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Autore: G K S    19/07/2014    2 recensioni
Agorafobia, demofobia, acluofobia, sociofobia, fobofobia, agyrofobia.
Queste sono tutte le facce di Kell, tutti i suoi demoni, tutte le sue fobie.
L’unica cosa che ha sempre potuto fare è resistere, contro ogni convinzione e anche contro il suo stesso volere, ha quasi diciassette anni e l’unica cosa che vorrebbe fare è vivere.
E dove finisce? Beh, il Quattrocentoventisette è un istituto correttivo per ragazzi affetti da fobie, proprio come lei. Troverà Cecely, Victor e anche Jeh, il fantasma del suo passato, il ragazzo sfigurato con l’occhio di vetro che non ha mai dimenticato e le cose per lei non sembrano andare troppo male...
Solo che le cose non sono esattamente come sembrano, anzi, le cose in realtà sono ancora più complicate di quelle che sono...
Genere: Introspettivo, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- minuscolo spazio autrice - 
Rieccomi con un capitolo interminabilmente lungo, (mio dio, spero che la cosa non vi stanchi) tanto per cambiare, spero che l'ultimo vi sia piaciuto e vorrei farvi sapere che apprezzerei e sopratutto considererei qualsiasi vostra curiosità, domanda o appunto come un piccolo tesoro personale :3 davvero, se qualche anima volesse esprimere la propria opinione farei i salti di gioia... ehm ehm e magari aggiornerei con maggiore velocità... 
Comunque, quanto al capitolo, è piuttosto importante perché apre nuove prospettive sulla storia che fino ad adesso non avevate ancora considerato probabilmente.
Uhm, questa è una storia molto romanzesca, la considero un libro a tutti gli effetti in realtà e forse per questo non è molto adatta a efp, nonostante questo spero possa piacervi lo stesso, tengo tantissimo ai miei personaggi, Kell, Jeh, Vic, Cely ora sono ancora incuranti del proprio destino... al prossimo aggiornamento!!!! :D




3. Rivelazioni


«Allora, hai capito come si fa?»
Cecely girovagava nella sua stanza con gli occhi rivolti al soffitto ripassando sulla scrivania – sul quale lei stava cercando di capire le equazioni – soltanto un paio di volte al minuto.
Un buon modo per lasciarle tregua, un pessimo modo per capire le equazioni di secondo grado.
La ragazza doveva aver spostato la scrivania dal lato del muro al centro della stanza, in quel punto si riusciva a godere meglio della flebile luce pomeridiana proveniente dalla finestra.
«Ci sto provando.» Sembrava impaziente di farle capire lo svolgimento dell’operazione ma non si impegnava per aiutarla.
Kell non sarebbe rimasta stupita dallo scoprire che stava aspettando qualcuno: «Non ti va proprio di avermi tra i piedi eh?» Cecely si girò a guardarla con tanto d’occhi, forse era stata troppo schietta, aveva il vizio di dire sempre quello che pensava e se ne rendeva perfettamente conto, non le importava, le persone schiette danno l’impressione di avere più carattere...
Cecely, bassa, forse poco più di un metro e cinquanta portava i capelli corti, castano chiaro che le arrivavano più o meno al mento e gli occhi, – che aveva guardato bene quando si era chinata su di lei – erano di un verde muschio interessante, la scrutavano pensierosi senza però guardarla mai dritto negli occhi. «Ho imparato a non apprezzare la compagnia femminile Kellan.»
Dirle di chiamarla Kell era fuori discussione, lei non voleva neanche averla lì con lei, tra una settimana non le avrebbe neanche più rivolto la parola.
Ad un tratto però si rese conto che non aveva chiesto che tipo di fobie avesse, meglio rimediare, allenarsi con l’interazione sociale, dopotutto era una delle regole della sua psicologa che aveva sempre ignorato; mollò la penna sul foglio a quadretti e chiese: «Che fobie hai?»
Cecely si sedette sul letto cacciando il tesserino da dentro la tasca della camicetta, snocciolò le sue fobie una dopo l’altra, togliendosi il pensiero: «Sociofobia, caligenofobia, ommetafobia, dismorfofobia e eisoptrofobia.»
Non sapeva se fare finta di aver capito o chiedere che diavolo significassero quelle parole apparentemente senza nessun senso logico, inghiottì la saliva indecisa.
Cecely diede un’occhiata alla porta azzurra e cominciò a parlare: «Ho paura dei contatti sociali, delle ragazze molto belle, di guardare negli occhi le persone, anche se dall’inizio dell’anno sono molto migliorata...» Cecely per provarglielo si avvicinò e si potò una mano al viso fissandola dritto negli occhi; un secondo dopo però si scostò bruscamente. Fece una pausa e inghiottì la saliva, le mani strette sui fianchi, già un po’ rossa in viso: «Ho anche una...» Esitò, come se non sapesse neanche come spiegargliela, senza sembrare una pazza: «Beh, dicono che per essere corretta dovrei dire che la mia è una preoccupazione esagerata per un certo difetto inesistente nella mia parvenza fisica.»
Stava ripetendo a bacchetta le parole che qualcuno le aveva detto di dire per definirsi, assurdo, forse Cecely non pensava che il suo difetto fosse inesistente, riflettendo, Kell arrivò a capire che era ovvio che fosse quello il suo problema più grande.
«Ah, e ho anche una fobia specifica, ho paura degli specchi... posso vedere le tue invece?»
Kell estrasse la sua tessera dalla tasca dei pantaloni, Cecely si avvicinò e la prese portandosela vicino agli occhi.
Guardandola meglio, Kell si ritrovò a pensare che forse, il suo difetto fisico non era poi così tanto inesistente come lei veniva spinta a credere.
Si rese conto in quel momento, passandosi la penna nera tra le dita, che Cecely portava un gran bel paio di stivali alti di pelle, allacciati con le stringhe, di evidente ricca fattura, tacco e plantare rialzato, in tutto guadagnava almeno dieci centimetri buoni.
Si avvicinò alla scrivania ridandole la tessera, sollevò un tacco e sorrise imbarazzata: «Vorrei che tu non fossi così alta.»
Kell alzò le spalle desiderosa di rassicurarla, lei non era così alta. Però, pensò osservandola ancora meglio, in effetti era bassa, molto bassa, sarebbe potuta sembrare una bambina senza quegli stivali, ma appunto, senza, e lei li portava. Quindi di cosa si preoccupava?
Una domanda le attraversò la mente, cominciava ad avere mal di testa e aveva voglia di lasciare andare del tutto quella penna.
Forse era solo un disperato, minuscolo tentativo di avvicinarsi a Cecely: «Per questo ti da fastidio la compagnia femminile? Ti paragoni alle altre?» Sei invidiosa? Avrebbe voluto chiederle, ma quello era un lato ovvio della faccenda, Cecely magari poteva essere invidiosa di lei, di Kell, non era assolutamente normale, nessuno, dico proprio nessuno, era mai stato invidioso di Kell prima. E la cosa non la fece affatto inorgoglire.
«Senti Kellan.» Disse Cecely ignorando fermamente la sua domanda: «Non sono proprio la persona più indicata a spiegarti matematica. Ma tra poco arriva Victor, se è di buon umore ci metterete cinque minuti a finire quelle.» Il suo tono di voce non lasciò intendere a Kell che fosse contenta della cosa. «E poi sicuramente arriverà anche Jeh, non guardarlo troppo in faccia.» Si sedette di nuovo sul letto: «Anzi, sarebbe meglio se tu cercassi di non parlargli...»
«Certo.» Disse Kell cercando di frenare l’entusiasmo, finalmente avrebbe incontrato qualcuno fuori sul serio, non come Cecely la complessata e i suoi stivali da ricca. 
Certamente, vedere, senza poter vedere con i propri occhi era più interessante. Aveva ascoltato il discorso della Strins, e non dubitava che la sua nuova conoscente fosse problematica almeno quanto lei, ma non riusciva a evitare pensieri simili, avrebbe voluto poter toccare con mano il disagio.
Se Cecely non avesse indossato quegli stivali, si ritrovò a pensare Kell, forse l’avrebbe guardata con occhi diversi...
«E Victor?» Chiese: «Qualche indicazione su di lui?»
Cecely spalancò la bocca per risponderle, lo sguardo di chi si è dimenticata di dire qualcosa di importante, ma non fece in tempo a dire una sola lettere, se non un: «Vic!» Rivolto al nuovo arrivato.
La sconcertata espressione del ragazzo lasciò intendere a Kell che vedere una ragazza in camera di Cecely era un’evento più unico che raro. «E lei chi è?» Fece rivolto alla sua amica a occhi sbarrati. 
Niente scrupoli, fantastico proprio quello che le ci voleva.
«Me l’ha affidata la Dorles, è fissata con il fatto che sto sempre con te e Jeh lo sai, vuole che socializzi con delle ragazze e ecco qui la nuova arrivata.»
Victor, ancora una volta, sorprendentemente sano fisicamente, alzò gli occhi al cielo; per un attimo Kell temette che le fosse sfuggito qualcosa, ma capì ben presto perché Cecely aveva scelto proprio uno come lui.
Per prima cosa, era alto almeno trenta centimetri più di lei.
Secondo, era davvero accorto. Le si sedette a fianco e cominciò a parlare senza guardarla negli occhi, con lo sguardo vacante per la stanza, come a non volerla forzare, ogni tanto però si fermava a guardarla e poi riprendeva il giro. 
Le cose erano due, o Victor era anche lui ommetafobico o era la persona più meticolosa di tutto il Quattrocentoventisette, Kell si insospettì.
Terzo, difficile non invidiare i riccioli dorati e gli occhi azzurri che la guardavano sorridendo, Cecely cercava quell’aspetto negli altri, quasi a volersi fare del male forse.
Rifletté osservandolo di sottecchi, forse sbagliava, nonostante questo, una ragazza difficilmente l’avrebbe invidiato. 
Se non avesse avuto un viso così acuminato da poterci tagliare le pagine di un quaderno anche abbastanza femminile per altro si sarebbe potuto dire che fosse piuttosto bello, un vero peccato... quindi si era sbagliata, Cecely non cercava di essere invidiosa... forse il contrario invece.
A quel punto era proprio curiosa di vedere Jeh, chissà com’era.
Kell si era ancora una volta distratta nei suoi pensieri, e infatti, quando vide Victor avvicinarsi alla scrivania con un sorriso gioviale ci mancò poco che non saltasse in piedi: «Credevo che Cecely avesse capito come si fanno.» Si sedette al suo fianco e si mise a cercare qualcosa nel quaderno dell’amica; si presentò, Victor Rixon era il suo nome, Vic per gli amici.
«Infatti ero convinta di aver capito.» Esclamò Cecely interrompendolo, riuscì a mettere su il broncio senza il minimo sforzo.
Victor intanto le mise sotto gli occhi un esempio dal libro e attaccò con una spiegazione abbastanza particolareggiata dell’equazione, Kell riuscì a afferrare il senso a grandi linee.
«Tu intanto prova a farne una.»
Si alzò tornando sul letto al fianco di Cecely: «Allora, in cosa consiste la scommessa con la prof?»
Cecely si scroccò le dita e poi disse: «Se per la prossima settimana non voglio continuare ad averla intorno torna tutto come prima e ho vinto io. Altrimenti ha vinto lei.»
Victor, che se ne stava appoggiato con la schiena al muro da sopra al letto di Cecely, parve apprezzare: «Ci è andata bene, poteva sempre proibirti di stare con Jeh e me.»
La ragazza sbuffò sonoramente fissandolo con sguardo truce: «Deve solo provarci. Finché si tratta di una settimana con una persona più o meno discreta come questa qui la posso anche reggere, ma non può togliermi te e Jeh.»
Questa qui. Con Victor era diventata improvvisamente questa qui.
Kell si ritrovò a sospirare in silenzio, neanche Victor con il suo portamento angelico e i suoi tratti femminei osava dubitare del fatto che Cecely si sarebbe presto liberato di lei.
Rimase abbastanza sconvolta quando Victor gli diede la sua tessera per permetterle di leggere le sue fobie.
In pratica il dirigente aveva ragione, era tradizione.
Sociofobia, venustrafobia... 
Venustrafobia? Kell si fermò a fissare la letterine della parola con il cuore in gola. Paura delle donne? Com’era possibile? Victor tutto sorrisi e accortezze era venustrafobico?
Continuò a leggere per non fare la figura dell’idiota: afefobia, cainofobia, monofobia, ommetafobia.
«Sono fobie specifiche.» Fece Victor riprendendosi la tessera.
«Ne ha già superate diverse.» Disse Cecely.
Forse avrebbe aggiunto altro, ma fu’ costretta ad interrompersi.
La porta azzurra della stanza di Cecely si aprì.
A Kell sembrò per un momento di vedersi passare davanti agli occhi tutti gli eventi più devastanti della sua vita. Il rapimento, gli sguardi degli altri, la porta chiusa di camera di Sam...
Il ragazzo con l’occhio di vetro fece il suo ingresso nella stanza, assolutamente in tema fu costretta ad ammettere Kell.
Dovette trattenere l’impulso di tirare una manata sul tavolo. 
Te l’avevo detto! Urlava la sua coscienza vittoriosa.
A Kell non servì molto per capire che il famoso Jeh che era meglio non guadare era proprio Jesse, quello che aveva fissato con tanto d’occhi a terapia, quello che per altro si era accorta di ricordare...
Si sdraiò sul letto senza salutare ne dire una sola parola ai tre ragazzi, Victor gli sorrise placidamente e Cecely soddisfatta dal suo arrivo si sdraiò al suo fianco mettendogli un braccio attorno al collo, lui non la respinse ma non fece niente per avvicinarsi di più.
Kell, – senza riuscire a capire se lui l’avesse notata o no – era ancora seduta alla scrivania, in uno stato di imbarazzo atroce; ormai la stanza per lei era diventata delle dimensioni di una scatoletta di tonno, non osava parlare, aveva paura persino di muovere una gamba sotto il tavolo, si sentì più sociofobica che mai.
Si sforzò di pensare a qualcosa che riuscisse a distrarla; Cecely si era tenuta a distanza da Victor in modo abbastanza studiato e ora con Jeh, che sprizzava “stammi alla larga o ti spezzo il collo” da tutti i pori non si faceva alcun problema.
Afefobia eh? Non era la paura del contatto fisico? Sì, Kell si applaudì mentalmente per aver smascherato Victor da sola, quel silenzio imbarazzante almeno non viveva anche nel suo cervello.
«E le tue fobie Kellan?» Alzò gli occhi dal foglio e guardò Victor come se non avesse capito assolutamente niente di quello che gli aveva chiesto.
«No ti prego!» Fece Jeh sconsolato, aveva parlato. 
La sua voce la colpì come una pallottola nello sterno.
Non l’aveva mai sentito parlare prima. Mai.
Jeh non si fermò anzi: «Le ha già elencate tutte con la Strins che le commentava una alla volta, ancora me le ricordo.» Jeh strascicava le parole, come a voler mettere più enfasi su ogni sillaba, parlava come se gli pesasse dover condividere quei pensieri con tutti loro.
Le sue parole le pesavano in testa.
Cecely lasciò cadere il braccio mollemente sul cuscino.
«Sei nell’H2 anche tu?» Domanda retorica da parte di Cecely.
Si ritrovò ad annuire poco convinta.
«E’ acluofobica anche lei.» Disse Jeh fissando il soffitto, evidentemente non era felice della cosa, la cicatrice formava un’ombra scura sull’angolo sinistro del suo viso
«Davvero?» Esclamarono Cecely e Victor contemporaneamente quasi spaventati.
«La Strins ci farà fare terapia di esposizione insieme sicuramente.» Si passò una mano sulla parte di faccia sfregiata.
Cecely cercò di rassicurarlo: «Lo sai che non ci mettono niente a superarla, massimo tre sedute ed è fatta.»
Kell stava per scuotere la testa ma si bloccò di colpo, forse era meglio non farglielo sapere; per lei la paura del buio era radicata e profonda, non l’avrebbe mai potuta superare in tre sedute, era assolutamente impensabile. 
Ma lei era l’estranea e doveva trattenersi.
«Comunque, che cosa ci fa lei qui?» Dallo sguardo impassibile che Jeh le rivolse, Kell pensò quasi che lui la odiasse, non gli aveva neanche mai parlato direttamente e lui sembrava odiarla, straordinario, si applaudì mentalmente di nuovo, un ottimo modo per mettere in chiaro di stare alla larga. 
Cecely intanto attaccò subito a spiegare la storia della scommessa con la Dorles, neanche Jeh chiese se lei avesse intenzione di tenerla o meno, manco fosse stata un gatto randagio poi. 
Molto, alla larga.
Non appena si accorse di un consistente tremore alle mani scattò in piedi salutò con un unica frase tutti e scappò furente in camera sua, non riusciva proprio a non sentirsi triste.
Non voleva stare lì, a farsi guardare con astio da lui, in un posto dove non aveva neanche il coraggio di parlare, era così tremendamente degradante...


Il bagno profumava di ammorbidente stantio e le mattonelle scivolose della doccia per poco non la fecero finire sul pavimento.
Si ritrovò a scendere le scale con diversi ragazzi al seguito. 
Dopo essere entrata nella sala ancora completamente avvilita finì per sedersi a un tavolo vuoto. Accorgendosi due minuti più tardi che Cecely, Victor e Jeh avevano occupato un tavolo poco distante e parlavano tra loro tranquillamente.
Almeno Cecely avrebbe potuto chiederle di sedersi con loro, così per illudere la Dorles che almeno stesse perlomeno pensando se tenerla o no.
Tenne gli occhi sul piatto e le dita occupate a rigirarsi tra le mani la forchetta.
Quando sentì che le sedie erano state occupate il suo cuore perse un battito.
Lo sentì dalle loro voci che erano ragazze; Kell era paralizzata, non riuscì ad alzare lo sguardo dal piatto per l’intera durata del 
pranzo, quasi le scoppiava la testa dall’ansia che aveva addosso.
«Sono stata così fortunata Nikki!» Gridò per la settantesima volta una ragazza di nome Catherine con una propensione spropositata per l’egocentrismo. «Se ti hanno permesso di ridare l’esame è perché meriti di uscire di qui, non è una questione di fortuna.» 
Catherine fece un versaccio irritato: «Io mi sono impegnata con tutte le mie forze, ma il primo l’ho fallito miseramente...»
«Va bene.» Disse pazientemente la terza ragazza di cui non conosceva il nome: «Ma non hai più le fobie no? Le hai superate. Ti premieranno, non sarà uno stupido esame di routine a impedirti di uscire di qui, non a questo punto.»
«Talaltro...» Continuò Nikki: «Mancano solo cinque mesi alla fine della scuola, dopo tutto questo tempo... sarebbero davvero dei bastardi!»
A quel punto Kell ebbe chiaro di che cosa stessero parlando quelle tre: Catherine evidentemente aveva dato un esame per uscire dal Quattrocentoventisette prima del tempo, e l’aveva fallito. I professori si erano accordati che fosse il caso di farglielo rifare e Kell sentendo la sicurezza delle sue amiche pensò proprio che Catherine avesse ottime possibilità essere riuscita a superarlo e di andarsene questa volta.
Quando si alzò in piedi per andare via non riuscì a fare a meno di notare la cascata di capelli biondo lucente arricciati sulle punte che ricadevano sulla schiena della ragazza di nome Catherine.
Chissà che fobie aveva...


Neanche a dirlo non chiuse occhio per tutta la notte. Il silenzio che si respirava in quella stanzetta era assolutamente raggelante, la lampada vicino al letto formava ombre lunghe e sottili che si trasformavano lentamente in figure orrende dall’aspetto più vivo di quanto fosse lei in quel momento.
Kell si chiese come facesse Jeh a non tenere la luce accesa tutta la notte, il meccanismo della lampada era chiaro; per un ora la lampada rimaneva accesa, poi, si spegneva da sola.
Kell la riaccese da se per tre volte, poi crollò dal sonno.


Il mattino dopo si mise in marcia per andare in classe con dieci minuti d’anticipo, la sera prima aveva messo i libri per il giorno dopo dentro la cartella seguendo l’orario scritto sul foglio plastificato.
Due ore di geografia e due di matematica.
Arrivò al quarto piano e entrò in classe defilata.
«Hai saputo di Catherine Yeferson?» Stava chiedendo una sua compagna a un’altra.
«Si! Pazzesco, tu ci credevi che l’avrebbe passato? Sono cinque anni che qualcuno non esce di qui più di due mesi dalla fine dell’ultimo anno.»
Catherine? La ragazza di ieri a cena? Ah. Le avevano dato i risultati e ce l’aveva fatta; non si sentì granché stupita, solo un po’ invidiosa.
Kell attraversò un paio di file di banchi, Cecely era già seduta in quarta fila, una gonna rossa e gli stivali con le stringhe sotto il banco: «Ti puoi mettere vicino a me.» Kell non avrebbe voluto accettare ma si ritrovò costretta, non ce la faceva più neanche a restare in piedi in mezzo agli altri, le altre compagne di classe, un paio ne aveva anche viste a terapia la fissavano con tanto d’occhi, l’atmosfera scolastica era pressante.
Doveva essere comprensiva, era chiaramente una grossa stranezza vedere Cecely accanto alla tizia nuova, si sentì quella sensazione addosso persino lei.
A interrompere i suoi pensieri ci pensò la professoressa di geografia arrivò in classe e sorrise ai suoi studenti fermando gli occhi su Kell qualche secondo: «Oh, stavo quasi per dimenticarmene, abbiamo una nuova ragazza con noi.»
Tutta la classe si girò a guardarla. 
Kell fissò intensamente la lavagna bianca alle spalle della professoressa come se fosse la cosa più interessante che avesse mai visto in tutta la sua vita, dannazione...
La prof si buttò sul registro: «Kellan Hall è il tuo nome giusto?»
Non racconterò la storia del mio nome, se lo può proprio scordare.
«Sì.»
«Ti è già stato dato un tutor?»
«Ehm...» «Si, professoressa, sono io.» Rispose Cecely già appoggiata con la schiena al muro. «Grazie Cecely.» Sussurrò Kell non appena la professoressa si fu girata. «Non ringraziarmi, sono davvero la tua tutor.» Questa poi...


La professoressa iniziò a fare l’appello.
Il ragazzo con l’occhio di vetro, Kell si appuntò mentalmente di smettere di chiamarlo così nella sua testa, attraversò la classe velocemente senza fare un cenno di saluto a nessuno, neanche alla professoressa che lo guardò sospirando un po’.
L’occhio buono e l’occhio di vetro vagarono verso Cecely, ecco, Kell immaginava già lui che diceva alla sua amica se poteva fare scambio posto, tanto per mettere in chiaro le future dinamiche tra loro. Ma... assurdo, non disse proprio niente, si sedette al terzo posto libero accanto a Kell e rimase zitto, forse semplicemente non gli importava.
L’occhio buono era dall’altra parte, Kell era un po’ rincuorata, almeno non avrebbe potuto vederla mentre supplicava Cecely di mettersi al suo posto.
«No, non fa niente Kellan.»
Non faceva niente per lei forse.
Victor arrivò subito dopo, si sistemò velocemente vicino a Jeh, ma a dispetto dell’altro si sporse oltre lui per salutarle.
«Giornataccia oggi.»
Non così insopportabile, la professoressa di geografia in fin dei conti sembrava simpatica, si ritrovò a pensare. 
Insomma, era carina, non era più venuta a parlarle. Si limitò ad assegnare le pagine da studiare e ricordare di leggere i riassunti per quanto riguardava storia l’altra sua materia.
Kell segnò le pagine attenta a non scontrarsi con il braccio di Jeh, fa che lui avesse ritrovato il suo sguardo impassibile.
«Detesto la matematica.» Fece Jeh.
La tentazione di sillabare anch’io era fortissima, si morse la lingua per sicurezza, non aveva idea di come comportarsi con lui, così ascoltò Cecely e Victor ridere senza osare emettere un solo suono.
«La professoressa è una strega.» Fece Victor sporgendosi di nuovo oltre il banco di Jeh: «Menti spudoratamente alle sue domande se non ti va di dire la verità.» Le suggerì Victor, era più angelico del giorno prima, nonché il più gentile di tutti loro.
La professoressa, capelli corti, giallo tinto, e occhi piccoli attraversò la classe a piccoli passi, nonostante l’altezza era piuttosto brutta e capì perché Victor l’aveva definita una strega.
Certamente, non era una visione gradevole, anzi.
Si guardò intorno e fermò, proprio come la professoressa di geografia, lo sguardo su Kell, a differenza sua però, questa iniziò ad avvicinarsi fino a quando non la raggiunse.
Si chinò sul banco di legno sorridendo vagamente; le sfuggì uno sguardo verso Jeh, poi disse: «Sono la professoressa Soan, insegno matematica e tu sei Kellan Hall giusto?»
Parlava a bassa voce, ma Kell si rese conto che sia Cecely che Jeh che Victor si erano girati in modo da guardare tutta la scena.
«Sì.» 
«Ho letto che sei agorafobica, da quanto tempo non andavi a scuola?»
«Circa dall'inizio dell’anno scolastico, quindi quattro mesi.» La Soan si lasciò sfuggire un sospiro: «Mh, allora devo assegnarti degli esercizi per ripasso, di solito qui non ne assegnamo moltissimi.» La informò.
Davvero? Quattro ore di scuola al giorno e niente compiti? Se non ci fosse stata terapia di esposizione nel pomeriggio sarebbe stato quasi sopportabile, pensò Kell.
La professoressa prese a sfogliare il suo libro di testo, mise dei post-it ad alcune pagine chiedendole di fare degli esercizi.
«Eri brava in matematica?»
Ricordandosi delle parole di Victor rispose semplicemente: «Più o meno.» La Soan annuì e le sorrise fissando uno degli esercizi che il giorno prima aveva fatto con l’aiuto di Victor.
Quanto si sentiva fuori posto lì in mezzo? Troppo.
«Vieni alla lavagna.» Si girò sui tacchi e si avviò alla cattedra.
Cecely si portò una mano alla faccia nascondendosi il viso.
Oh no. 
«Su, vieni Kellan.» Fece la professoressa. 
Sentì, quasi come se non fosse lei a comandare le proprie azioni.
Si stava alzando dalla sedia, lo sguardo di Jeh ancora puntato addosso.
Era proprio, proprio un incubo.
La lavagna, forse avrebbero potuto metterla nelle fobie di altri duecento studenti, Kell lo sapeva perfettamente, era quasi peggio che dover parlare.
Arrivata davanti alla cattedra procedendo lentamente prese dalla mano tesa della Soan il pennarello per scrivere sulla lavagna bianca e si avvicinò zitta ad essa. 
Se ci fossero stati i gessetti forse le sarebbe anche sfuggito di mano, peggio, l’avrebbe anche pestato per sbaglio, era successo si ricordò respingendo il ricordo.
Erano almeno due anni che un professore non le chiedeva di andare alla lavagna, sapevano tutti che aveva dei problemi, e guarda un po’ chi le dava il colpo di grazia? Proprio una professoressa della scuola dei fuori di testa.
Scriveva il testo dell’equazione fissandosi in testa con attenzione ogni numero.
«Bene, adesso prova a risolverla.»
Era davanti a tutta la classe, davanti a Cecely, Victor e a Jeh, persone con i suoi stessi problemi.
Non poteva mollare il pennarello e correre via dalla classe come aveva già fatto parecchie volte in passato.
Ma tutti la stavano guardando, si lamentò la sua mente struggendola.
Terapia di esposizione continua eh? Troppa paura per sentirsi arrabbiata. Finì per cominciare a risolvere l’operazione concentrandosi più in quel momento che nell’arco dei quattro mesi passati.
«Fino ad adesso sta andando bene.»
Un silenzio glaciale regnava nell’aula, riusciva a sentire solamente il suono del pennarello a contatto con la plastica della lavagna bianca, numero dopo numero e stava addirittura andando bene. Tutti gli occhi presenti in quell’aula la fissavano attentamente, aspettandosi qualcosa...
No... c’era qualcosa che non andava, si bloccò passandosi il pennarello nella mano sinistra, ritornò a guardare la riga sopra che aveva già risolto, come doveva andare avanti?
Non lo sapeva. Si sentì arrossire fino alla punta dei capelli.
Le mani scottavano e ormai il pennarello era quasi incandescente, stava quasi per crollare.
Era facile, incredibilmente semplice, bastava lasciare perdere la sua storia sul fatto che sembrare deboli è uno schifo e correre via, scappare.
Poi, ad un tratto, come a risollevarla dal baratro sentì una voce, la voce della prof suggerirle qualcosa.
Attaccò a scrivere respingendo una lacrima e non smise fino a quanto non le venne detto che, grazie al cielo, l’equazione era assolutamente corretta.
«Ti metto un più.» Disse la Soan: «Puoi andare a posto Kellan.»
Oh no.
Almeno prima era girata, ora tutti avrebbero visto la sua faccia contratta dalla paura e dall’ansia.
Per prendere tempo staccò il tappo del pennarello e lo richiuse, si avvicinò al porta cancellino e lo depositò dentro, poi, allora e solo allora, quando ebbe recuperato un po’ della sua aria spocchiosa riuscì a voltarsi verso la classe e camminare fino al suo banco.


La Soan chiamò un ragazzo a fare un’altra equazione e lei riuscì a mettersi seduta al suo posto.
In mezzo a Cecely e a Jeh si sentì rincuorata. «Brava.» Le disse la ragazza sorridendole un tantino, la vide prendere la penna in mano per copiare la nuova operazione.
Prese la penna in mano anche lei e... un’ondata di panico la travolse. Tremava come una foglia e le mani riuscivano a malapena a tenere la penna ferma tra le dita.
Aveva fatto tanto per evitarlo, era riuscita miracolosamente a risolvere quell’equazione e stava per avere un attacco di panico in mezzo a loro quando era tutto finito, lasciò la penna e si mise a braccia conserte, doveva respirare. Calma, doveva stare calma, quelle cose capitano anche quando si è tranquilli purtroppo non era colpa di nessuno. Vide Cecely scoccarle uno sguardo vagamente preoccupato.
Se avesse avuto un briciolo di coraggio le avrebbe chiesto di aiutarla.
E l’aiuto arrivò, ma non da lei.
Jeh, proprio il ragazzo con l’occhio di vetro si girò a guardarla; dato che dal suo lato aveva l’occhio bianco, dovette girarsi completamente verso di lei per guardarla veramente con l’occhio buono.
Jeh fece scivolare un foglietto sul suo quaderno.
Cecely lo vide e sorrise per poi tornare a scrivere.
Era una griglia a quadretti fatta a penna, che avrebbe dovuto farci? La risposta arrivò da Jeh, il suo quaderno di matematica arrivò all’ultima pagina, lo sfogliò al contrario fino a quando Kell non annuì facendo segno di aver afferrato il concetto.
Anche Jeh tornò a scrivere l’operazione.
Kell, ancora tremante, prese la penna in mano e come aveva visto sul quaderno di Jeh, cominciò a riempire i quadrati della griglia formando un motivo a scacchiera.
Con la mano che non voleva stare ferma era difficile seguire le linee, molto difficile; ma alla fine ottenne un risultato più o meno decente e, cosa ancora più importante, aveva smesso di tremare.


«Comunque grazie per prima.» Gli disse Kell.
«Figurati.» Fece Jeh, e non disse altro.
Cecely la costrinse a rimanere con loro anche durante il pranzo, a quanto pareva avevano un tavolo fisso, li aveva visti lì anche il giorno prima.
«Ieri tu eri seduta con Catherine vero?» Chiese Cecely sedendosi al suo fianco, lei annuì contrita, tutta colpa sua se aveva dovuto subire le chiacchiere di quelle tre fissando un piatto di carne al sangue. Non l’aveva mica voluta al loro tavolo solo per spillarle qualche informazione?
Era abbastanza chiaro che tutto l’istituto stesse parlando di lei e della sua miracolosa uscita fuori dal tempo, ma non gliene importava proprio niente; e a quanto pareva neanche a Jeh e Victor che stavano mangiando senza neanche guardarla.
Le dita di Cecely battevano sul tavolo di legno: «Hai sentito qualcosa di interessante? Ne stanno parlando tutti sai...»
Cercò di non mostrarsi scocciata, inutilmente: «No, non ho sentito niente di strano, ancora non sapevano se lei era passata o no, ma... perché ha fatto così scandalo?» Le venne da chiedere per non sembrare troppo scorbutica.
Cecely sbuffò e Victor che era davanti a lei le lanciò un’occhiataccia: «Oltre il fatto che nessuno esce di qui prima di due mesi dalla fine dell’ultimo anno?»
«Perché...» Fece Kell: «C’è dell’altro?»
«Si.» Cecely lasciò andare la forchetta nel piatto, si girò di scatto verso di lei facendo ondeggiare i suoi capelli corti: «Non lo sai?»
Non sai cosa? Kell scosse la testa.
«E’ arrivata ieri.» Disse Jeh alzando entrambe le sopracciglia allineandole stranamente alla perfezione; il suo tono lasciva intendere che c’erano ancora diverse cose che non sapeva di quel posto.
Cecely non gli diede retta: «Lei aveva fallito il suo esame, ma i prof in via assolutissimamente straordinaria le hanno concesso una seconda chance.»
«Si, fin qui c’ero arrivata, ne stavano parlando ieri.»
Cecely annuì soddisfatta: «Ma non era mai accaduto prima, mai, da quando c’è il dirigente Rang. Ora, la domanda è...» Fece una piccola pausa per mettere più enfasi alla cosa: «Perché?»
Già. Kell assentì capendo finalmente il motivo per cui si era creato quel clima estremamente curioso attorno a quella vicenda.
«Magari i suoi la volevano fuori prima, forse hanno pagato per darle la possibilità di andarsene, quando l’ha fallito, i prof si sono visti costretti a farle rifare l’esame.» Tentò Kell titubante.
«Hai idea di quanto costi la retta annuale per questo posto?» Chiese Cecely strabuzzando gli occhi verde muschio: «Non credo che sia semplicemente una questione di soldi, tutto qui gira intorno ai soldi. Ma questa volta c’è qualcosa di più sotto sotto, te lo dico io Kellan.» Lo sguardo della ragazza non le metteva molti dubbi sulla sua sincerità.
«Dal momento che capisci come vanno le cose in questo posto...» Cominciò Victor ottenendo l’attenzione di tutti e tre: «Difficilmente ti ritieni anche solo capace di uscire di qui prima dell’ultimo anno, Kellan tu dovresti saperlo, vogliono tenerci dentro fino all’ultimo e non è neanche difficile capire perché.»
«Non possiamo uscire prima? Neanche se siamo guariti?» Sbottò Kell scioccata, come se Victor le avesse appena dato un pugno dello stomaco. 
Cecely lo guardò scuotendo la testa, cercava di farlo stare zitto? «No. Deve saperlo, no ha senso tenerglielo nascosto.»
Kell rabbrividì, di che stavano parlando? Che cosa non dovevano nascondergli?
Victor ignorò lo sguardo accusatorio di Cecely: «E’ ovvio, se  non te lo dicessi finiresti comunque per arrivarci da sola: vogliono spillarci fino all’ultimo centesimo, lo sanno tutti, lo sanno anche i genitori.» Kell impallidì vedendo che Jeh sorrideva laconico a quelle parole.
«E’ equo, teniamo tuo figlio “psicologicamente instabile”» –mimò le virgolette con le dita – «Qui dentro fino a quando non è maggiorenne, anche se è guarito, anche se non ha nessun problema reale e tu dopo te ne potrai disfare.»  Abbassò la voce tutto a un tratto: «Se una persona ha delle fobie davvero in una clinica privata basterebbero tre o quattro mesi per ritenerlo quasi fuori pericolo in casi non radicati.» Si bloccò guardandola: «Le condizioni in cui quest’istituto versa da cinque anni sono queste, credo che dovresti saperlo visto che ci sei dentro anche tu.» «Ma com’è successo?» Chiese ancora troppo sconvolta per dire altro. «A causa del cambio di dirigente e dei professori, prima accoglievano solo casi gravi, ora accolgono chi paga.» Disse Jeh, il tono era sorprendentemente duro: «E’ entrato in carica Rang e le cose sono cambiate.»
«Significa che è tutto un complotto contro di noi?»
«Contro di noi?» Ripeté Jeh: «Non direi, io non ho davvero possibilità di uscire di qui prima dell’ultimo anno e neanche di superarlo a dir la verità.» Le servì un momento per registrare le sue parole: «Questo è un complotto a favore di chi paga la retta, per quello che sappiamo, niente di più.»
Per quello che sappiamo.
Sconvolta? Kell inghiottì la saliva. Sì.
Tra tutte le ingiustizie del mondo, nonostante quello che aveva pensato dei suoi genitori ancora prima di venire a sapere quella verità non si era domandata come sarebbe stato sapere che ci aveva visto giusto. 
L’avevano mandata lì sapendo. L’avevano voluto loro.
«Potrebbe esserci dell’altro dietro.» La campanella suonò e i ragazzi lasciarono le forchette nei piatti alzandosi in piedi: «Sì,  potrebbe, le voci che girano però non lasciano spazio a dubbi, è un complotto fatto per i soldi e a beneficio di chi paga ed è anche perfettamente legale visto che è scritto dettagliatamente tra le righe delle clausole del contratto da firmare per stare in questo posto, è assolutamente semplice.»
Stavano per raggiungere il primo scalino, Cecely al suo fianco.
Lo stomaco le si era stretto in una morsa dolorosa, era legale, era sbagliato, era contro di loro e non potevano fare niente per evitarlo.
Non poteva che quelle informazioni le passassero addosso senza fare niente, se c’era qualcosa che poteva fare almeno per se stessa, doveva agire.
Avrebbe avuto terapia di esposizione: «Arrivo con dieci minuti di ritardo.» Disse a Jeh, lui le fece cenno di aver capito, avrebbe dovuto avvertire la Strins.
Si girò e cominciò a camminare di nuovo nella sala da pranzo nella speranza che fosse creduta.


«Mamma?»
«Si tesoro!» Il suo tono al telefono suonava attutito: «Perché mi telefoni? E’ successo qualcosa, stai bene?»
Avrebbe risposto solo alla prima di domanda: «Ho bisogno di comunicarti delle cose che ho scoperto di questo posto.»
Aveva sospirato, lo sentì anche attraverso la cornetta del telefono: «Cioè?» Si impose con tutte le sue forza di suonare più concisa e chiara possibile: «Voglio credere che non ne sapeste niente, ma qui dentro si opera molto chiaramente un servizio ai genitori degli allievi. Paghi la retta (e tuo figlio non è più a casa tua) e fino a quando non diventa maggiorenne lo tengono qui dentro, problemi mentali o no, è uguale.
Come sai da maggiorenne non è più sotto la responsabilità dei genitori, e loro sono liberi di lasciarli a se stessi. Capisci?» Non aveva adoperato la prima persona apposta, non voleva che pensasse male di lei: «E’ abbandono programmato, come si può migliorare vivendo in una situazione del genere, sapendo di un simile complotto?»
Sentì sua madre ridere, al telefono era difficile dirlo, ma le sembrò quasi che si sforzasse di allungare la sua risata.
«Kell, tesoro, non dire sciocchezze.» Altre risate interruppero la sua stessa frase: «Non credevo che avessi tanta immaginazione!»
«Tu lo sapevi?»
«Kell... ma che cosa stai dicendo?»
«Rispondimi, lo sapevi o no?»
Una breve pausa, come se si fosse staccata il telefono dall’orecchio, e poi: «No, io non so di che stai parlando, e non credo che neanche tu lo sappia.» «E’ più semplice di come sembra.» Borbottò Kell scuotendo la testa. «Cosa?» «Niente, ci vediamo presto, adesso ho terapia e non preoccuparti per me, davvero mamma. Ho capito tutto.»





 
  
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