Zitta
Mi
sembrava di aver udito dei rumori strani.
Come
dei colpi, dei tonfi sommessi, dei passi frettolosi e sconosciuti.
Mi
sporsi oltre la parete per verificare di persona l’origine di
quel trambusto,
il cuore in gola e il fiato corto. Non avrei voluto essere
così agitata:
avrebbe potuto trattarsi di un temporale, delle imposte che qualcuno
aveva dimenticato
di chiudere e che sbattevano per il vento. Avrebbe potuto essere
già mattino e
il mio sonno leggero mi aveva tradita, troppo sensibile persino ai
piccoli
gesti quotidiani che la servitù compiva all’alba
per risvegliare la tenuta.
Il
buio era quasi completo; avevo preferito non accendere lumi, ma me ne
stavo
rammaricando. Il freddo marmo delle scale intorpidiva i miei piedi nudi
mentre
scendevo al piano di sotto, facendo attenzione a non inciampare,
aggrappata
alla ringhiera. Dalle finestre si intravvedeva ancora
l’oscurità della notte:
constatai allora come il giorno fosse lontano, allo stesso modo della
mia
camera, dove avrei preferito essere ora, benché la
curiosità e soprattutto il
terrore e l’apprensione nei confronti della mia famiglia e di
questa stessa
tenuta si fossero vestiti di supremazia nei confronti di tutto il resto.
Oltre
ai colpi cadenzati sempre più vicini, riuscivo a riconoscere
alcune voci, senza
discernere le singole parole. Altrimenti avrei saputo tornare
saviamente di
corsa sui miei passi.
Attenta
ad ogni movimento, ad ogni ombra sulle pareti, a riflettere su quali
avvenimenti stessero avendo luogo a mia insaputa, non udii
l’avvicinarsi di una
figura alle mie spalle, né nei suoi passi leggeri,
né nel suo respiro ora più
teso.
Una
mano mi coprì la bocca, e iniziai ad annaspare alla ricerca
d’aria, spalancando
gli occhi per lo spavento e gridando contro le dita serrate sul mio
volto che
cercavo di strappare inutilmente da me. Con la mano libera mi
trascinò contro
il suo corpo, violentemente e con la prepotenza di chi desidera
appropriarsi di
qualcosa o difenderla a tutti i costi.
«State
zitta e non muovetevi.»
La
furia nei miei muscoli contratti a divincolarmi si placò non
appena la sua voce
raggiunse in un sussurro il mio orecchio. Mi lasciai andare sorretta
dal suo
corpo, mentre le forze sembravano avermi abbandonata per il panico che
mi aveva
brancato. La sua mano si allentò leggermente per permettermi
di respirare, non
senza affanno.
«Cosa
ci fate qui?» esclamai forte, per vincere la tensione contro
le mie labbra, che
si fece di nuovo più intensa.
«Fareste
meglio a chiedermi cosa stia succedendo.»
Iniziai
a strattonargli le braccia, imprigionata dalla solidità
della sua presa.
«Promettetemi
di rimanere in silenzio» depose la propria condizione.
Annuii
prontamente, così che potesse liberarmi la bocca.
«Cosa
diavolo-»
«Vi
ho detto di tacere!» mi intimò rigirandomi verso
di lui, che aveva dimenticato
per un attimo la delicatezza e lo scoglio del tempo e di un titolo
nobiliare
che si ergeva tra di noi.
La
veste da notte frusciò contro il suo corpo e lui mi premette
contro di sé, le mie
forme ad aderire alle sue senza il vincolo delle pesanti stoffe dei
miei abiti
consueti.
Lasciai
che i secondi passassero indefiniti, perché
l’angoscia si placasse. Deglutii
più volte, la bocca secca e gli occhi affaticati nel
cogliere nel buio ogni
particolare dell’uomo di fronte a me.
Continuai
a fissare il riflesso della poca luce naturale che filtrava dalle
finestre
nelle sue iridi azzurre, impegnate ad alternare la loro attenzione su
di me e
verso l’ambiente circostante.
Scossi
leggermente la testa, sperando di fargli intuire quanto fossi disposta
a non
fiatare pur di ricevere qualche spiegazione.
«Dobbiamo
andare via da qui» dichiarò invece.
Entrambi
sollevammo lo sguardo, quando udimmo qualcuno improntare la scalinata
con passi
rapidi.
«Che
succede, Antonio?»
Mi
fece segno di rimanere in silenzio e mi trascinò in un
angolo ancora più buio,
a lato della scala, dove la penombra ci avrebbe esclusi dalla vista.
Trattenemmo il respiro finché l’uomo non fu quasi
davanti a noi.
«Ma
è Fabrizio» notai, a bassa voce.
«Fabrizio!»
«No,
Anna!» le braccia di Antonio mi circondarono rapide
perché non mi spostassi né
lasciassi che la mia impulsività prendesse il sopravvento.
Tuttavia il suo
impegno non riuscì a trattenere la mia avventatezza.
Fabrizio
si avvicinò titubante al recesso in fondo alla scala, e sul
suo volto si
dipinse rabbia e sorpresa quando ci vide, stretti l’una tra
le braccia
dell’altro, spaventati e ignari degli eventi.
«Anna»
si tranquillizzò relativamente quando mi riconobbe.
«Portala via, Antonio.»
Antonio
provò a chiedere spiegazioni, a proporsi perché
l’accompagnasse dov’era
diretto, ma Fabrizio non cedette, né si permise di aprir
bocca più del
necessario.
«Accompagnala
nelle sue stanze, e non muovetevi di lì per nessuna ragione
al mondo»
insistette, per poi proseguire il suo cammino a passo sostenuto.
Fu
in quel momento che distinsi la pistola nascosta tra le pieghe dei
pantaloni
allacciati di tutta fretta. Dalla parte opposta oscillava il fodero
della
spada.
Strinsi
forte una manica di Antonio con il terrore che mi invase il corpo.
Appena
Fabrizio scomparve nell’oscurità, mi
indicò di fargli strada verso il piano
superiore.
I
colpi, le grida e lo sferragliare delle armi che dimostrarono
l’inizio di una
colluttazione impedì al mio buon senso di seguire
l’ordine di mio fratello.
Scattai in direzione dell’ala posteriore della tenuta,
annebbiata dal terrore
che stesse verificandosi l’inevitabile.
Antonio
mi raggiunse e di nuovo cercò di imporre
razionalità nei miei gesti. «È
pericoloso, Anna. Dobbiamo andarcene.»
«Non
voglio lasciarlo solo.»
«E
io non voglio lasciare sola voi. Siate ragionevole e fidatevi di lui.
Se vi ha detto
di-»
«Ho
paura, Antonio.» La mia voce echeggiò per il
corridoio, e lui si incupì,
incerto su come gestire quella situazione che gli era piombata addosso.
«Non
posso perdere anche lui» abbassai lo sguardo a terra,
seguendo le linee della
veste sottile.
«Non
succederà. Fabrizio è stato
nell’esercito: sa come comportarsi senza mettere in
pericolo la propria vita e quella degli altri.»
Titubante,
tornai sui miei passi e raggiungemmo la scala.
Salita
sul primo gradino mi voltai indietro, con la preoccupazione infondata
che
Antonio non si allontanasse da me.
Mi
guardò aspettando che parlassi, i nostri occhi ora quasi
alla medesima altezza.
«Non
lasciarmi, ti prego» bisbigliai, la voce spezzata da un
singhiozzo soffocato.
Antonio
si sporse verso di me e accolse il peso, il calore, i fremiti del mio
corpo che
si lasciò sostenere totalmente. Una mano sul capo mi teneva
ancor più stretta a
lui, casomai fosse stato possibile.
«No,
Anna. Non ti lascio più» sussurrò
baciandomi tra i capelli.