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Autore: Clira    20/07/2014    2 recensioni
DAL CAPITOLO 11:
«Hai capito bene, Chelsea. Io… io non lo so. Viviamo sotto lo stesso tetto da tre settimane ormai, ancora un’altra e poi torneremo alle nostre vecchie vite e forse ci lasceremo alle spalle queste assurde vacanze, ma io ricorderò. Io ricorderò ogni singolo istante quando ci incontreremo nei corridoi, in atrio o alla mensa. Ricorderò la tua voce, la musica e la paura. Ricorderò com’è restare senza fiato. Ricorderò il tuo aspetto appena ti svegli la mattina e i tuoi pigiami improponibili. Ricorderò l’odore della tua pelle dopo una doccia e la luce nei tuoi occhi. Ricorderò la ruga che ti si forma sulla fronte mentre ti concentri su qualcosa e il modo buffo che hai di toglierti i capelli dalla faccia soffiandoci sopra. E per me sarà impossibile dimenticare queste settimane. Ma se tu lo vuoi, io farò finta di dimenticare».
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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18  






CAPITOLO 18: IN FUGA

 

Fu un secondo, solo un secondo.

Ryan parlò, rivelandomi quell’orribile verità ed il mio corpo agì prima di quanto potessi rendermi conto.

Strappai di mano a mio padre le chiavi della macchina che aveva estratto dalla tasca e iniziai a correre verso il veicolo.

«Chelsea!».

Fu più un grido, che un richiamo e non capii se fosse stato mio padre, Chris oppure Adam, o magari tutti e tre insieme.

In mezzo c’era stata una voce femminile, probabilmente mia madre, come forse anche Shereen. Non m’importava, perché ero già arrivata alla macchina, l’avevo messa in moto e stavo uscendo dal parcheggio. Sfrecciai nella strada sgombra, passando di fianco al marciapiede su cui erano tutti radunati, ma ignorai i cenni di mio padre, le urla di mia madre e la corsa di Chris, che provò a seguire la macchina per qualche metro, ma ero talmente veloce che il ragazzo si fermò quasi subito, dopo aver colpito con una mano la fiancata dell’auto, mentre sfrecciavo loro vicino.

Ryan era rimasto fermo immobile, davanti agli occhi avevo ancora il suo sguardo  spento.

Perché lui aveva perso sua madre.

Aveva quasi perso suo fratello.

Non poteva perdere la donna che amava.

Come poteva, il mondo, funzionare così maledettamente al contrario?!

Cambiavo marcia velocemente e non davo la precedenza agli stop; se la polizia mi avesse fermata, mi avrebbero ritirato la patente. Continuando a quella velocità però, mi sarei schiantata contro un muro molto prima.

Non m’importava neanche di quello.

Dovevo arrivare a casa, dovevo arrivare dalla mia amica, dalla mia coinquilina. Da lei che in quei giorni mi aveva aiutato a non pensare a Chris, che mi aveva detto di trovare un uomo con cui uscire e dimenticare il ragazzo che non potevo avere.

Lei aveva bisogno di me e Ryan aveva bisogno che andassi da lei.

Duecento all’ora, il motore della BMW di mio padre ruggiva.

Le poche macchine che incontrai, sterzarono bruscamente al mio passaggio ed io mi presi non so quale insulto dai loro proprietari.

Il cuore continuava a martellare nel petto; avevo lasciato a casa una Gale sorridente, con la faccia ancora gonfia dalla prima lite, ma in via di guarigione.

Lo avevamo denunciato, quel bastardo; perché non gli avevano fatto niente?

Come avrei trovato la mia amica, una volta tornata a Santa Barbara? Ma soprattutto… l’avrei ritrovata?

Non ci volli nemmeno pensare e spinsi il piede ancora più a fondo sull’acceleratore. Dannati tacchi.

Il paesaggio sfrecciava fuori dal finestrino ad una velocità tale che non riuscivo nemmeno a capire dove diamine fossi, ma non riuscivo a rallentare. Dovevo andare veloce, dovevo arrivare presto perché altrimenti temevo che sarebbe stato troppo tardi.

“Forza, forza, forza!”, era l’unica cosa a cui riuscivo a pensare.

Ad un tratto premetti qualche bottone e si aprì il tettuccio della macchina, facendo svolazzare i miei capelli in tutte le direzioni.

Non rallentai fino a trovarmi davanti il familiare paesaggio di Santa Barbara, ormai ero quasi arrivata.

Guardai l’orologio sul computer di bordo: erano le due di mattina.

Entrando nel parcheggio dell’ospedale, notai un’ambulanza che partiva a sirene spiegate.

“Non c’è mai fine”, fu l’unica cosa a cui riuscii a pensare.

Spensi il motore dell’auto e richiusi il tettuccio.

Camminai fino ad entrare nel grande ospedale che ormai conoscevo bene e m’informai su dove fosse la mia amica.

Terapia intensiva. Uno dei reparti peggiori, a parer mio.

Almeno era viva.

Quando arrivai nel reparto, un’infermiera mi venne incontro con aria ammonitrice.

«Signorina, è molto tardi! Non si possono ricevere visite a quest’ora».

«Per favore, la mia amica è stata ricoverata qui in giornata e io l’ho appena saputo. Sono arrivata adesso da Phoenix».

«Chi è “la sua amica”, intanto?».

In quel momento, tutta la mia stanchezza si fece sentire.

«Si chiama Gale. Gale Sykes, è stata aggredita».

Ora l’espressione dell’infermiera si fece più comprensiva.

«Lei per caso è Chelsea Gaver?».

La guardai, confusa.

«Sì, sono io… come fa a… ».

«Nel portafoglio della sua amica abbiamo trovato un biglietto che la indicava come suo contatto d’emergenza. Abbiamo provato a chiamarla tutto il pomeriggio, ma diceva che il suo telefono era spento».

Sospirai.

«Il mio telefono è rotto».

«Venga pure, la sua amica è di qua».

Seguii l’infermiera; il rumore dei miei tacchi sembrava un colpo di cannone in quel silenzio assordante.

Quando entrammo nella stanza, restai paralizzata.

Gale era collegata a macchine e tubi e ad un respiratore.

«Come sta?», le chiesi temendo la risposta.

L’infermiera sospirò.

«È presto per dirlo. Dobbiamo vedere come reagisce ai farmaci, ha riportato diverse fratture, domani verrà a visitarla un medico ortopedico e poi è da valutare. Se tutto procede bene, se si sveglierà, in qualche mese uscirà da qui, ma in un caso come il suo è estremamente improbabile che non insorgano complicanze».

Se si sveglierà”.

Quelle parole continuarono a rimbombarmi in testa, ma le scacciai.

«Complicanze di che genere?».

«L’ipotesi peggiore sarebbe se i reni avessero riportato lesioni importanti. Dovremo tenerla monitorata e, nel caso si verifichi un’insufficienza renale, allora sarà messa in lista d’attesa per un trapianto».

Per due anni avevo lavorato in una clinica medica, sapevo cosa avrebbe comportato tutta quella situazione e i tempi d’attesa potevano essere davvero lunghi.

«Grazie», le dissi soltanto.

Entrai nella stanza e richiusi la porta alle mie spalle.

Mi avvicinai al letto della mia amica e le accarezzai il volto appena sfiorandolo.

Avevo paura di farle male solo a starle vicino.

Presi la poltrona accanto al letto e la posizionai in modo da potermici poggiare sopra.

Con una mano afferrai quella di Gale  e poi misi la testa tra le braccia.

Così, mi addormentai.

Venni svegliata la mattina dopo da una lieve pressione sulla mia spalla e, voltandomi, mi trovai davanti un uomo in camice bianco con un sorriso gentile.

«Buongiorno», mi salutò lui.

«Buongiorno», il mio tono era assonnato e, in più, dovevo avere un aspetto orribile.

«Potrebbe accomodarsi fuori qualche minuto? Vorrei visitare la sua amica».

«Certo».

Avevo fame, così approfittai del momento per scendere nella caffetteria dell’ospedale, solo che, appena arrivai lì e sentii l’odore del cibo, fui presa da una nausea terribile e mi portai una mano alla bocca.

In quel momento notai uno strano movimento diversi metri davanti a me e, alzano lo sguardo, vidi mio padre, Chris, Adam, Megan e il signor Williams alzarsi da un tavolo.

Oh, Cristo.

«Chelsea!», mi abbracciò mio padre.

«Papà, cosa ci fate qui tutti voi?», ci allontanammo dall’ambiente rumoroso del bar perché diverse teste avevano cominciato a voltarsi verso di noi e, quando fummo distanti, fu Chris a prendere parola.

«Cosa ci facciamo qui? Ti rendi conto di cosa hai fatto ieri sera?! Chelsea, ti potevi ammazzare!».

Notai appena che aveva una mano fasciata. La stessa mano che la sera prima aveva sbattuto sullo sportello dell’auto nel tentativo di fermarmi. Il senso di colpa cominciò a insinuarsi dentro di me.

Il suo tono era così alto, che comunque attirò l’attenzione di un gruppo di medici che in quel momento passavano da lì.

«Ok, Incredibile Hulk, ti si stanno gonfiando le vene sul collo, è meglio se vieni  fuori con me e ti calmi un po’, eh?», disse Adam prendendo il fratello minore per una spalla e trascinandolo via.

Per un momento, calò un silenzio teso, poi mio padre disse: «Non siamo riusciti a far fare a Ryan un discorso sensato, Chelsea. Ora… potresti raccontarci tutto?».

«Ma Ryan dov’è?».

«È a casa sua, adesso. Siamo tornati con due macchine, questa notte; Traver e Adam sono stati così gentili da accompagnarci, dal momento che tu mi hai rubato l’auto», disse con un tono così serio che mai gli avevo sentito prima di allora.

«Lo avete lasciato da solo?!».

«No, Chelsea. Tua madre e Shereen sono con lui. Ora, per favore, raccontaci tutto».

Ci sedemmo fuori, nel parco e Adam e Chris ci raggiunsero poco dopo; Chris respirava come se avesse appena corso. Doveva aver fatto una bella sfuriata.

Così, iniziai il mio racconto.

«È cominciato tutto la mattina in cui voi ve ne siete andati. Gale è venuta a casa e… ».

«Questa Gale», m’interruppe subito mio padre, «… è la ragazza che ha curato Buster?».

«Sì, papà, è lei. Insomma, è venuta a casa e… era stata picchiata dal suo convivente. Allora le ho offerto di trasferirsi da me perché non le avrei mai permesso di tornare in quella casa, ma a quanto pare… lui l’ha trovata lo stesso».

Mio padre chiuse gli occhi e respirò a fondo.

«Chelsea… ti rendi conto di cosa sarebbe potuto succedere se tu in quel momento fossi stata in casa?».

In realtà no, non ci avevo pensato e vidi anche Chris irrigidirsi.

«No, papà, francamente… non ci ho pensato minimamente».

Non avevo mai visto papà tanto sconvolto. Mi prese la testa tra le mani e, guardandomi negli occhi, disse: «Io ho già rischiato di perderti due volte solo nelle ultime settimane, Chelsea. Prima l’incidente, poi quel pazzo armato che ha aggredito te e Ryan».

«Aspetta, cosa?», era stato Adam a parlare, ma Chris lo zittì con un’occhiataccia.

«Senza contare il fatto che una figlia, io l’ho già persa, Chelsea. La tua gemella. Sunshine».

A quelle parole, tutti impallidirono. Neanche Chris ne sapeva niente; ma d’altro canto… anch’io ne ero a conoscenza da poche settimane.

Gli presi una mano e la tenni stretta fra le mie.

«Lo so, ma ti prometto che non perderai anche me, papà», detto questo lo abbracciai.

Chiusi gli occhi e poi mi sciolsi dalla sua stretta.

«Ora è meglio se torno in terapia intensiva, il medico era appena passato per visitare Gale, vorrei sapere come sta. E credo di dover avvertire i suoi genitori, tra l’altro».

«Questo lo posso fare io», si offrì Megan.

«Sono un medico che lavora in rianimazione, Chelsea, sono abituata a dire alla gente cose che non vorrebbe sentire».

«Mi faresti un grande favore, davvero, ma devo prima trovare il suo cellulare».

«È strano che non sia stato l’ospedale a chiamarli», osservò il signor Williams.

«L’infermiera della notte, ha detto solo che nel suo portafogli hanno trovato un biglietto che mi indicava come suo contatto di emergenza, probabilmente perché lei è dell’Alabama».

«Va bene, allora… vado a sentire il medico e poi andiamo a casa, devo togliermi queste dannate scarpe».

Erano praticamente due giorni che camminavo su quei tacchi e i miei piedi e le mie caviglie cominciavano a risentirne.

«D’accordo».

Megan fu molto gentile, mi accompagnò di sopra e parlò lei stessa con il medico.

Comunque, non c’era ancora nulla di certo, molto sarebbe dipeso da come le cose si sarebbero evolute nei prossimi due giorni.

Durante il tragitto fino a casa, io salii in macchina con Adam, mio padre e Chris, mentre Megan andò con suo padre.

Chris era seduto davanti insieme a suo fratello, mentre, sui sedili posteriori, papà mi accarezzava la testa, sussurrando parole che io non capivo perché troppo intontita dal sonno.

Notai a stento Chris che si voltava e la sua mano sana a prendere la mia.

Ricambiai la stretta, debolmente e gli sorrisi.

Mimai un “grazie” con la bocca e lui rafforzò la presa sulla mia mano.

Vidi dallo specchietto retrovisore gli occhi di Adam che osservavano le nostre dita intrecciate e in un primo momento mi sentii in imbarazzo, poi mandai tutto al diavolo. Come se già non avesse capito…

Entrare nella casa del nonno fu uno shock, dal momento in cui si era trasformata in una specie di teatro dell’orrore.

Sbiancai e mi sentii mancare le forze; dovevo avere un calo di pressione, mi succedeva spesso ultimamente.

Chris notò il mio movimento, come se stessi per svenire da un momento all’altro e subito mi posò una mano alla base della schiena per sorreggermi.

«Chelsea?».

«È tutto a posto, Chris. Tranquillo».

«Non è tutto a posto. Hai l’aria di una che sta per svenire o per vomitare».

Gli lanciai uno sguardo obliquo e scossi la testa in segno negativo.

«Ho solo bisogno di riposo e di togliermi questi stupidi tacchi».

Detto questo, mi avviai in camera mia, presi qualche vestito e poi… «Buster!», esclamai.

Tornai di corsa nell’ingresso e chiesi a mio padre: «Dov’è Buster?!».

«Tranquilla, Chelsea, lo abbiamo portato da Ryan. Buster sta bene».

Sospirai.

Non avevo mai pensato a lui da quando avevo saputo di Gale.

Tornai su, mi cambiai con un paio di pantaloncini e una canottiera nera e poi cercai il cellulare di Gale.

Lo trovai in cucina, sul pavimento e per fortuna funzionava ancora.

Scrissi il numero salvato sotto “Mamma”, su un pezzo di carta e lo porsi a Megan.

«Ecco qua».

Lei mi sorrise gentilmente.

«Grazie».

«No. Grazie a te. Grazie a tutti voi, in realtà e… mi dispiace tanto… ho trasformato la vostra cena in un incubo, mi dispiace».

Con mia sorpresa, il signor Williams mi abbracciò.

«Non lo dire nemmeno, Chelsea. Dispiace a  noi per tutto quello che è successo».

Sospirai, poi ci avviammo fuori, verso casa di Ryan.

Quando arrivai, Buster era in giardino e subito corse verso di me, saltandomi addosso e facendomi quasi perdere l’equilibrio; fu Chris a impedirmi di cadere, mettendomi di nuovo una mano sulla schiena.

Di solito ero abituata a reggere il peso del mio cane, ma adesso avevo i riflessi lenti ed ero sfinita.

Mia madre venne ad abbracciarmi subito e Shereen mi chiese come stessi.

Mi informai sulle condizioni di Ryan, e loro mi dissero che non aveva più fatto un discorso sensato da quando ero scappata via, la sera prima.

Andai nella camera del mio amico e lo trovai sdraiato sul letto, gli occhi chiusi. Forse stava dormendo.

Feci per voltarmi ed andare via, quando lo sentii chiamarmi.

«Chelsea?».

Mi girai di nuovo e gli sorrisi.

In quel momento arrivarono i miei genitori, Adam e Chris.

«Gale è morta?», mi chiese atono.

Subito gli andai vicino e lo abbracciai.

«No, Ryan. No. Gale è viva».

Lo sentii sospirare di sollievo e mi strinse forte, facendomi mancare il respiro.

«Cerca di dormire adesso, d’accordo?».

Il ragazzo annuì.

«Dovresti dormire anche tu, Chelsea. Sei proprio pallida… ».

A sorpresa, quelle parole vennero da Adam.

Feci cenno di sì con il capo e mi sistemai meglio sul letto del mio amico.

Ci addormentammo così, vicini e tremendamente stanchi.

Quando mi svegliai, Ryan era ancora immobile nella posizione in cui lo avevo trovato; il suo petto si alzava e si abbassava regolarmente, così, decisi di tornare a casa mia, indossare qualcosa di più consono che un paio di pantaloncini e tornare in ospedale per controllare come stesse Gale.

Casa Kenyon era silenziosa, strano, chissà dov’erano andati tutti gli altri. Probabilmente i parenti di Chris erano tornati a casa, pensai.

L’unico che trovai fu Buster, che mi venne vicino tutto contento. Gli accarezzai la testa, dietro le orecchie e poi tornai a casa.

Fu lì che trovai la mia famiglia, Chris e i suoi, intenti a ripulire la cucina dal sangue di Gale.

«Chelsea!».

La prima ad accorgersi di me, fu Megan e subito gli altri arrivarono in atrio.

«Ciao», li salutai.

«Cosa fai qui, tesoro?», chiese mia madre.

«Mi cambio e vado in ospedale».

«Sei sicura? Credo che dovresti riposare».

Sorrisi.

«No, mamma. Sto bene, davvero, ho dormito praticamente tutto il pomeriggio. Prendo solo… cavolo, papà, ho lasciato la tua macchina in ospedale, visto che stamattina sono tornata con voi… ».

«Allora ti accompagno», si offrì subito Adam.

«Mi sembra di aver approfittato anche troppo di voi».

«Ma figurati. Vado a prendere la macchina a casa di Ryan, nel frattempo, tu preparati».

«D’accordo, grazie allora».

Quando tornai al piano inferiore, tutti erano tornati a pulire la casa, compresa Shereen, cosa che non aveva mai fatto e a quel punto, le chiesi un favore: «Shereen, senti… potresti tornare da Ryan? Vorrei che avesse vicino qualcuno che conosce, quando si sveglia».

Lei sorrise, un sorriso vero, quindi per lei molto raro.

«Ma certo».

«Grazie. Chris, hai voglia di andare anche tu?».

Il ragazzo mi guardò sorpreso.

«Sicura? Magari posso venire in ospedale con te… ».

«Ti ringrazio, ma… Ryan adesso ha più bisogno di quanto ne abbia io. E poi ci sarà tuo fratello con me».

Lui annuì, poi si avviò fuori con mia sorella ed io uscii per aspettare che Adam tornasse a prendermi.

Quando arrivò, salii nella sua auto; ero imbarazzata per tutto ciò che era successo dalla cena della sera precedente fino ad ora, così fu lui a rompere quel silenzio.

«Cosa c’è, Chelsea?».

«Niente, io… mi dispiace per tutto quello che è successo da ieri sera fino ad ora».

«Non è stata colpa tua».

«Non mi riferisco solo a dopo l’arrivo di Ryan. Insomma… anche prima… ho reso la cena di tua madre un completo disastro».

«Oh, no, mia madre ha detto che le piaci».

«Che cosa?».

«Ti assicuro che sono state parole sue. L’unico momento in cui credo abbia avuto un po’ di tentennamenti, è stato quando Chris si è messo al tuo inseguimento dopo che sei fuggita in auto. Lì si è spaventata a morte, ma penso che per il resto tu le sia piaciuta. Sicuramente hai colpito Jenna; lei ha detto che sei forte».

Ero davvero stupita, poi Adam continuò.

«Sai, lei è un po’ la ribelle della famiglia; credo abbia ammirato il tuo lanciarti in strada per correre dalla tua amica. Holly invece ha detto che sei strana. Che sei simpatica, ma strana».

Mi misi a ridere.

«Le ho sentite stamattina, e… sai… dopo che ti sei data alla fuga, è successo un po’ un trambusto a casa».

Sospirai. Non sapevo se volevo sentire il resto, ma Adam mi anticipò.

«Beh, tu sei scappata; a tua madre stava per venire un collasso e tuo padre sarebbe stato capace di demolire qualunque cosa in quel momento. È stata Shereen a dire a Chris che seguirti in macchina sarebbe stato meglio».

«Shereen?».

«Già. Io… non so esattamente quale rapporto ci sia tra te e tua sorella, ma… lei ti vuole bene, Chelsea. Forse in un modo un po’ strano, ma ti vuole bene».

Adam accelerò per superare un’auto e fui colta di nuovo da un senso di nausea. Dovevo assolutamente mangiare qualcosa, altrimenti non mi sarei retta in piedi.

«Stai bene? Sei un po’ pallida… », osservò l’uomo.

«Dovrei mangiare. Ti dispiace se ci fermiamo al bar dell’ospedale?».

«No, per niente. Insomma… le uniche a restare calme, in tutta quella situazione ieri sera, erano tua sorella e Megan. Chris stava completamente dando i numeri; sospetto che stesse iniziando a pensare cosa scrivere nel tuo elogio funebre», continuò con un mezzo sorriso molto simile a quello del fratello.

«Il fatto che il tuo amico, Ryan, non fosse in grado di fare un discorso sensato, poi, non aiutava di certo. Non riuscivamo a capire che diavolo fosse successo, così, alla fine, abbiamo ascoltato tua sorella e siamo partiti per venire a Santa Barbara».

«E come mai siete venuti anche tu e Megan?».

«Beh, essendo un medico, Megan ha ritenuto che fosse meglio per accertarsi delle condizioni della tua amica, mentre io dovevo guidare l’altra macchina, dal momento che Chris non era nelle condizioni per prendere la sua. Ad ogni modo, credo che sarei venuto ugualmente; come dicevo ieri sera… proteggo la famiglia ed ora anche tu ne fai parte. Ma ti prego, Chelsea… non partire più facendo la matta, ok?».

Risi.

«Ma sentilo! Ci siamo conosciuti tipo… ieri? E già mi chiami matta».

«Non è colpa mia, hai fatto tutto da sola».

Scossi la testa, divertita e in quel momento, Adam entrò nel parcheggio dell’ospedale; la macchina di mio padre era ancora lì dove l’avevo lasciata.

«Cos’è successo poi? Ieri sera, intendo… ».

«Beh, siamo partiti quando la situazione si è fatta un po’ più tranquilla, anche se Chris continuava a prendermi a insulti perché stavamo solo perdendo tempo. Sa essere un vero rompipalle, alle volte. Comunque… siamo partiti e siamo arrivati qui a Santa Barbara verso le quattro di mattina. Dopodiché abbiamo portato Ryan a casa e siamo stati da lui fino alle sette; io e Chris siamo rimasti svegli mentre tutti gli altri hanno riposato un po’. La mattina, in ospedale, naturalmente non ci hanno detto nulla su dove si trovasse Gale, dal momento in cui non sapevamo nemmeno il suo cognome, perciò… abbiamo aspettato e a quel punto, tu ci hai trovati al bar».

«Ho capito. Beh, vuoi venire su dopo mangiato?».

«Io… in realtà non amo molto gli ospedali, ma ti aspetto qui, se per te non è un problema».

«Nessun problema, non ti preoccupare».

Ordinai un toast alla cassa e lo finii in due minuti, ero davvero affamata e poi mi sentii subito meglio; anche la nausea si attenuò.

Dopo qualche minuto, mi avviai verso il reparto di terapia intensiva.

Stavolta però, davanti la porta della stanza di Gale, trovai due poliziotti.

«Buongiorno», li salutai.

Loro ricambiarono, ma sembravano piuttosto intenzionati a non lasciarmi passare.

«Dovrei entrare… ».

«Lei chi è, signorina?».

A quel punto, venne in mio soccorso lo stesso medico di quella mattina, che disse loro che io ero il contatto d’emergenza di Gale.

«Perché la polizia?», chiesi al dottore quando fui entrata nella stanza.

«Perché in questo momento, al piano di sotto, è ricoverato anche l’aggressore di Gale».

«Che cosa?!».

«Sì, è stato trovato ieri sera… ha raccontato che un cane lo ha aggredito nella casa in cui ha trovato la ragazza».

Sbiancai.

«Un cane?».

«Sì».

Buster.

«Probabilmente è stato lui a fare la differenza tra la vita e la morte, per la sua amica. E poi dicono che gli animali sono stupidi… ».

«Già… ».

«La signorina Sykes deve avere un cane molto fedele».

«È mio, in realtà. Gale lo ha… curato, qualche settimana fa, quindi immagino che sia stato lui a difenderla».

L’espressione del medico era stupita.

«Beh… io darei una medaglia al valore, al suo cane».

“Anch’io”, pensai in quel momento.

Prima aveva salvato la vita di Ryan. Ora quella di Gale. Buster era davvero il mio eroe.

Mi riscossi dai miei pensieri e chiesi: «Riguardo a lei… ci sono novità, miglioramenti?».

«I parametri vitali sono migliorati, ma il coma… non saprei dirle, signorina. L’ortopedico dice che le fratture non sono preoccupanti, anche se sono molte. Qualche mese e dovrebbe tornare come nuova. Inutile dire che quelle sono il problema minore, con tutte le complicanze in cui può incorrere. Gli organi sono provati».

«E i reni?».

«Per dirlo è ancora presto».

Presi una mano della mia amica e le accarezzai i capelli.

«Lei è forte. Ce la farà».

Non sapevo se in quel momento stessi cercando di convincere più me stessa che qualcun altro.

Restai con Gale ancora un po’ e, quando tornai al bar, trovai Adam a bere un caffè leggendo la pagina sportiva di un giornale.

Quando mi vide, si alzò in piedi.

«Come sta la tua amica?».

«Il dottore dice che è ancora troppo presto per parlare, anche se i parametri stanno migliorando».

Adam sospirò. «Vedrai, starà bene».

«Lo spero tanto», risposi.

A quel punto estrassi le chiavi della macchina di mio padre e mia avviai in quella direzione.

«Ci vediamo a casa?».

«Certo».

Quando arrivammo, erano tutti lì, anche Ryan, che adesso sembrava più lucido e venne subito ad abbracciarmi.

«Come sta?», mi chiese.

«Resiste».

Lo presi per mano e ci sedemmo sul divano.

Erano tutti lì, compreso Buster e, quando lo vidi, lo abbracciai d’impeto.

«Chelsea, che cosa fai?», chiese mia madre, sorpresa da quel mio gesto.

«Il dottore mi ha detto che l’uomo che ha aggredito Gale, è stato ferito da un cane, qui, a casa, mentre le faceva… tutto quello che le ha fatto. E ha detto che se non fosse stato per quel cane, probabilmente Gale sarebbe morta. Ryan, ora non sei più l’unico a cui Buster ha salvato la vita, quest’estate».

Tutti erano decisamente sbalorditi e anche Ryan venne ad abbracciarlo subito.

«Chelsea, sappi che costruirò un monumento al tuo cane».

«È proprio il nostro eroe, eh?», disse mio padre accarezzandogli la testa mentre lui, dal canto suo, se ne stava lì tutto impettito a prendersi coccole adorazioni da ognuno dei presenti.

Mangiammo insieme, con il cuore un po’ più leggero e, la mattina seguente, Megan, Adam e il signor Williams, ripartirono.

Adam mi disse che sarebbe tornato a trovarmi nel giro di qualche settimana e mi lasciò il suo numero di telefono, facendomi promettere che gli avrei chiamato non appena avessi riavuto un cellulare.

 

Passarono un paio di giorni, sembrava fosse tornato tutto alla normalità e i miei genitori, Chris e Shereen si preparavano a ripartire, quando, una sera, Chris entrò nella mia stanza, mentre cercavo su internet maggiori informazioni riguardo ai trapianti di rene.

«Chelsea, non cominciare a fare la paranoica», disse lui chiudendo il mio portatile.

Sospirai, lasciandomi andare contro lo schienale della sedia.

«Non riesco a non pensarci. Anzi, se vuoi la verità, è l’unica cosa a cui riesco a pensare».

Il ragazzo mi prese per le spalle e qualcosa dentro di me si agitò.

In quei giorni ero stata troppo presa da quell’assurda situazione tanto da non badarci nemmeno a Chris, ma ora i miei sentimenti nei suoi confronti, iniziavano a farsi sentire di nuovo.

«Devi stare tranquilla, ok? Promettimi che non ti farai venire ansie inutili e che se avrai bisogno di qualcosa mi chiamerai, d’accordo?».

Sospirai.

«Ti chiamerò».

«Ora… vuoi prenderlo o no il cellulare che ti ho comprato?»

Ancora con quel dannato cellulare?! Avevo sottovalutato il ragazzo; non era uno che si arrendeva tanto in fretta.

Così cedetti.

«Dammi quel maledetto coso, almeno starai tranquillo», dissi aprendo una mano davanti a me.

Lui tirò fuori la piccola scatola e me la porse.

«Sappi che comunque non starò tranquillo. E, tanto per la cronaca… dov’è il tuo fantomatico notaio palestrato?».

Gli lanciai uno sguardo di traverso e mandai tutto al diavolo.

«Era una balla».

Lui sollevò le sopracciglia, sorpreso.

«Tu non dici balle, Chelsea… ».

«A quanto pare non mi conosci poi così bene come credi… ».

Chris puntò i suoi occhi chiari dritti nei miei.

«Davvero? Non saprei… ».

Fece una pausa, poi riprese. «E perché mi avresti mentito?».

«Non è ovvio, Chris? Per farti demordere da qualunque tuo intento. Quindi ora devi capire: torna a casa, non pensare a me e vivi la tua vita con mia sorella».

«In modo che tu potrai vivere la tua con mio fratello?».

A quelle parole rimasi esterrefatta.

«Che cosa, scusa?!».

Lui rise nervosamente.

«Credi che sia stupido, Chelsea? Credi che non abbia notato il modo in cui vi guardavate in questi giorni? O almeno… di come lui guardava te. Fin dalla mattina in cui ti ha vista nel mio ufficio, in clinica».

«Senti, Chris… io non so cosa tu pensi di aver visto, ma… Adam non è interessato a me nel modo in cui credi tu».

Il ragazzo incrociò le braccia al petto.

«Ma davvero? E in quale altro modo dovrebbe essere interessato a te? Perché tu hai ventidue anni e sei bella, intelligente e sexy. E lui ne ha ventisette ed è affascinante, brillante e non vedo in quale modo potrebbe essere interessato a te, se non quello».

Non potevo certo dirgli che suo fratello in meno di due secondi aveva capito tutto.

«Lui… ha detto che mi reputa parte della famiglia e… protegge la famiglia, quindi anche me. Come potrebbe farlo con te, con Megan o con Holly. Quindi non cominciare a farti strane idee».

Chris sembrava stupito.

«Ad ogni modo… io farò quello che mi hai chiesto, Chelsea: non ti scriverò, non mi farò sentire, ma… se succede qualcosa, voglio che sia tu ad avvisarmi, è chiaro?».

«Se la metti in questo modo… spero di non doverti sentire».

Chris scosse la testa. Sorrideva, ma era un sorriso privo della minima gioia.

«Buonanotte, Chris», dissi poi, guardando altrove.

«Buonanotte, Chelsea… ».

Detto questo, il ragazzo mi lasciò un bacio sulla guancia e sparì dalla mia camera.

 

Le settimane trascorsero e la situazione a Santa Barbara era sempre tranquilla.

Io avevo avuto il lavoro di cui Ryan mi aveva parlato, ognuno era tornato alla propria vita e tutti i giorni, il mio amico ed io, andavamo a trovare Gale in ospedale, che tuttavia non si svegliava.

Ryan stava davvero cominciando a perdere le speranze e io pensavo a come avrei potuto risollevarlo, quando, un giorno; Ben e suo padre tornarono dal centro in cui, in tutti quei mesi, suo fratello era rimasto ricoverato dopo il brutto incidente al barbecue di quell’estate.

Questo per lui fu di grande conforto e, una sera, mentre ero a casa da sola a prepararmi la cena, sentii suonare alla porta.

Erano le otto e mezza, strano…

Quando aprii, mi trovai davanti Alexander Kenyon.

«Buonasera», lo salutai un po’ stupita.

«Ciao, Chelsea… ».

«Vuole entrare?».

«Oh, no. Ero solo venuto a dirti… grazie. Grazie per tutto quello che hai fatto per Ryan in questi mesi, per come ti sei presa cura di lui, nonostante tu abbia avuto un lutto importante, in famiglia… ti sei sempre preoccupata per mio figlio».

Sorrisi.

«Io voglio bene a Ryan».

«E lui ne vuole a te. Te ne vuole davvero tanto».

Il signor Kenyon mi abbracciò, poi, andò via ed io tornai alla mia cena.

Non avevo molta fame, quella sera.

In realtà era da tempo che avevo perso l’appetito; forse per tutto quello che stava succedendo, lo stress accumulato, la situazione tesa che c’era stata in quei mesi, ma ero dimagrita e stavo sballando anche i ritmi del sonno.

Mi addormentavo tardi e mi svegliavo presto, come risultato, la mattina avevo sempre dolorosi cerchi alla testa e nausea ricorrente.

Sospirai.

Consumai la mia cena in silenzio, ero nervosa.

Nervosa perché dovevo fare una cosa che sapevo avrei dovuto fare da tempo.

Una cosa che, in quelle settimane, avevo ignorato, sperando che così facendo, non accadesse ciò che temevo.

Non lo potevo più fare, ignorarlo non avrebbe cambiato la verità dei fatti e… prima mi sarei tolta quel pensiero, meglio sarebbe stato.

Almeno, anche se avessi avuto la risposta di cui più avevo paura; una volta avuto conferma o meno, avrei potuto agire di conseguenza.

Mi alzai da tavola lasciando tutto in disordine e mi avviai in camera mia.

Mi avvicinai al cassetto del mio comodino e tirai fuori una familiare scatola di carta che, non appena avevo comprato, non avevo più avuto il coraggio di guardare e l’avevo lasciata lì.

Andai in bagno, cominciando già a respirare affannosamente e aprii il test di gravidanza con mano tremante.

Seguii le istruzioni ed attesi; sulla confezione c’era scritto che avrebbe dato il risultato dopo due minuti.

Una volta fatto, lo appoggia sul lavandino ed aspettai.

Uno, due, tre, quattro…

 

Note dell’Autrice:

E così finisce anche il capitolo 18. Questo direi che è stato un po’ di transito, viene spiegato cosa è successo a Gale, ma ancora non si sa nulla di preciso.

Fatemi sapere cosa ne pensate e… al prossimo capitolo!

 

DAL CAPITOLO 19:

I suoi occhi erano tristi come non li avevo ancora visti in quei mesi.

Mi prese una mano tra le sue e, guardandomi intensamente, disse: «Chelsea, qualche volta, quando senti di non potercela fare da sola, non per forza ti devi allontanare. Qualche volta, chiedere aiuto va bene. Qualche volta, si ha solo  bisogno di qualcuno che accetti di venire con te, anche quando la via che stai prendendo, è completamente sbagliata».

«Ryan… », la mia voce si spezzò. «Non te lo posso permettere. Tu non capisci. Non capisci che anche i miei genitori, che hanno sempre voluto tenermi il più possibile vicino a loro, dopo ciò che è successo a Sunshine, hanno accettato di lasciarmi qui? Non ti rendi conto che anche loro hanno preferito allontanarsi da me? Io  non sono più la figlia che hanno cresciuto».”

  
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