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CAPITOLO
18: IN FUGA
Fu un secondo, solo
un secondo.
Ryan parlò,
rivelandomi quell’orribile verità ed il mio corpo agì prima di quanto potessi
rendermi conto.
Strappai di mano a
mio padre le chiavi della macchina che aveva estratto dalla tasca e iniziai a
correre verso il veicolo.
«Chelsea!».
Fu più un grido, che
un richiamo e non capii se fosse stato mio padre, Chris oppure Adam, o magari
tutti e tre insieme.
In mezzo c’era stata
una voce femminile, probabilmente mia madre, come forse anche Shereen. Non m’importava,
perché ero già arrivata alla macchina, l’avevo messa in moto e stavo uscendo
dal parcheggio. Sfrecciai nella strada sgombra, passando di fianco al
marciapiede su cui erano tutti radunati, ma ignorai i cenni di mio padre, le
urla di mia madre e la corsa di Chris, che provò a seguire la macchina per
qualche metro, ma ero talmente veloce che il ragazzo si fermò quasi subito,
dopo aver colpito con una mano la fiancata dell’auto, mentre sfrecciavo loro
vicino.
Ryan era rimasto
fermo immobile, davanti agli occhi avevo ancora il suo sguardo spento.
Perché lui aveva
perso sua madre.
Aveva quasi perso suo
fratello.
Non poteva perdere la
donna che amava.
Come poteva, il
mondo, funzionare così maledettamente al contrario?!
Cambiavo marcia
velocemente e non davo la precedenza agli stop; se la polizia mi avesse
fermata, mi avrebbero ritirato la patente. Continuando a quella velocità però,
mi sarei schiantata contro un muro molto prima.
Non m’importava
neanche di quello.
Dovevo arrivare a
casa, dovevo arrivare dalla mia amica, dalla mia coinquilina. Da lei che in
quei giorni mi aveva aiutato a non pensare a Chris, che mi aveva detto di
trovare un uomo con cui uscire e dimenticare il ragazzo che non potevo avere.
Lei aveva bisogno di
me e Ryan aveva bisogno che andassi da lei.
Duecento all’ora, il
motore della BMW di mio padre ruggiva.
Le poche macchine che
incontrai, sterzarono bruscamente al mio passaggio ed io mi presi non so quale
insulto dai loro proprietari.
Il cuore continuava a
martellare nel petto; avevo lasciato a casa una Gale sorridente, con la faccia
ancora gonfia dalla prima lite, ma in via di guarigione.
Lo avevamo
denunciato, quel bastardo; perché non gli avevano fatto niente?
Come avrei trovato la
mia amica, una volta tornata a Santa Barbara? Ma soprattutto… l’avrei
ritrovata?
Non ci volli nemmeno
pensare e spinsi il piede ancora più a fondo sull’acceleratore. Dannati tacchi.
Il paesaggio
sfrecciava fuori dal finestrino ad una velocità tale che non riuscivo nemmeno a
capire dove diamine fossi, ma non riuscivo a rallentare. Dovevo andare veloce,
dovevo arrivare presto perché altrimenti temevo che sarebbe stato troppo tardi.
“Forza, forza,
forza!”, era l’unica cosa a cui riuscivo a pensare.
Ad un tratto premetti
qualche bottone e si aprì il tettuccio della macchina, facendo svolazzare i
miei capelli in tutte le direzioni.
Non rallentai fino a
trovarmi davanti il familiare paesaggio di Santa Barbara, ormai ero quasi
arrivata.
Guardai l’orologio
sul computer di bordo: erano le due di mattina.
Entrando nel
parcheggio dell’ospedale, notai un’ambulanza che partiva a sirene spiegate.
“Non c’è mai fine”,
fu l’unica cosa a cui riuscii a pensare.
Spensi il motore
dell’auto e richiusi il tettuccio.
Camminai fino ad
entrare nel grande ospedale che ormai conoscevo bene e m’informai su dove fosse
la mia amica.
Terapia intensiva.
Uno dei reparti peggiori, a parer mio.
Almeno era viva.
Quando arrivai nel
reparto, un’infermiera mi venne incontro con aria ammonitrice.
«Signorina, è molto
tardi! Non si possono ricevere visite a quest’ora».
«Per favore, la mia
amica è stata ricoverata qui in giornata e io l’ho appena saputo. Sono arrivata
adesso da Phoenix».
«Chi è “la sua
amica”, intanto?».
In quel momento,
tutta la mia stanchezza si fece sentire.
«Si chiama Gale. Gale
Sykes, è stata aggredita».
Ora l’espressione
dell’infermiera si fece più comprensiva.
«Lei per caso è
Chelsea Gaver?».
La guardai, confusa.
«Sì, sono io… come fa
a… ».
«Nel portafoglio
della sua amica abbiamo trovato un biglietto che la indicava come suo contatto
d’emergenza. Abbiamo provato a chiamarla tutto il pomeriggio, ma diceva che il
suo telefono era spento».
Sospirai.
«Il mio telefono è
rotto».
«Venga pure, la sua
amica è di qua».
Seguii l’infermiera;
il rumore dei miei tacchi sembrava un colpo di cannone in quel silenzio
assordante.
Quando entrammo nella
stanza, restai paralizzata.
Gale era collegata a
macchine e tubi e ad un respiratore.
«Come sta?», le
chiesi temendo la risposta.
L’infermiera sospirò.
«È presto per dirlo.
Dobbiamo vedere come reagisce ai farmaci, ha riportato diverse fratture, domani
verrà a visitarla un medico ortopedico e poi è da valutare. Se tutto procede
bene, se si sveglierà, in qualche mese uscirà da qui, ma in un caso come il suo
è estremamente improbabile che non insorgano complicanze».
“Se si sveglierà”.
Quelle parole
continuarono a rimbombarmi in testa, ma le scacciai.
«Complicanze di che
genere?».
«L’ipotesi peggiore
sarebbe se i reni avessero riportato lesioni importanti. Dovremo tenerla
monitorata e, nel caso si verifichi un’insufficienza renale, allora sarà messa
in lista d’attesa per un trapianto».
Per due anni avevo
lavorato in una clinica medica, sapevo cosa avrebbe comportato tutta quella
situazione e i tempi d’attesa potevano essere davvero lunghi.
«Grazie», le dissi
soltanto.
Entrai nella stanza e
richiusi la porta alle mie spalle.
Mi avvicinai al letto
della mia amica e le accarezzai il volto appena sfiorandolo.
Avevo paura di farle
male solo a starle vicino.
Presi la poltrona
accanto al letto e la posizionai in modo da potermici poggiare sopra.
Con una mano afferrai
quella di Gale e poi misi la testa tra
le braccia.
Così, mi addormentai.
Venni svegliata la
mattina dopo da una lieve pressione sulla mia spalla e, voltandomi, mi trovai
davanti un uomo in camice bianco con un sorriso gentile.
«Buongiorno», mi
salutò lui.
«Buongiorno», il mio
tono era assonnato e, in più, dovevo avere un aspetto orribile.
«Potrebbe accomodarsi
fuori qualche minuto? Vorrei visitare la sua amica».
«Certo».
Avevo fame, così
approfittai del momento per scendere nella caffetteria dell’ospedale, solo che,
appena arrivai lì e sentii l’odore del cibo, fui presa da una nausea terribile
e mi portai una mano alla bocca.
In quel momento notai
uno strano movimento diversi metri davanti a me e, alzano lo sguardo, vidi mio
padre, Chris, Adam, Megan e il signor Williams alzarsi da un tavolo.
Oh, Cristo.
«Chelsea!», mi
abbracciò mio padre.
«Papà, cosa ci fate
qui tutti voi?», ci allontanammo dall’ambiente rumoroso del bar perché diverse
teste avevano cominciato a voltarsi verso di noi e, quando fummo distanti, fu
Chris a prendere parola.
«Cosa ci facciamo
qui? Ti rendi conto di cosa hai fatto ieri sera?! Chelsea, ti potevi
ammazzare!».
Notai appena che
aveva una mano fasciata. La stessa mano che la sera prima aveva sbattuto sullo
sportello dell’auto nel tentativo di fermarmi. Il senso di colpa cominciò a
insinuarsi dentro di me.
Il suo tono era così
alto, che comunque attirò l’attenzione di un gruppo di medici che in quel
momento passavano da lì.
«Ok, Incredibile Hulk, ti si stanno gonfiando
le vene sul collo, è meglio se vieni
fuori con me e ti calmi un po’, eh?», disse Adam prendendo il fratello
minore per una spalla e trascinandolo via.
Per un momento, calò
un silenzio teso, poi mio padre disse: «Non siamo riusciti a far fare a Ryan un
discorso sensato, Chelsea. Ora… potresti raccontarci tutto?».
«Ma Ryan dov’è?».
«È a casa sua,
adesso. Siamo tornati con due macchine, questa notte; Traver e Adam sono stati
così gentili da accompagnarci, dal momento che tu mi hai rubato l’auto», disse
con un tono così serio che mai gli avevo sentito prima di allora.
«Lo avete lasciato da
solo?!».
«No, Chelsea. Tua
madre e Shereen sono con lui. Ora, per favore, raccontaci tutto».
Ci sedemmo fuori, nel
parco e Adam e Chris ci raggiunsero poco dopo; Chris respirava come se avesse
appena corso. Doveva aver fatto una bella sfuriata.
Così, iniziai il mio
racconto.
«È cominciato tutto
la mattina in cui voi ve ne siete andati. Gale è venuta a casa e… ».
«Questa Gale»,
m’interruppe subito mio padre, «… è la ragazza che ha curato Buster?».
«Sì, papà, è lei.
Insomma, è venuta a casa e… era stata picchiata dal suo convivente. Allora le
ho offerto di trasferirsi da me perché non le avrei mai permesso di tornare in
quella casa, ma a quanto pare… lui l’ha trovata lo stesso».
Mio padre chiuse gli
occhi e respirò a fondo.
«Chelsea… ti rendi
conto di cosa sarebbe potuto succedere se tu in quel momento fossi stata in
casa?».
In realtà no, non ci
avevo pensato e vidi anche Chris irrigidirsi.
«No, papà,
francamente… non ci ho pensato minimamente».
Non avevo mai visto
papà tanto sconvolto. Mi prese la testa tra le mani e, guardandomi negli occhi,
disse: «Io ho già rischiato di perderti due volte solo nelle ultime settimane,
Chelsea. Prima l’incidente, poi quel pazzo armato che ha aggredito te e Ryan».
«Aspetta, cosa?», era
stato Adam a parlare, ma Chris lo zittì con un’occhiataccia.
«Senza contare il
fatto che una figlia, io l’ho già
persa, Chelsea. La tua gemella. Sunshine».
A quelle parole,
tutti impallidirono. Neanche Chris ne sapeva niente; ma d’altro canto… anch’io
ne ero a conoscenza da poche settimane.
Gli presi una mano e
la tenni stretta fra le mie.
«Lo so, ma ti
prometto che non perderai anche me, papà», detto questo lo abbracciai.
Chiusi gli occhi e
poi mi sciolsi dalla sua stretta.
«Ora è meglio se
torno in terapia intensiva, il medico era appena passato per visitare Gale,
vorrei sapere come sta. E credo di dover avvertire i suoi genitori, tra
l’altro».
«Questo lo posso fare
io», si offrì Megan.
«Sono un medico che
lavora in rianimazione, Chelsea, sono abituata a dire alla gente cose che non
vorrebbe sentire».
«Mi faresti un grande
favore, davvero, ma devo prima trovare il suo cellulare».
«È strano che non sia
stato l’ospedale a chiamarli», osservò il signor Williams.
«L’infermiera della
notte, ha detto solo che nel suo portafogli hanno trovato un biglietto che mi
indicava come suo contatto di emergenza, probabilmente perché lei è
dell’Alabama».
«Va bene, allora…
vado a sentire il medico e poi andiamo a casa, devo togliermi queste dannate
scarpe».
Erano praticamente
due giorni che camminavo su quei tacchi e i miei piedi e le mie caviglie
cominciavano a risentirne.
«D’accordo».
Megan fu molto
gentile, mi accompagnò di sopra e parlò lei stessa con il medico.
Comunque, non c’era
ancora nulla di certo, molto sarebbe dipeso da come le cose si sarebbero
evolute nei prossimi due giorni.
Durante il tragitto
fino a casa, io salii in macchina con Adam, mio padre e Chris, mentre Megan
andò con suo padre.
Chris era seduto davanti
insieme a suo fratello, mentre, sui sedili posteriori, papà mi accarezzava la
testa, sussurrando parole che io non capivo perché troppo intontita dal sonno.
Notai a stento Chris
che si voltava e la sua mano sana a prendere la mia.
Ricambiai la stretta,
debolmente e gli sorrisi.
Mimai un “grazie” con
la bocca e lui rafforzò la presa sulla mia mano.
Vidi dallo
specchietto retrovisore gli occhi di Adam che osservavano le nostre dita
intrecciate e in un primo momento mi sentii in imbarazzo, poi mandai tutto al
diavolo. Come se già non avesse capito…
Entrare nella casa
del nonno fu uno shock, dal momento in cui si era trasformata in una specie di
teatro dell’orrore.
Sbiancai e mi sentii
mancare le forze; dovevo avere un calo di pressione, mi succedeva spesso ultimamente.
Chris notò il mio
movimento, come se stessi per svenire da un momento all’altro e subito mi posò
una mano alla base della schiena per sorreggermi.
«Chelsea?».
«È tutto a posto,
Chris. Tranquillo».
«Non è tutto a posto.
Hai l’aria di una che sta per svenire o per vomitare».
Gli lanciai uno
sguardo obliquo e scossi la testa in segno negativo.
«Ho solo bisogno di
riposo e di togliermi questi stupidi tacchi».
Detto questo, mi
avviai in camera mia, presi qualche vestito e poi… «Buster!», esclamai.
Tornai di corsa
nell’ingresso e chiesi a mio padre: «Dov’è Buster?!».
«Tranquilla, Chelsea,
lo abbiamo portato da Ryan. Buster sta bene».
Sospirai.
Non avevo mai pensato
a lui da quando avevo saputo di Gale.
Tornai su, mi cambiai
con un paio di pantaloncini e una canottiera nera e poi cercai il cellulare di
Gale.
Lo trovai in cucina,
sul pavimento e per fortuna funzionava ancora.
Scrissi il numero
salvato sotto “Mamma”, su un pezzo di carta e lo porsi a Megan.
«Ecco qua».
Lei mi sorrise
gentilmente.
«Grazie».
«No. Grazie a te.
Grazie a tutti voi, in realtà e… mi dispiace tanto… ho trasformato la vostra
cena in un incubo, mi dispiace».
Con mia sorpresa, il
signor Williams mi abbracciò.
«Non lo dire nemmeno,
Chelsea. Dispiace a noi per tutto quello
che è successo».
Sospirai, poi ci
avviammo fuori, verso casa di Ryan.
Quando arrivai,
Buster era in giardino e subito corse verso di me, saltandomi addosso e
facendomi quasi perdere l’equilibrio; fu Chris a impedirmi di cadere,
mettendomi di nuovo una mano sulla schiena.
Di solito ero
abituata a reggere il peso del mio cane, ma adesso avevo i riflessi lenti ed
ero sfinita.
Mia madre venne ad
abbracciarmi subito e Shereen mi chiese come stessi.
Mi informai sulle
condizioni di Ryan, e loro mi dissero che non aveva più fatto un discorso
sensato da quando ero scappata via, la sera prima.
Andai nella camera
del mio amico e lo trovai sdraiato sul letto, gli occhi chiusi. Forse stava
dormendo.
Feci per voltarmi ed
andare via, quando lo sentii chiamarmi.
«Chelsea?».
Mi girai di nuovo e
gli sorrisi.
In quel momento
arrivarono i miei genitori, Adam e Chris.
«Gale è morta?», mi
chiese atono.
Subito gli andai
vicino e lo abbracciai.
«No, Ryan. No. Gale è
viva».
Lo sentii sospirare
di sollievo e mi strinse forte, facendomi mancare il respiro.
«Cerca di dormire
adesso, d’accordo?».
Il ragazzo annuì.
«Dovresti dormire
anche tu, Chelsea. Sei proprio pallida… ».
A sorpresa, quelle
parole vennero da Adam.
Feci cenno di sì con
il capo e mi sistemai meglio sul letto del mio amico.
Ci addormentammo
così, vicini e tremendamente stanchi.
Quando mi svegliai,
Ryan era ancora immobile nella posizione in cui lo avevo trovato; il suo petto
si alzava e si abbassava regolarmente, così, decisi di tornare a casa mia,
indossare qualcosa di più consono che un paio di pantaloncini e tornare in
ospedale per controllare come stesse Gale.
Casa Kenyon era
silenziosa, strano, chissà dov’erano andati tutti gli altri. Probabilmente i
parenti di Chris erano tornati a casa, pensai.
L’unico che trovai fu
Buster, che mi venne vicino tutto contento. Gli accarezzai la testa, dietro le
orecchie e poi tornai a casa.
Fu lì che trovai la
mia famiglia, Chris e i suoi, intenti a ripulire la cucina dal sangue di Gale.
«Chelsea!».
La prima ad
accorgersi di me, fu Megan e subito gli altri arrivarono in atrio.
«Ciao», li salutai.
«Cosa fai qui,
tesoro?», chiese mia madre.
«Mi cambio e vado in
ospedale».
«Sei sicura? Credo
che dovresti riposare».
Sorrisi.
«No, mamma. Sto bene,
davvero, ho dormito praticamente tutto il pomeriggio. Prendo solo… cavolo,
papà, ho lasciato la tua macchina in ospedale, visto che stamattina sono
tornata con voi… ».
«Allora ti
accompagno», si offrì subito Adam.
«Mi sembra di aver
approfittato anche troppo di voi».
«Ma figurati. Vado a prendere
la macchina a casa di Ryan, nel frattempo, tu preparati».
«D’accordo, grazie
allora».
Quando tornai al
piano inferiore, tutti erano tornati a pulire la casa, compresa Shereen, cosa
che non aveva mai fatto e a quel punto, le chiesi un favore: «Shereen, senti…
potresti tornare da Ryan? Vorrei che avesse vicino qualcuno che conosce, quando
si sveglia».
Lei sorrise, un
sorriso vero, quindi per lei molto raro.
«Ma certo».
«Grazie. Chris, hai
voglia di andare anche tu?».
Il ragazzo mi guardò
sorpreso.
«Sicura? Magari posso
venire in ospedale con te… ».
«Ti ringrazio, ma…
Ryan adesso ha più bisogno di quanto ne abbia io. E poi ci sarà tuo fratello
con me».
Lui annuì, poi si
avviò fuori con mia sorella ed io uscii per aspettare che Adam tornasse a
prendermi.
Quando arrivò, salii
nella sua auto; ero imbarazzata per tutto ciò che era successo dalla cena della
sera precedente fino ad ora, così fu lui a rompere quel silenzio.
«Cosa c’è, Chelsea?».
«Niente, io… mi
dispiace per tutto quello che è successo da ieri sera fino ad ora».
«Non è stata colpa
tua».
«Non mi riferisco
solo a dopo l’arrivo di Ryan. Insomma… anche prima… ho reso la cena di tua
madre un completo disastro».
«Oh, no, mia madre ha
detto che le piaci».
«Che cosa?».
«Ti assicuro che sono
state parole sue. L’unico momento in cui credo abbia avuto un po’ di
tentennamenti, è stato quando Chris si è messo al tuo inseguimento dopo che sei
fuggita in auto. Lì si è spaventata a morte, ma penso che per il resto tu le
sia piaciuta. Sicuramente hai colpito Jenna; lei ha detto che sei forte».
Ero davvero stupita,
poi Adam continuò.
«Sai, lei è un po’ la
ribelle della famiglia; credo abbia ammirato il tuo lanciarti in strada per
correre dalla tua amica. Holly invece ha detto che sei strana. Che sei
simpatica, ma strana».
Mi misi a ridere.
«Le ho sentite
stamattina, e… sai… dopo che ti sei data alla fuga, è successo un po’ un
trambusto a casa».
Sospirai. Non sapevo
se volevo sentire il resto, ma Adam mi anticipò.
«Beh, tu sei
scappata; a tua madre stava per venire un collasso e tuo padre sarebbe stato
capace di demolire qualunque cosa in quel momento. È stata Shereen a dire a
Chris che seguirti in macchina sarebbe stato meglio».
«Shereen?».
«Già. Io… non so
esattamente quale rapporto ci sia tra te e tua sorella, ma… lei ti vuole bene,
Chelsea. Forse in un modo un po’ strano, ma ti vuole bene».
Adam accelerò per
superare un’auto e fui colta di nuovo da un senso di nausea. Dovevo
assolutamente mangiare qualcosa, altrimenti non mi sarei retta in piedi.
«Stai bene? Sei un
po’ pallida… », osservò l’uomo.
«Dovrei mangiare. Ti
dispiace se ci fermiamo al bar dell’ospedale?».
«No, per niente.
Insomma… le uniche a restare calme, in tutta quella situazione ieri sera, erano
tua sorella e Megan. Chris stava completamente dando i numeri; sospetto che
stesse iniziando a pensare cosa scrivere nel tuo elogio funebre», continuò con
un mezzo sorriso molto simile a quello del fratello.
«Il fatto che il tuo
amico, Ryan, non fosse in grado di fare un discorso sensato, poi, non aiutava
di certo. Non riuscivamo a capire che diavolo fosse successo, così, alla fine,
abbiamo ascoltato tua sorella e siamo partiti per venire a Santa Barbara».
«E come mai siete
venuti anche tu e Megan?».
«Beh, essendo un
medico, Megan ha ritenuto che fosse meglio per accertarsi delle condizioni
della tua amica, mentre io dovevo guidare l’altra macchina, dal momento che
Chris non era nelle condizioni per prendere la sua. Ad ogni modo, credo che
sarei venuto ugualmente; come dicevo ieri sera… proteggo la famiglia ed ora
anche tu ne fai parte. Ma ti prego, Chelsea… non partire più facendo la matta,
ok?».
Risi.
«Ma sentilo! Ci siamo
conosciuti tipo… ieri? E già mi chiami matta».
«Non è colpa mia, hai
fatto tutto da sola».
Scossi la testa,
divertita e in quel momento, Adam entrò nel parcheggio dell’ospedale; la
macchina di mio padre era ancora lì dove l’avevo lasciata.
«Cos’è successo poi?
Ieri sera, intendo… ».
«Beh, siamo partiti
quando la situazione si è fatta un po’ più tranquilla, anche se Chris
continuava a prendermi a insulti perché stavamo solo perdendo tempo. Sa essere
un vero rompipalle, alle volte. Comunque… siamo partiti e siamo arrivati qui a
Santa Barbara verso le quattro di mattina. Dopodiché abbiamo portato Ryan a
casa e siamo stati da lui fino alle sette; io e Chris siamo rimasti svegli
mentre tutti gli altri hanno riposato un po’. La mattina, in ospedale,
naturalmente non ci hanno detto nulla su dove si trovasse Gale, dal momento in
cui non sapevamo nemmeno il suo cognome, perciò… abbiamo aspettato e a quel
punto, tu ci hai trovati al bar».
«Ho capito. Beh, vuoi
venire su dopo mangiato?».
«Io… in realtà non
amo molto gli ospedali, ma ti aspetto qui, se per te non è un problema».
«Nessun problema, non
ti preoccupare».
Ordinai un toast alla
cassa e lo finii in due minuti, ero davvero affamata e poi mi sentii subito
meglio; anche la nausea si attenuò.
Dopo qualche minuto,
mi avviai verso il reparto di terapia intensiva.
Stavolta però,
davanti la porta della stanza di Gale, trovai due poliziotti.
«Buongiorno», li
salutai.
Loro ricambiarono, ma
sembravano piuttosto intenzionati a non lasciarmi passare.
«Dovrei entrare… ».
«Lei chi è,
signorina?».
A quel punto, venne
in mio soccorso lo stesso medico di quella mattina, che disse loro che io ero
il contatto d’emergenza di Gale.
«Perché la polizia?»,
chiesi al dottore quando fui entrata nella stanza.
«Perché in questo
momento, al piano di sotto, è ricoverato anche l’aggressore di Gale».
«Che cosa?!».
«Sì, è stato trovato
ieri sera… ha raccontato che un cane lo ha aggredito nella casa in cui ha
trovato la ragazza».
Sbiancai.
«Un cane?».
«Sì».
Buster.
«Probabilmente è
stato lui a fare la differenza tra la vita e la morte, per la sua amica. E poi
dicono che gli animali sono stupidi… ».
«Già… ».
«La signorina Sykes
deve avere un cane molto fedele».
«È mio, in realtà.
Gale lo ha… curato, qualche settimana fa, quindi immagino che sia stato lui a
difenderla».
L’espressione del
medico era stupita.
«Beh… io darei una
medaglia al valore, al suo cane».
“Anch’io”, pensai in
quel momento.
Prima aveva salvato
la vita di Ryan. Ora quella di Gale. Buster era davvero il mio eroe.
Mi riscossi dai miei
pensieri e chiesi: «Riguardo a lei… ci sono novità, miglioramenti?».
«I parametri vitali
sono migliorati, ma il coma… non saprei dirle, signorina. L’ortopedico dice che
le fratture non sono preoccupanti, anche se sono molte. Qualche mese e dovrebbe
tornare come nuova. Inutile dire che quelle sono il problema minore, con tutte
le complicanze in cui può incorrere. Gli organi sono provati».
«E i reni?».
«Per dirlo è ancora
presto».
Presi una mano della
mia amica e le accarezzai i capelli.
«Lei è forte. Ce la
farà».
Non sapevo se in quel
momento stessi cercando di convincere più me stessa che qualcun altro.
Restai con Gale
ancora un po’ e, quando tornai al bar, trovai Adam a bere un caffè leggendo la
pagina sportiva di un giornale.
Quando mi vide, si
alzò in piedi.
«Come sta la tua
amica?».
«Il dottore dice che
è ancora troppo presto per parlare, anche se i parametri stanno migliorando».
Adam sospirò.
«Vedrai, starà bene».
«Lo spero tanto»,
risposi.
A quel punto estrassi
le chiavi della macchina di mio padre e mia avviai in quella direzione.
«Ci vediamo a casa?».
«Certo».
Quando arrivammo,
erano tutti lì, anche Ryan, che adesso sembrava più lucido e venne subito ad
abbracciarmi.
«Come sta?», mi
chiese.
«Resiste».
Lo presi per mano e
ci sedemmo sul divano.
Erano tutti lì,
compreso Buster e, quando lo vidi, lo abbracciai d’impeto.
«Chelsea, che cosa
fai?», chiese mia madre, sorpresa da quel mio gesto.
«Il dottore mi ha
detto che l’uomo che ha aggredito Gale, è stato ferito da un cane, qui, a casa,
mentre le faceva… tutto quello che le ha fatto. E ha detto che se non fosse
stato per quel cane, probabilmente Gale sarebbe morta. Ryan, ora non sei più
l’unico a cui Buster ha salvato la vita, quest’estate».
Tutti erano
decisamente sbalorditi e anche Ryan venne ad abbracciarlo subito.
«Chelsea, sappi che
costruirò un monumento al tuo cane».
«È proprio il nostro
eroe, eh?», disse mio padre accarezzandogli la testa mentre lui, dal canto suo,
se ne stava lì tutto impettito a prendersi coccole adorazioni da ognuno dei
presenti.
Mangiammo insieme,
con il cuore un po’ più leggero e, la mattina seguente, Megan, Adam e il signor
Williams, ripartirono.
Adam mi disse che
sarebbe tornato a trovarmi nel giro di qualche settimana e mi lasciò il suo
numero di telefono, facendomi promettere che gli avrei chiamato non appena
avessi riavuto un cellulare.
Passarono un paio di
giorni, sembrava fosse tornato tutto alla normalità e i miei genitori, Chris e
Shereen si preparavano a ripartire, quando, una sera, Chris entrò nella mia
stanza, mentre cercavo su internet maggiori informazioni riguardo ai trapianti
di rene.
«Chelsea, non
cominciare a fare la paranoica», disse lui chiudendo il mio portatile.
Sospirai, lasciandomi
andare contro lo schienale della sedia.
«Non riesco a non
pensarci. Anzi, se vuoi la verità, è l’unica cosa a cui riesco a pensare».
Il ragazzo mi prese
per le spalle e qualcosa dentro di me si agitò.
In quei giorni ero
stata troppo presa da quell’assurda situazione tanto da non badarci nemmeno a
Chris, ma ora i miei sentimenti nei suoi confronti, iniziavano a farsi sentire
di nuovo.
«Devi stare
tranquilla, ok? Promettimi che non ti farai venire ansie inutili e che se avrai
bisogno di qualcosa mi chiamerai, d’accordo?».
Sospirai.
«Ti chiamerò».
«Ora… vuoi prenderlo
o no il cellulare che ti ho comprato?»
Ancora con quel
dannato cellulare?! Avevo sottovalutato il ragazzo; non era uno che si
arrendeva tanto in fretta.
Così cedetti.
«Dammi quel maledetto
coso, almeno starai tranquillo», dissi aprendo una mano davanti a me.
Lui tirò fuori la
piccola scatola e me la porse.
«Sappi che comunque
non starò tranquillo. E, tanto per la cronaca… dov’è il tuo fantomatico notaio
palestrato?».
Gli lanciai uno
sguardo di traverso e mandai tutto al diavolo.
«Era una balla».
Lui sollevò le
sopracciglia, sorpreso.
«Tu non dici balle,
Chelsea… ».
«A quanto pare non mi
conosci poi così bene come credi… ».
Chris puntò i suoi
occhi chiari dritti nei miei.
«Davvero? Non saprei…
».
Fece una pausa, poi
riprese. «E perché mi avresti mentito?».
«Non è ovvio, Chris?
Per farti demordere da qualunque tuo intento. Quindi ora devi capire: torna a
casa, non pensare a me e vivi la tua vita con mia sorella».
«In modo che tu
potrai vivere la tua con mio fratello?».
A quelle parole
rimasi esterrefatta.
«Che cosa, scusa?!».
Lui rise
nervosamente.
«Credi che sia
stupido, Chelsea? Credi che non abbia notato il modo in cui vi guardavate in
questi giorni? O almeno… di come lui guardava te. Fin dalla mattina in cui ti
ha vista nel mio ufficio, in clinica».
«Senti, Chris… io non
so cosa tu pensi di aver visto, ma…
Adam non è interessato a me nel modo in cui credi tu».
Il ragazzo incrociò
le braccia al petto.
«Ma davvero? E in
quale altro modo dovrebbe essere interessato a te? Perché tu hai ventidue anni
e sei bella, intelligente e sexy. E lui ne ha ventisette ed è affascinante,
brillante e non vedo in quale modo potrebbe essere interessato a te, se non
quello».
Non potevo certo
dirgli che suo fratello in meno di due secondi aveva capito tutto.
«Lui… ha detto che mi
reputa parte della famiglia e… protegge la famiglia, quindi anche me. Come
potrebbe farlo con te, con Megan o con Holly. Quindi non cominciare a farti
strane idee».
Chris sembrava
stupito.
«Ad ogni modo… io
farò quello che mi hai chiesto, Chelsea: non ti scriverò, non mi farò sentire,
ma… se succede qualcosa, voglio che sia tu ad avvisarmi, è chiaro?».
«Se la metti in
questo modo… spero di non doverti sentire».
Chris scosse la
testa. Sorrideva, ma era un sorriso privo della minima gioia.
«Buonanotte, Chris»,
dissi poi, guardando altrove.
«Buonanotte, Chelsea…
».
Detto questo, il
ragazzo mi lasciò un bacio sulla guancia e sparì dalla mia camera.
Le settimane
trascorsero e la situazione a Santa Barbara era sempre tranquilla.
Io avevo avuto il
lavoro di cui Ryan mi aveva parlato, ognuno era tornato alla propria vita e
tutti i giorni, il mio amico ed io, andavamo a trovare Gale in ospedale, che
tuttavia non si svegliava.
Ryan stava davvero
cominciando a perdere le speranze e io pensavo a come avrei potuto
risollevarlo, quando, un giorno; Ben e suo padre tornarono dal centro in cui,
in tutti quei mesi, suo fratello era rimasto ricoverato dopo il brutto
incidente al barbecue di quell’estate.
Questo per lui fu di
grande conforto e, una sera, mentre ero a casa da sola a prepararmi la cena,
sentii suonare alla porta.
Erano le otto e
mezza, strano…
Quando aprii, mi
trovai davanti Alexander Kenyon.
«Buonasera», lo
salutai un po’ stupita.
«Ciao, Chelsea… ».
«Vuole entrare?».
«Oh, no. Ero solo
venuto a dirti… grazie. Grazie per tutto quello che hai fatto per Ryan in
questi mesi, per come ti sei presa cura di lui, nonostante tu abbia avuto un
lutto importante, in famiglia… ti sei sempre preoccupata per mio figlio».
Sorrisi.
«Io voglio bene a
Ryan».
«E lui ne vuole a te.
Te ne vuole davvero tanto».
Il signor Kenyon mi
abbracciò, poi, andò via ed io tornai alla mia cena.
Non avevo molta fame,
quella sera.
In realtà era da
tempo che avevo perso l’appetito; forse per tutto quello che stava succedendo,
lo stress accumulato, la situazione tesa che c’era stata in quei mesi, ma ero
dimagrita e stavo sballando anche i ritmi del sonno.
Mi addormentavo tardi
e mi svegliavo presto, come risultato, la mattina avevo sempre dolorosi cerchi
alla testa e nausea ricorrente.
Sospirai.
Consumai la mia cena
in silenzio, ero nervosa.
Nervosa perché dovevo
fare una cosa che sapevo avrei dovuto fare da tempo.
Una cosa che, in
quelle settimane, avevo ignorato, sperando che così facendo, non accadesse ciò
che temevo.
Non lo potevo più
fare, ignorarlo non avrebbe cambiato la verità dei fatti e… prima mi sarei
tolta quel pensiero, meglio sarebbe stato.
Almeno, anche se
avessi avuto la risposta di cui più avevo paura; una volta avuto conferma o
meno, avrei potuto agire di conseguenza.
Mi alzai da tavola
lasciando tutto in disordine e mi avviai in camera mia.
Mi avvicinai al
cassetto del mio comodino e tirai fuori una familiare scatola di carta che, non
appena avevo comprato, non avevo più avuto il coraggio di guardare e l’avevo
lasciata lì.
Andai in bagno,
cominciando già a respirare affannosamente e aprii il test di gravidanza con
mano tremante.
Seguii le istruzioni
ed attesi; sulla confezione c’era scritto che avrebbe dato il risultato dopo
due minuti.
Una volta fatto, lo
appoggia sul lavandino ed aspettai.
Uno,
due, tre, quattro…
Note
dell’Autrice:
E
così finisce anche il capitolo 18. Questo direi che è stato un po’ di transito,
viene spiegato cosa è successo a Gale, ma ancora non si sa nulla di preciso.
Fatemi
sapere cosa ne pensate e… al prossimo capitolo!
DAL
CAPITOLO 19:
“I suoi occhi erano
tristi come non li avevo ancora visti in quei mesi.
Mi prese una mano tra le sue e, guardandomi intensamente,
disse: «Chelsea, qualche volta, quando senti di non potercela fare da sola, non
per forza ti devi allontanare. Qualche volta, chiedere aiuto va bene. Qualche
volta, si ha solo bisogno di qualcuno
che accetti di venire con te, anche quando la via che stai prendendo, è
completamente sbagliata».
«Ryan… », la mia voce si spezzò. «Non te lo posso permettere.
Tu non capisci. Non capisci che anche i miei genitori, che hanno sempre voluto
tenermi il più possibile vicino a loro, dopo ciò che è successo a Sunshine,
hanno accettato di lasciarmi qui? Non ti rendi conto che anche loro hanno
preferito allontanarsi da me? Io non
sono più la figlia che hanno cresciuto».”