraversa il corpo.

 

Vero, semplice, chiaro. Ecco come sei. Un’anima pura, e trasparente.

 

Nella mia mente si riformano le stesse parole che pensai nella notte in cui partì. Ricompaiono d’improvviso, nitide. E mentre osservo i suoi occhi castani per la prima volta lucidi di lacrime trattenute con fatica, mi rendo conto che forse il futuro che aspettavamo con tanta fiducia anni fa aveva fregato entrambi. Aveva deluso entrambi, e ci aveva feriti.

Sì… lo so. Adesso lo so.

I tuoi occhi non possono dire il falso…

Non hanno mai detto il falso.

“Ti prego… non piangere… ”.

La sua mano è calda… e la pelle talmente liscia, morbida…

Dio… sei davvero un angelo.

Con estrema delicatezza asciuga le lacrime scese sulla mia guancia.

“… Mara… ti prego… ”.

E per questo… non doveva succedere.

No, non a te.

Non tu.

 

Volevo che le tue certezze diventassero reali.

Non m’importava di nient’altro. Eri imprigionato, e desideravi soltanto volare.

 

“Per… perché… ”.

Tutto si è fatto silenzioso, non c’è nemmeno una canzone nell’aria. E la neve ha ripreso a scendere, più fitta.

Cade sul mio viso, su quello di Steph. Si confonde con le mie lacrime, diventando acqua.

“Mio padre… lui, alla fine ha ceduto, e mi ha lasciato entrare nell’Accademia. L’ho frequentata per quattro anni, e sembrava che tutto andasse bene, ma poi… ”.

Delle note lievissime ricominciano a diffondersi, molto debolmente. Cerco di capire cosa siano, ma non riesco a concentrarmi su nient’altro che la voce di Stephen.

Sul suo respiro, sui suoi occhi. Sulle sue labbra bellissime, che so stanno per dirmi qualcosa che non vorrei mai sentire, ma che ho bisogno di conoscere.

“… sei mesi fa… ho dovuto andarmene. Sono stato male… durante un’esercitazione”.

Ecco cos’è…

Silent Night.

Sì… è Silent Night.

Quest’anno… non l’avevano ancora suonata.

I rintocchi del campanile risuonano nella città. Manca mezz’ora alla mezzanotte. La melodia si fa più alta, unendosi al rumore prodotto dalle campane.

“Stato… m-male… ?”.

Porto le mani al viso, mentre dei singhiozzi che non riesco a fermare mi bloccano le parole in gola.

Non dovrei piangere io.

Perché… lo sto facendo?  

“… io… ho una malattia al cuore, Mara. Una malattia che mi ha impedito di raggiungere il mio sogno, il sogno a cui mio nonno aveva sperato che arrivassi. E’ per questo che sono tornato. Rimanere lì… non aveva più alcun senso, ormai”, mi sussurra, stringendomi improvvisamente a sé, come per proteggermi dalla violenza di quelle orribili parole.

Il suo cappotto è un po’ ruvido, ma fra le sue braccia riesco a smettere di piangere. Con la testa appoggiata sul suo cuore, un cuore che, anche se malato, batte…

Batte…

Sembra così forte, questo petto. Così ampio, resistente. E la sua stretta così calda, sicura.

 

Volevo vederti felice. Vittorioso, trionfante.

Vedere le tue dita alzate al cielo.

Volevo che le tue certezze diventassero reali. Non mi importava nient’altro.

 

“Steph… tu… hai sofferto”, mormoro,  continuando a stringerlo. “Mi dispiace… non lo meritavi… tu non lo meritavi… ”.

“Ma che dici… ”. Dolcemente, mi passa ancora una mano tra i capelli. “Non è questione di meritarlo o non meritarlo. E’ capitato, e basta”.

Mi scosta piano da lui, poi mi guarda. Sta tentando di calmarmi, lo so, e lo adoro per questo. E’ sempre stato così. Voleva essere sempre sicuro che io stessi bene…

Mi asciugo le lacrime, ma non alzo la testa. Non ci riesco, ancora.

“Sai… ci ho pensato a lungo”, riprende, con tono apparentemente sereno. “Quando mi sono risvegliato in ospedale, in quella stanza asettica… dai muri bianchi, da essere quasi accecanti… è stata la prima cosa che mi è venuta in mente. Davvero. Stava andando tutto troppo bene… mio padre non aveva più cambiato idea, ed io ero il primo del corso. No, era tutto troppo perfetto. Proprio come avevo sognato”.

Socchiude un po’ gli occhi, in modo infinitamente malinconico.

“La vita però non è sempre un sogno, e ti riserva un’infinità di sorprese… anche brutte. Qualcosa che non prevedi. E quando capitano, non ci puoi fare nulla”.

Fa una pausa, poi mi alza il mento con una mano, costringendomi a fissarlo.

“L’unica cosa che si può fare è reagire. Crogiolarsi nei propri guai non serve. Mi dispiace solo che… beh, forse ti ho deluso. Di certo ti aspettavi molto di più da me”.

Rimane in silenzio, guardandomi. Forse attende una risposta, ma io non so cosa dire.

Mi sembra che trascorra un tempo interminabile, mentre sono lì, in piedi davanti a lui, in mezzo a quella strada semideserta, con i capelli inzuppati di neve e il viso gelato.

Penso al perché non mi sento sollevata da quello che ha detto. Perché provo un’amarezza profonda, nonostante le sue parole.

 

Io, mi ero accontentata di poco.

Che i tuoi sogni, fossero anche i miei.

Entrambi… saremmo saliti entrambi sul podio.

Non è vero?

 

Già.

Il suo sogno era anche il mio. La sicurezza sulla sua realizzazione era diventata una mia certezza incrollabile. Qualcosa che mi aveva rincuorata e confortata quando i miei, di sogni, non si erano realizzati.

Più precisamente, quando non avevo nemmeno provato a raggiungerli. A credere che ce l’avrei fatta.

 

Eri perfetto. Una creatura non terrena.

 

Credevo ciecamente in Steph.

Avevo fatto affidamento solo su di lui, il mio idolo, il mio angelo, la persona che amavo… caricandolo inconsapevolmente della responsabilità sulla mia felicità. Ed è stato questo il mio errore. Un mio madornale, egoistico errore.

Senza saperlo, aspettavo il giorno in cui sarebbe tornato, vincente, per potermi sentire finalmente vincente anch’io.

E intanto? Intanto che avrei fatto? Probabilmente avrei vissuto una vita passiva, monotona, tranquillamente seduta dietro ad un finestrino dove avrei guardato il mondo scorrere via, senza mai provare a scendere dal mio sicuro autobus per esplorarlo.  

 

Lottavo solo con te. Solo per te. Ma, per me stessa, non ho mai combattuto.

 

Era stato comodo. Ecco com’era stato…

Comodo.

Convincermi che non sarei mai stata felice se lui non fosse tornato da me, insieme al suo sogno, realizzato. Non ci avevo mai pensato, prima. 

E se lui non fosse riapparso così, all’improvviso… con questa notizia, io… forse, l’avrei aspettato per sempre. Senza vivere davvero, senza fare il minimo sforzo per realizzarmi, per cercare la mia felicità… e senza rendermene conto.

Perché avrei aspettato di condividere la sua.

Avrei aspettato di mettermi il cuore in pace.

 

A quei tempi, io ho sempre visto voi due… come dire… beh,  praticamente uniti.

Avevo difficoltà nel considerarvi separatamente… eh eh, eravate proprio in simbiosi.

 

Sere se n’era accorta. Già allora. Io non mi separavo mai da Steph…

Sì, gli volevo bene, e gliene voglio ancora adesso, dio se gliene voglio… ma forse avevo confuso troppo spesso la mia ammirazione per lui con ciò che amavo di lui. Credevo che mi spettasse di diritto una parte della sua felicità perché sostenevo le sue aspirazioni, ma mi sbagliavo.

Io…

Io non avevo il coraggio di vivere la mia vita senza Steph.

I miei fallimenti e i miei errori, le mie conquiste e le mie vittorie. Anzi… credevo che le seconde non ci sarebbero mai state, per me.

 

Io e lui eravamo molto diversi.

Steph aveva grandi aspirazioni, e dei sogni che io non potevo nemmeno immaginare di raggiungere.

Non sono mai stata forte e determinata come lui, e di sicuro non era una come me che cercava.

 

Avevo passato questi anni a denigrarmi, a ripetermi che non sarei mai diventata nessuno. Perché lui era troppo in alto, ed io sarei sempre rimasta indietro.

Eppure mi piaceva vivere nella sua ombra. Sempre inconsapevolmente, ma mi piaceva.

Solo adesso lo so…

Sono un’egoista. Una schifosa egoista.

L’aria si è fatta ancora più gelida. Ha smesso improvvisamente di nevicare, probabilmente perché la temperatura è scesa sotto lo zero. Ma io non ci faccio caso.

“Mara… ?”.

Non m’importa.

“… Mara, perché piangi?!”.

Saranno passati uno, forse due minuti, da quando ho smesso di parlare. Uno o due minuti da quando mi son resa conto di che razza di persona ero stata. Di che razza di persona sono.

Forse lui non potrà mai capirlo. E di certo nessuno si sarebbe mai accorto di nulla, anche se non me ne fossi accorta io.

Ma adesso, in questo preciso momento, vorrei sparire. Non essere mai nata.

“Mara??”.

Sono una persona fallita. Morta dentro.

Che non ha voglia di vivere, che non ha voglia di lottare per se stessa.

Chi potrebbe volermi accanto?

Sento le mani di Steph circondarmi il viso, la sua voce mormorarmi di guardarlo, chiedermi se sto sento bene, se ha detto qualcosa che non va. Io scuoto la testa, ma non so cosa dirgli per spiegargli cosa c’è, che non va…

 

Steph credeva in te, e per un po’ anche tu avevi iniziato ad aver fiducia in te stessa…

Poi, però, dopo che se n’è andato, tu hai mollato. E sei tornata ad essere la vecchia Mara… insicura, e triste.

Stephen tirava fuori il meglio di te, questo è certo.

 

Io… ho davvero bisogno di lui per convincermi di poter diventare qualcuno?

Di vivere come un parassita, attaccata alla sua schiena, per trarre la forza che mi serve per vivere?

 

Ma io so che anche ora potresti tirare fuori tutte quelle doti che ti rendono Mara - al - massimo, sempre…

E non solo in pochi, rari momenti.

 

“Steph… i-io… ”.

Deglutisco, cercando di finire la frase.

“… scusami. Scusami, se puoi. Non… non sei tu che mi hai deluso. Sono io… che probabilmente ho deluso te”.

A quelle parole, lui aggrotta la fronte.

“Ma cosa dici… perché tu mi avresti deluso?”.

“P-perché… ”.

La voce mi si incrina. Scoppio a piangere di fronte a Stephen, pensando di essere veramente troppo debole per stare a questo mondo. Non voglio sapere con che occhi mi sta guardando…

“… io… in tutto questo tempo, non ho fatto nulla per raggiungere ciò che desideravo. Non ho lottato. Non ho nemmeno provato a farlo, mentre tu… ”.

Mi fermo un attimo per prendere aria. Mi arriva in gola con violenza, pesante e pungente, facendomi male, ma a questo punto non posso più fermarmi.

Se lo facessi, sarei costretta, ogni giorno, ad incontrare negli occhi di Steph i miei sensi di colpa.

La mia inutilità. La mia codardia.

Continuerei a rivedere come l’ho ingannato… come mi sono illusa, io, di poter essere felice.

“… tu sei arrivato fin qui… da solo, senza arrenderti mai. E anche adesso… non ti scoraggi, nonostante tutto, sei capace di riprenderti, mentre io… non ce l’avrei mai fatta. Mi sarei lasciata andare, subito, al primo ostacolo. Alla prima delusione”.

Mi copro gli occhi con una mano. Non riesco a tenerli aperti.

Le lacrime, queste maledette lacrime non mi fanno più vedere nulla.

“Quando… quando prima mi hai detto della tua malattia, mi son… sentita morire. Credevo in te. Ho sempre creduto solamente in te, perché io… in prima persona, n-non avevo la forza di mettermi in discussione. Sono stata un’egoista, Steph… l’ho capito solo adesso, e ti chiedo di perdonarmi, se puoi. In un certo senso… ti ho usato, e per di più… ”.

Scuoto la testa, sfregandomi le palpebre violentemente.

“… non sono riuscita ad arrivare sul podio come una volta dicevi avrei fatto… non sono arrivata in alto insieme a te. E non credo nemmeno che riuscirò a farti quella dedica che… che ti avevo promesso nella mia prima… opera seria. Perché non ci sarà mai”.

Mi fisso le mani. Le apro, poi le richiudo, continuando a guardarle come se non le avessi mai viste prima. Il colore della mia pelle è chiaro, quasi cadaverico.

E’ tutto così triste. Talmente triste.

“Sono una persona vuota, Steph. Non ho sogni, non ho la forza di realizzarli. Non ho nulla da mostrarti con orgoglio. Non ho il tuo coraggio. Non ho nulla”.

Sento i capelli, ormai simili a pezzi di ghiaccio, continuare a sfiorarmi la pelle del viso, chino a fissare il terreno. Chino a fissare le mie mani, che si stagliano sull’asfalto nero della strada.

Non dovrebbe fregarmene nulla, ma invece quelle maledette ciocche scompigliate mi danno fastidio. Faccio per scostarle, ma prima che le mie dita, diventate quasi insensibili, raggiungano la testa, altre arrivano a bloccarle.

“Stai gelando”.

Sento a malapena il suo contatto.

“Ma dentro so… che sei calda. E coraggiosa. E piena di sogni bellissimi”.

Steph accosta lentamente le mie mani alla sua guancia, e chiude gli occhi. Come se sentisse fluire qualcosa dal mio corpo, rimane così per un lungo, lunghissimo momento, mentre io, probabilmente con un’espressione da pesce lesso dipinta sulla faccia, sono immobile. Noto con la coda dell’occhio una coppietta che ci fissa, e mi viene da ritirare il braccio.

Sto andando a fuoco per l’imbarazzo, ma non so, in realtà, se mi importi davvero.

Perché qualcosa, dentro di me, ha cominciato a sciogliersi.

“Non è sbagliato sostenersi. Non è sbagliato attingere forza da chi hai accanto”.

Ha riaperto gli occhi, e sta continuando a tenermi le mani fra le sue, anche se ora le stringe al petto.

“Non è… sbagliato?”, balbetto. “Ma… ”.

“Ciò che è sbagliato è non tirare fuori il meglio di sé”. Scuote la testa con un sorriso. “Tu… hai così tante qualità, Mara. Credi di non essere forte, di non saper lottare, di non saper camminare con le tue gambe, ma ti sbagli. Semplicemente, non hai mai voluto rischiare provandoci. E questo è umano. Tutti hanno paura… di non riuscire, di non arrivare, di non realizzare ciò che han sempre voluto. Di deludere chi li ama, se i livelli che raggiungono non sono i più alti. Nonostante quello che hai sempre pensato, tutto questo è successo anche a me”.

Fisso le nostre mani, e sollevo timidamente gli occhi.

“Sul serio?”.

“Sì. Prima che mio padre mi permettesse di entrare in Accademia. Era lui che avevo paura di deludere, allora. E credevo di non essere abbastanza forte per continuare ad insistere”.

“Ma io… ”.

“Serena”, mi interrompe, alzando di poco la voce. “Mi ha… detto una cosa”

Lo fisso, stavolta stupita. Che diavolo gli hai detto Sere, penso con un certo timore, ma venendo subito consolata dal fatto che son sempre in tempo dopo a spezzarle le braccia.

“Che… che cosa?”.

“Del concorso. Il premio che hai vinto qualche giorno fa”.

Mi libero dalle sue mani con uno scatto, e i miei pensieri lasciano subito Serena. Faccio qualche passo in strada nel tentativo di allontanarmi, di non guardarlo negli occhi, ma lui mi trattiene. Mi abbraccia da dietro d’improvviso, ed io mi ritrovo bloccata.

Sento il mio cuore iniziare a battere di nuovo come un tamburo. Forse so, forse credo di capire cosa sta per succedere. E’ una di quelle cose che non si possono spiegare. Uno dei miei soliti presentimenti, così tanti, infiniti in questo periodo, e dei quali ho imparato a non stupirmi più.

Percepisco il suo respiro caldo che mi sfiora il collo, e di colpo mi sembra tutto ovvio. Così naturale, e giusto.

Perfino la mia solitudine negli anni passati, i miei egoistici errori, la mia passività verso una vita che non avevo saputo come prendere mi sembrano in un istante semplicemente tasselli, pezzi di un gioco. Un gioco che era stato deciso da tempo, e nel quale, ora, mancava un unico elemento.

Perché, probabilmente, mi serviva solo un piccolo aiuto per capire qual era l’ultimo passo da fare.

La malattia di Steph, e il suo ottimismo.

Il suo ritorno.

 

Ai sogni ci si arriva poco alla volta, ma con costanza.

So che sei capace di essere forte, se lo vuoi.

 

Mi ero solo fermata. Una piccola pausa durante la mia scalata.

Alla fine, anche senza Stephen avevo raggiunto qualcosa. Ma solo per me. Inconsapevolmente, avevo partecipato a quel concorso perché lo volevo, perché desideravo provare a me stessa che avevo volontà, passione, voglia di mettermi in gioco.

Per provare a me stessa che ero viva, e che volevo vivere davvero.

Non avevo mai smesso di avere sogni. Un essere umano non può vivere senza sogni, è questa la verità. E se è solo, disperato, angosciato, sono l’unica cosa che gli rimane, la sua unica forza e l’unica che gli può permettere di risollevarsi da terra dopo una caduta.

Lo sapevo già. L’avevo sempre saputo, e mi mancava solo chi me lo facesse ricordare.

“Adesso…”.

E’ così vicino al mio orecchio, così tanto che il suo è solo un bisbiglio. Mi allontana i capelli dal viso con una mano, ed io cerco il suo braccio intorno alla mia vita per stringerlo ancora di più a me. Dopo pochi secondi, però, entrambi capiamo che non ci basta. Mi giro lentamente. Non voglio che la stretta si allenti, ma Steph non sembra intenzionato a fare nulla di simile.

“… adesso, potrai dedicarmi la tua opera pluripremiata, non è vero?”, mi chiede piano.

Io sollevo il viso, sorridendo divertita, anche se col cuore in gola. Sull’orlo delle lacrime.

“Davvero vuoi una dedica su quella? Guarda che è una storia piuttosto stupida… comica direi. Di serio non ha molto…”.

Lui mi sfiora la fronte con le labbra e socchiude gli occhi facendo una piccola risata, che mi solletica la pelle.

“Uhm, allora non posso proprio perdermela. E se proprio devo scegliere…”.

“S-sì?”.

Mi prende il viso tra le mani. I suoi occhi luminosi, leggermente allungati, mi penetrano fin nel profondo dell’anima. E mentre penso che non avevo mai, mai provato una sensazione del genere, vengo scossa da un brivido.

“… preferisco conferire un altro premio a questa deliziosa autrice esordiente”, mi sussurra malizioso. Avvicina la bocca al mio zigomo, poi, con una lentezza esasperante, inizia a scendere e a spostarsi verso il centro.

“Anche se non per il suo talento… ”.

Deglutisco.

“Ah… no?”, mormoro. La voce mi trema.

“No”, ripete lui. “Ma per qualcosa … di molto più importante”.

Finalmente le sua labbra raggiungono le mie, e non mi stupisco di sentirle morbide, perfette. E’ un bacio dolce, lungo e dolcissimo, ed il suo profumo mi entra nella testa, facendomela girare.

Mi sembra di essere tornata agli anni delle medie. Ad un preciso, particolare e meraviglioso pomeriggio di primavera.

Anche lui deve aver pensato lo stesso, visto quello che mi dice quando si stacca.

“Uhm, tutto questo mi ha ricordato qualcosa…”.

“Anche a me. Ma meno male che non mi hai dato un altro bacio sulla fronte, se no me ne sarei andata, te lo assicuro”.

Ride, poi mi copre di nuovo le labbra più volte, con piccoli baci leggeri.

“Questi vanno decisamente bene… ”, sussurro “… molto, molto bene”.

“Quindi la signorina è soddisfatta del premio?”.

“Mh, direi di sì”.

“Bene… perché questo è solo l’inizio”. Fa un’altra risata. “Mancano ancora i regali di Natale”.

A quelle parole abbasso lo sguardo, e affondo il viso nel suo collo. Devo essere più rossa del Babbo Natale all’angolo della strada.

“Sono felice”. Sento gli occhi inumidirsi di nuovo, e le guance scottano, anche se l’aria è sempre gelida. “Ma tu… insomma, la tua malattia non… ”.

“Posso guarire”.

Torno a guardarlo.

“Davvero?”.

Stephen sorride. Annuisce.

“In America mi hanno detto che ci sono delle probabilità che un intervento possa rimettere a posto le cose. E se tutto va bene, potrà anche farmi tornare a volare. Non è detto che riesca, ma è comunque una speranza. Non voglio buttarla”.

Rimango in silenzio, dicendomi che poteva anche dirmelo prima. Ma anche che, visti gli ultimi sviluppi, posso anche perdonarlo.

“Resterò qui in Italia per un lungo periodo, penso”, continua poi, interrompendo i miei pensieri. Mi passa una mano tra i capelli, ed io lo fisso speranzosa.

“Quanto… quanto lungo?”, mormoro.

“Mesi… probabilmente anni. Il tempo di vedere se posso fare l’operazione, eventualmente di riprendermi e di… ”. Si ferma un attimo, portando una mano al mio viso. Lievemente, mi accarezza una guancia con le dita, e con i suoi occhi da cucciolo prende ad osservarmi come si mi stesse guardando per la prima volta.

“… decidere cosa fare con le… novità del mio ritorno qui. Con una, in particolare”. Allunga le labbra, scoprendo i denti bianchi e perfetti in un sorriso allusivo.

Io gli stringo il polso, non potendo fare a meno di ricambiargli quello sguardo.

Mentre rimaniamo così, inizio a convincermi che i miracoli di Natale possano avvenire sul serio. Non so perché, ma mi ritrovo anche a pensare che forse, a casa, si staranno preoccupando per la mia improvvisa scomparsa.

Ridacchio. Chissà a che starà pensando Sere… uhm, probabilmente che io e Steph ci siamo imboscati da qualche parte. Anzi, scommetto che sarà pure andata a raccontare tutto a Noemi.

Le immagino sedute sul divano, impegnate a prendermi in giro e, rassegnata, scuoto la testa con un sospiro.

Steph cambia invece espressione, fissandomi senza capire.

“Perché ridi?”.

“Niente, niente… ”.

Fa per replicare, ma io lo prendo per mano e tirandolo per la strada torniamo a camminare.

“Dove vuoi andare?”, mi domanda ridendo. Io non dico nulla. Allora comincio a correre senza preavviso, e Steph a ridere più forte. Fra una falcata e l’altra, rischiamo continuamente di cadere.

Sento il vento freddo sulla pelle. La musica farsi alta, chiara, arrivando ovunque in quella strada piena di luci colorate, vive, calde. Dentro di me, una sensazione stupenda, e la voglia incontenibile di gridare.

Mi giro ancora e con tutta la voce rimasta finalmente gli rispondo.

“Dove avevamo fermato il tempo!”

 

****

 

Dieci minuti a mezzanotte, la piazza è in festa.

Stephen fa due passi avanti. Piano, con lentezza… quasi con timore.

“L’albero…”.

Sposto gli occhi da quella pioggia di luci.

“Non… l’avevi ancora visto?”.

Si volta e scuote piano la testa con, sulle labbra, un sorriso che solo un ragazzo che non ha dimenticato di non esser stato bambino è in grado di fare.

“No… sono tornato solo ieri, e non… non ero ancora passato di qua”.

Il suo sguardo si sofferma solo un istante su di me, troppo desideroso di tornare subito allo spettacolo davanti a noi, ed io prendo allora ad osservarlo con tenerezza, una tenerezza infinita. Intorno a noi famiglie, coppie, fiumi di persone parlano, ridono, camminano. Guardano l’albero con lo stessa espressione che, poco prima, ho visto sul volto di Steph.

Stringo le sue dita, ancora imprigionate nella mia mano, e appoggio la guancia sulla sua spalla. Di colpo mi sento totalmente, completamente serena, anche se, inspiegabilmente, ho una voglia matta di piangere.

Quanto sei stupida, mi dico poco dopo. Oggi hai già pianto abbastanza. Ti sembra il caso, adesso?

“Ehi… ”. Le sue labbra mi sfiorano una guancia, e passandomi un braccio attorno alla vita mi stringe a sé. “Che succede?”.

Io scuoto la testa, portando le dita agli angoli degli occhi. Faccio una piccola risata.

“Niente… ”.

“Come niente? Non fai altro che ripetermelo, e… ”.

“Ooh, insomma… mi sto commuovendo. Tutto qui”.

“Uhm. Per l’albero o per il mio ritorno?”.

“Mhh”. Lo fisso per un attimo. “Non lo so… ”.

“Guarda che potrei anche offendermi… ”.

Al colmo della gioia, mi butto al suo collo. Dio, quanto è bello essere felici…

E quanto è bello poter ripensare ad un vecchio ricordo senza starci più male. Senza quel dolore insopportabile, straziante, nel petto. Poterci ripensare piangendo, ringraziando il tempo perché, quella memoria, è tornata a far parte del presente.

E perché, adesso, si è in grado di renderla davvero infinita.

 

“Allora… cerchiamo di rendere questa notte infinita. Ok?”.

 

Quella lunghissima notte.

La notte in cui Steph mi aveva detto addio, in cui entrambi avevamo creduto che non ci saremmo più rivisti.

“Smettila, anche tu stavi per piangere!”, gli dico, farfugliando tra le lacrime. “Ti ho visto, sai!”.

“Uh, non è vero… è solo colpa di tutte queste luci! Mi bruciano gli occhi… ”.

“Bugiardo!”.

Un bambino passa accanto a noi, cominciando a guardarci incuriosito. Prendo ad inseguire Steph in mezzo alla gente, e facciamo per ben due volte il giro della piazza fino a che, stremati, non finiamo a terra, immersi nella neve fino alla vita. Siamo bagnati, ci gira la testa, non abbiamo più voce.

Io ho anche freddo, ma non mi da fastidio. Amo questo freddo. Adesso sono certa che lo amerò per sempre, così come amerò questo manto soffice, morbido, che accarezza la città come una coperta ricamata con cura da una mano materna.

Steph si rialza, e mi allunga un braccio per aiutarmi. Ritorno anch’io in piedi, e risollevando la testa dopo essermi scrollata dal cappotto la neve, noto che il bambino di prima è ora davanti a noi. Ha i capelli scuri e ricci, gli occhi di un blu intenso, da cielo primaverile. Si mette a saltellare e a battere le mani, poi scoppia in una gran risata entusiasta.

Io e Stephen ci guardiamo e, non riuscendo a trattenerci, torniamo a ridere con lui.

La madre osserva la scena con un sorriso benevolo, poco distante. Le faccio un cenno salutandola, e prendo il piccolo tra le braccia.

Mi butto ancora tra la neve. Lui ride. Ride e ride ancora, ed io penso che non ho mai sentito un suono più bello.

Poi, all’improvviso, i rintocchi.

Mezzanotte.

Nella piazza si ferma tutto per un attimo, un istante stupendo. Anche il mio cuore avverte quel pezzetto di tempo che si dilata e alzo gli occhi al cielo, assaporando il suono delle campane che si diffonde nell’aria.

Steph torna invece a sedersi fra la neve, come se fosse la cosa più normale del mondo. Poi, dopo aver preso dalle mie ginocchia il bimbo per sollevarlo in aria strappandogli un’altra risata, mi fissa con i suoi occhi meravigliosi.

“Buon Natale, Mara”.

Io lo guardo a mia volta. Mi avvicino al suo orecchio, e posandogli un piccolo bacio gli sussurro i miei auguri.

“Buon Natale, Steph”.

Il bambino inizia a rotolarsi nella neve, ma poco dopo la madre lo richiama. Lui si alza, ci saluta con la mano, poi corre via.

Rimaniamo in silenzio.

“Senti, mi prometti… ”, mormoro, dopo qualche secondo.

“Cosa?”.

Stephen mi attira a sé, e spostandoci di poco ci appoggiamo con la schiena al muretto di un’aiuola.

“… che… ci impegneremo tutti e due?”. Mi accoccolo contro il suo petto. “Per realizzare quello che vogliamo, intendo. Che non ci tireremo indietro, mai. Che continueremo a sperare e a lottare, anche se sarà difficile”.

Vedo una nuvoletta d’aria uscire dalla sua bocca, e la sua stretta intorno a me farsi più salda.

“Certo, non intendo rinunciare. E questa volta, non lo farai nemmeno tu”.

Il suo tono è quasi un comando, ma so che in realtà vuole solo incoraggiarmi.

“Ma se per caso non dovessi…”, inizio comunque a dire.

“Ti rialzerai”.

Si scosta dal muro, e cerca i miei occhi.

“Ci sarò io, se avrai di nuovo paura. Se cadrai. E tu sarai vicino a me, se sarò io ad inciampare”. Mi prende il volto tra le mani, e sorride. “Okay?”.

Annuisco, rendendomi conto, di colpo, che l’amore che sento intorno a me in quel preciso momento, mentre fisso il suo viso d’angelo, potrebbe riempirmi fino a farmi scoppiare.

Subito dopo una melodia dolcissima mi torna alle labbra. Senza chiedermi come sia possibile, ho la netta impressione che, nella mia stanza vuota, il carillon abbia ricominciato a suonare.

Tutto, nel giro di un istante, si fa certezza dentro di me.

Abbasso gli occhi, li chiudo. Ci sarebbero mille cose che, conoscendomi, dovrebbero passarmi per la mente dopo le parole di Stephen, ma, stranamente, non penso a nessuna di esse.

Non penso che sarà solo lui a farcela.

Non penso di essere troppo debole, di non essere in grado, di non poter riuscire.

Non penso che il suo sogno diventerà anche il mio, perché non ho abbastanza coraggio per inseguire quello che ho nel cuore.

No, non penso a niente di tutto questo.

Sorrido, risollevando lo sguardo su di Steph.

“Okay…”. Mi avvicino alla sua bocca e con un dito gli disegno una linea sulla guancia. “…speriamo solo di non farci troppo male”.

Lui ride, ma non gli lascio il tempo di continuare. Poso le mie labbra sulle sue e non facendo caso all’acqua che, ormai, ci ha inzuppato completamente i vestiti, continuiamo a stare stretti fino a che riprende a nevicare.

Seguo con lo sguardo la caduta dei fiocchi, affascinata, poi sollevo la testa al cielo. Ma questa volta, a differenza di quel pomeriggio, ho le risposte che cerco.

Quel podio… lo raggiungeremo in due.

Ci saliremo io e Steph, insieme, iniziando la nostra corsa in questa notte luminosa.

Una notte chiara, più abbagliante del giorno, infinita come l’eternità.  

E dove i miracoli, qualche volta, possono accadere.

 

[Cadono le stelle e sono cieco
e dove cadono non so
cercherò, proverò, davvero
ad avere sempre su di me il profumo delle mani
riuscire a fare sogni tridimensionali
non chiedere mai niente al mondo
solo te
come una cosa che non c'è
cercando dappertutto anche in me
ti vedo]

 

~

 

Esistono sempre ricordi, memorie di qualcosa che deve ritornare.

Le memorie di un passato che non è concluso, e che si farà, un giorno, come neve chiara e soffice, per ricadere dolcemente sul presente.

 

FINE

  
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