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Autore: Irina_89    04/09/2008    9 recensioni
“Tom, questo è tuo figlio. È nato quattro anni fa. Non riesco a mantenerlo con il lavoro che faccio. Ti prego, prenditene cura.”
Seguirono attimi di pesante silenzio, in cui nessuno dei due osava parlare.
“Oddio…” fece Bill in un sussurro, poco dopo. “Proprio come avevo detto…” ed alzò lo sguardo su suo fratello. “Ehi, Tom, lo giuro, io non sapevo niente…”
“Bill, stai zitto.” Sibilò lui. “Non richiedo le tue battute ora. La questione è seria.”
“Guarda che lo so. Cercavo solo di sdrammatizzare…” si difese Bill, leggermente offeso dalle parole di Tom. Non era così ottuso da non capire che questa situazione era più grave dell’avere solamente un ospite inaspettato in casa.
“Non hai capito: non si può sdrammatizzare una situazione del genere.”
Bill si zittì, sentendosi ferito in pieno dal fratello, ma capendo come potesse sentirsi lui in quel momento.
“Non c’è nemmeno un nome…” disse, quindi, rigirandosi il foglio tra le mani.
“Già. Nessun nome.” Ripeté Tom.
Merda…
[Sequel di 'Sopravvivere']
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Home'
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Just a kid

Just a kid

 

Lies, Lies, Lies

Prese le chiavi dalla tasca del giacchetto, facendo attenzione a non far cascare la grossa busta che stava cercando di reggere con una sola mano, e le inserì nella toppa, puntellando la busta sull’anca destra. Aprì, dunque, la porta con un piede, in modo da usare la mano ormai libera per sorreggere la busta con più facilità. Entrò e chiuse la porta con lo stesso piede, facendola sbattere un po’ troppo forte.

Attraversò l’ingresso, notando la luce dello studio accesa e due figure all’interno oltre la porta a vetri chiusa. I gemelli erano là.

Salì le scale e si diresse in camera sua per posare tutto l’occorrente per il suo lavoro che fu costretta a portare a casa per mancanza di tempo. Ma non appena aprì la porta della stanza, vi notò all’interno un piccolo particolare che quella mattina non c’era: un bambino.

Cercò di guardare meglio, forse se l’era immaginato – troppo lavoro, ultimamente – ma anche una volta che ebbe chiuso gli occhi, per poi riaprirli, quel bambino era sempre sul suo letto, addormentato. Si avvicinò al piccolo e lo osservò. Era davvero strano: sembrava la copia esatta dei gemelli.

Posò, poi, più delicatamente e silenziosamente possibile la busta per terra e si affrettò a chiudere la porta. Scese le scale, saltando gli ultimi tre scalini, e si diresse verso lo studio, che trovò vuoto e con luce spenta. Si girò e notò, quindi, che i due gemelli si erano spostati in cucina.

“Allora?” la voce di Tom.

“Non lo so…” la risposta di Bill.

Silenzio.

Strano che ci fosse silenzio, commentò Inge tra di sé. La loro conversazione, inoltre, presentava un tono piuttosto insolito. Sembravano preoccupati e nervosi.

Si incamminò verso di loro e si affacciò in cucina.

“Chi è il bambino in camera mia?” chiese appoggiandosi al muro dell’immensa stanza.

Tom, di spalle, trasalì, ed Inge lo vide portarsi una mano al petto, per poi girarsi verso di lei e guardarla con occhi sgranati.

“Mi hai fatto prendere un colpo!” farfugliò, sospirando.

“Ciao, Inge.” La salutò con la mano Bill, seduto di fronte al fratello. “Non ti avevamo sentito arrivare…”

“Ciao.” Ricambiò il saluto al moro, per poi avvicinarsi a Tom e lasciargli un bacio sulle labbra. Si sedette, quindi, anche lei su una sedia intorno al tavolo.

“Come è andata oggi?” chiese Bill.

Lei sospirò, stravaccandosi sulla sedia e mostrando una smorfia di stanchezza infinita.

“Hanno anticipato ancora una volta la scadenza del progetto…” mormorò, per poi stendersi sul tavolo con le braccia e nascondere la testa tra esse.

Il cantante rise, mentre Tom si limitò ad un sorrisetto.

“A voi come è andata la giornata?”

“Cosa?” fece Tom, con un tono leggermente nervoso.

“La giornata… cosa avete fatto…?” fece la ragazza alzando la testa e guardandolo perplessa. Non era il solito Tom.

“Ah…” e il chitarrista rise isterico.

No, non era decisamente il solito Tom.

“Io ho fatto il servizio fotografico.” Rispose Bill. “Potrai vedere le mie magnifiche foto sulla rivista – com’è che si chiama? Non è molto famosa… - vabbè, su una rivista, la prossima settimana.”

“E tu?” chiese Inge al rasta.

Tom iniziò a dondolarsi sulla sedia.

“Ho… ho cercato di comporre una melodia per il nuovo testo di Bill.” rispose con un gesto della mano molto vago.

“È anche molto bella!” lo elogiò il fratello. “In questi giorni, quando dovremmo andare a fare le prove, la faremo sentire anche a Georg e Gustav – sai, per completarla – e poi la proporremo a David.”

“Allora, in bocca al lupo!” sorrise Inge.

“Ehi, perché non gliela fai sentire?” fece Bill a suo fratello.

Lui sbuffò. “Ma devo andare a prendere la chitarra in camera e -”

“Ah!” lo interruppe Inge, ricordandosi solo ora di un fatto decisamente curioso. “Chi è il bambino in camera mia?”

Un tonfo annunciò a tutti i presenti la caduta di Tom dalla sedia.

Bill si alzò per appurare che suo fratello fosse ancora tutto intero. Una volta, poi, sentita la serie infinita di imprecazioni che Tom non si risparmiò di farfugliare, si rimise seduto. Stava anche troppo bene.

Il rasta si alzò e raccolse la sedia, per poi sistemarla di nuovo intorno al tavolo e sedercisi di nuovo sopra.

“Dicevamo…?” disse, poi, sorridendo tirato.

“Che c’è un bambino addormentato in camera mia…” rispose Inge sospettosa. Cosa diavolo era preso a Tom?

“Ah…” fece lui. “Sì, ecco… lui è… nostro cugino.” Tossì, poi.

Bill strabuzzò gli occhi. Fortuna che Inge era rivolta verso Tom e non l’aveva visto.

“Vostro cugino?”

“Nostro cugino?”

Ripeterono Inge e Bill all’unisono.

“Sì…” e fulminò il fratello con lo sguardo. “L’hanno portato qui perché…”

“Perché i suoi genitori andavano in vacanza con i nostri.” Lo salvò in tempo Bill, subito maledicendosi per il grande casino a cui stava andando ad immischiarsi sempre più pericolosamente ogni secondo che passava.

“Ah…” fece Inge. “E come si chiama?” chiese lei innocente e curiosa.

“Ehm, fattelo dire da lui quando si sveglia…” suggerì Tom, cercando di sottrarsi a quella domanda.

Lei alzò un sopracciglio scettica. Non le pareva che Simone avesse fratelli o sorelle… ma forse Gordon sì. Tuttavia, Gordon non era il vero padre dei ragazzi, come si spiegava, quindi, tutta quella somiglianza?

Forse era figlio di un fratello – o sorella che fosse – od addirittura del padre naturale di Tom e Bill con un’altra donna, anche se non le sembrava avesse molto senso che i genitori attuali dei due gemelli facessero una vacanza con lui… o forse sì?

C’era qualcosa che non le tornava, ma si convinse a non badarci più di tanto.

“Userà sempre la mia stanza?” chiese, quindi, lei.

“Se a te dà fastidio, no.” Rispose Bill, alzandosi e prendendo una bottiglia di succo d’arancia dal frigorifero. “Volete?” Tom negò, mentre Inge ne prese volentieri un bicchiere.

“Vuoi che si porti in un’altra stanza? Che ne so… in quella degli ospiti, ad esempio….” Continuò il moro, tornando a sedere vicino a loro.

“No, no, figurati! Era per sapere… perché se lui usasse quella stanza, dovrei portare da un’altra parte tutto ciò che mi serve per il lavoro. Sai, non mi piacerebbe piombargli in camera ogni volta che mi serve qualcosa…” sorrise.

“Potresti, allora, portare la tua roba nella stanza degli ospiti, tanto non la usa nessuno.” Propose Tom, ricordando a tutti della sua presenza.

“Ok, allora userò la tua,” lo guardò beffarda lei.

“La mia? Ma se non ci sta nemmeno tutta la mia roba!” ribatté lui.

“Questo perché sei disordinato ogni oltre limite.”

“E allora? Mi piace il caos!”

“A me non più di tanto…” commentò lei con aria esageratamente afflitta.

“Allora prenditi la stanza degli ospiti, scusa!” brontolò lui, lasciando che un piccolo sorriso trapelasse sulle sue labbra.

“No, proprio perché lo dici tu, credo che invaderò la tua.”

Tom non rispose, lasciando che il suo sguardo torvo parlasse per lui. Il sorriso sulle labbra, però, lo tradiva.

“Lo sapevo che avresti detto di sì…” sorrise la ragazza, sporgendosi verso di lui e baciandolo sulle labbra. “Comunque, stai pure tranquillo…” fece, tornano seduta. “Scherzavo. Metterò tutte le mie cose nell’altra camera. Sai, non vorrei rendermi colpevole di distruggere il tuo armonico caos, conquistato con tanto sudore della fronte.” Fece lei magnanima.

“Ah, quanto sei comprensiva…” sospirò lui, eccessivamente colpito da tanta generosità, per poi darle un buffetto sulla guancia, sorridendole sornione.

Lei rise.

“Lo so.”

 

***

 

Inge si alzò per posare nell’acquaio piatti e bicchieri. Poi avrebbe caricato tutto nella lavastoviglie. Bill e Tom, intanto, stavano rispettivamente riponendo nel frigo la roba avanzata e scuotendo la tovaglia sul terrazzo.

All’inizio della loro convivenza, era Inge a sistemare la cucina – tra uno sbuffo e l’altro per renderli partecipi di quanto a lei non stesse bene tutto ciò. Ma dopo aver indotto uno sciopero delle sue mansioni per una settimana abbondante, ed aver assistito ad una crescita esponenziale delle stoviglie sporche – che nessuno osava più toccare – la ragazza riuscì a far capire ai due Kaulitz che avrebbero dovuto collaborare. E da quel giorno, con grande soddisfazione di Inge, che – credendo impossibile che questi due fossero andati avanti senza governante per tutto quel tempo – aveva smesso di criticarli, Tom abbandonò la strategia di difendersi con il suo solito discorso menefreghista: che senso ha fare ciò che già qualcuno fa al posto nostro?

“Ehi, ma non è che si è svegliato?” chiese Inge, finendo di portare le posate nell’acquaio, alludendo al bambino che ancora sembrava dormisse.

“Ma scusa, se si fosse svegliato, sarebbe venuto giù, no?” rispose il rasta, piegando al tovaglia.

“Tom, è un bambino di quattro anni che è qui per la prima volta…” gli fece notare Bill, fermandosi a guardare il fratello esasperato.

“Ah, non è mai venuto in casa vostra?” domandò la ragazza.

“Bè, no… di solito… di solito andavamo noi a trovarlo…” ripose titubante il rasta.

“Ah, capito…” ed aprì l’acqua per bagnare piatti bicchieri e quant’altro, evitando così che lo sporco si attaccasse.

“Io vado a vedere come sta…” annunciò Bill, che aveva finito i suoi compiti di quella sera, uscendo dalla cucina.

“Aspetta, vengo anch’io.” Lo rincorse Inge.

Tom non poté far altro che seguirli. Non era ammesso che restasse solo in cucina.

Arrivati davanti alla porta della camera in cui dormiva, bussarono. L’educazione prima di tutto, soprattutto con gli ospiti.

“Bah…” mormorò Tom, per niente d’accordo. Era un bambino, non occorreva bussare.

In tutta risposta, suo fratello gli diede una gomitata ed Inge una pacca sulla spalla.

Malgrado il loro tentativo di buona educazione, non sentirono risposta, quindi, aprirono la porta.

“Cioè, prima bussate e poi entrate senza che abbia risposto? Magari dorme ancora…” commentò scettico il chitarrista, ricevendo la stesa risposta di pochi secondi prima.

“È un bambino! Non possiamo lasciarlo solo!” lo riprese la ragazza.

Tom sbuffò, incrociando le braccia al petto, mentre Inge e Bill entravano nella camera. Ma, contrariamente a quanto sosteneva il rasta, il bambino non stava dormendo. Era, invece, seduto sul letto che li guardava leggermente impaurito, la schiena contro la spalliera e tra le mani una riproduzione di Spiderman.

“Ehi, ciao…” lo salutò dolcemente Inge, avvicinandosi. “Posso sedermi qui?” chiese lei, indicando il letto.

Lui annuì silenziosamente.

“Io mi chiamo Inge, tu?” e si sedette, allungando una mano verso di lui.

Il piccolo ospite guardò la mano della ragazza, ma non rispose. Si limitò a rannicchiarsi – come se stesse cercando di difendersi – portando le gambe contro il petto e stringendo il suo giocattolo tra le braccia.

“Non aver paura…” sussurrò lei. “Non ti faccio male.” Gli sorrise ancora.

Si vedeva proprio che era parente dei Kaulitz. Aveva lunghi capelli biondo scuro, che gli scendevano sul viso disordinatamente. Gli occhi erano dello stesso colore dei gemelli e, benché sembrassero timorosi, vi si poteva vedere la vivacità risplenderci dentro.

Inge cercò si avvicinare la mano verso di lui, per cercare di avere la sua fiducia (un po’ come quando cercava di avvicinare un cane. Non che lo stesse paragonando ad un animale, ma era un sistema che di solito funzionava).

Il bambino, infatti, dopo aver spostato lo sguardo da lei alla sua mano per un paio di volte, alla fine si avvicinò a lei, gattonando sul letto e gliela stringe, per poi sorridere timidamente.

“Allora, come di chiami?” domandò di nuovo la rossa con un dolce sorriso sulle labbra.

“Alex.” Rispose il bambino, guardandola negli occhi. Poi girò la testa ed osservò quegli altri due strani individui che stavano osservando la scena appoggiati allo stipite della porta.

“Alex…” fece Inge. “Che bel nome! È l’abbreviazione di Alexander?”

Lui si voltò nuovamente verso di lei ed alzò le spalle.

“Non lo so…”

A quel punto anche Bill si avvicinò, sorridendo.

“Ciao, Alex. Io sono lo zio Bill.” e gli porse una mano smaltata.

Subito Tom sgranò gli occhi, sentendo un vuoto allo stomaco.

“Zio?” chiese Inge, inarcando le sopracciglia.

“Ehm, sì… sai, le persone più grandi sono tutti zii per i bambini… no?” e rise forzato. Poteva già sentire le mani di Tom intorno al suo collo, pronte per strozzarlo.

“Ah, giusto…” convenne lei. Non era molto esperta in materia ‘bambini’, ma dopotutto era ovvio, visto che l’unico contatto con la loro specie, era dovuto al figlio di una sua collega di lavoro.

Alex, intanto, aveva preso la mano di Bill e gli sorrise un po’ più convinto. Stava iniziando ad avere un po’ di fiducia.

“Io sono Tom.” disse secco il rasta, avvicinandosi a lui e porgendogli la mano come tutti. Ma quella mossa, un po’ troppo scontrosa, fece ritrarre il bambino, che lo guardò intimorito.

“Tom! È un bambino!” lo riprese Inge. “Non puoi essere così duro!” ed accarezzò Alex sui capelli.

“Ah, scusa…” fece Tom, portandosi una mano sul collo, imbarazzato. Quindi, cercò di rimediare, mostrando un sorriso un po’ troppo tirato.

Alex lo guardò ancora leggermente timoroso, ma gli diede la mano.

“Gli sto già sul culo…” rise sottovoce con qualche nota non del tutto convincente, una volta finite le presentazioni e tornato ad appoggiarsi allo stipite della porta, vicino a Bill.

“Bè, dopo tutto ciò che gli hai fatto, sarebbe il minimo!” sghignazzò il fratello.

“Perché? Cosa gli ha fatto?” chiese Inge, non cogliendo il doppio senso di quell’affermazione.

“Ehm…” Tom guardò suo fratello truce. Possibile che non sapesse mai tenere quella sua dannata boccaccia chiusa?

“No, è che… quando andavamo a trovarlo, lui gli faceva sempre gli scherzi…” lo difese il moro, cercando così di scontare le future pene dell’inferno che suo fratello gli avrebbe fatto patire.

“Non ti smentisci mai, eh?” lo riprese Inge, guardando il rasta con un’espressione tra lo scocciato ed il divertito. Poi sorrise. Era ovvio che Tom, qualunque scherzo avesse mai fatto al bambino, non l’avesse mai fatto apposta. Quello era il suo carattere.

“Eh, già…” concordò lui, esitante.

“Cosa ti faceva questo troglodita, eh, Alex?” chiese divertita Inge, indicando Tom.

Il bambino la guardò interrogativo, senza – ovviamente – rispondere.

“Ehm, è passato un sacco di tempo dall’ultima volta che l’abbiamo visto, quindi è normale che non ricordi…” rispose Tom per salvarsi.

“Ah…” fece Inge, pensando ad un altro modo per far parlare Alex. Non le piaceva che venisse escluso. Soprattutto ora che era la prima volta in quella casa.

“Quanti anni hai, Alex?” gli chiese, quindi.

Lui si guardò una mano e la chiuse a pugno, per poi tirare su quattro dita. Mostrò la quantità alla ragazza e sorrise.

“Quattro!”

“Accidenti! Ma allora sei grande!” si complimentò lei. “Da dove vieni?”

Alex ci pensò qualche secondo.

“Da una casa piccola.” Rispose, infine.

Inge rise. Poi si girò verso i gemelli per ricevere una risposta più dettagliata.

“Uhm… vive nella stessa città di nostra madre…” spiegò Tom.

“Capito…” e si voltò di nuovo verso Alex. “Hai fatto un bel viaggio, allora!” e gli spettinò i capelli, già disordinati.

Il bambino rise e prese la mano della rossa per fermarla, ma lei cominciò a fargli il solletico. Alex iniziò a scalciare per allontanarla da sé, mentre urlava divertito.

Presto, anche Bill si unì a loro, prendendo il bambino per le mani, permettendo, così, ad Inge di divertirsi a torturarlo.

Tom, invece, rimase appoggiato allo stipite della porta a guardare. Vedendo Inge e Bill giocare con quel bambino, subito sentì qualcosa di strano dentro di sé. Sembravano proprio una famiglia. Avrebbe dovuto fare anche lui così? Bè, dopotutto era solo un bambino, quindi giocare era l’unico approccio che riteneva appropriato, ma proprio non ci riusciva.

C’era un piccolo particolare che lo frenava, qualunque fossero le sue intenzioni. Anche quando gli aveva offerto la mano, si era sentito irrigidire all’improvviso. Che dipendesse dal fatto che quel bambino fosse il suo bambino?

Decisamente sì.

Era preoccupato ed anche spaventato allo stesso tempo. Non aveva mai pensato a questa possibilità. Non aveva mai pensato al fatto che da un giorno all’altro un marmocchio avrebbe potuto piombargli in casa in quanto suo figlio. Come doveva comportarsi, quindi?

Non si sentiva per niente pronto a prendere il ruolo del padre. Cazzo! Aveva solo vent’anni! Senza pensare che questo bambino, forse, nemmeno l’aveva mai visto!

Era normale sentirsi così? Non sentiva alcun legame con quel bambino. Era convinto che, essendo suo figlio, provare un affetto nei suoi confronti – praticamente equivalente a quello che nutriva per Bill – dovesse essere un effetto immediato.

Eppure, non sentiva niente.

Avrebbe mai potuto instaurare un tale rapporto con il tempo? Forse, ma quanto tempo ci sarebbe voluto? Non lo sapeva, come molte altre cose.

Quel bambino sarebbe rimasto da loro per sempre? Qualcuno sarebbe tornato a prenderlo?

Erano tutte domande senza risposta.

“Ehi, Tom!” lo chiamò Inge allegra, permettendogli di abbandonare quei pensieri decisamente troppo complessi per uno come lui.

Lui la guardò aspettando che continuasse.

“Vieni a giocare pure tu!” gli sorrise.

Il ragazzo sorrise di rimando e si avvicinò a loro, ma non si unì alla loro lotta. Preferì osservarli, braccia incrociate al petto, e pensare ad altro.

“Hai fame?” chiese, poi, Bill al bambino.

Lui si fermò e tolse il piede scalzo dalla faccia del cantante. Subito, quasi come risposta fisiologica a quella domanda, il suo stomaco brontolò.

Alex arrossì e abbassò la testa.

“Ehi, non devi vergognarti se hai fame!” lo riprese Bill sorridente.

Il piccolo ospite alzò lo sguardo su di lui ed annuì.

“Dai, allora! Vieni!” e si alzò dal letto, porgendogli una mano. “Scendiamo in cucina ed andiamo a mangiare.”

Il bambino afferrò la mano e saltò giù dal letto, trotterellando vicino a Bill per stare al suo passo. Uscirono dalla stanza e scesero le scale, mentre Inge e Tom rimasero dentro.

Lei indugiò seduta sul letto a guardare il ragazzo, che non capiva il motivo dello sguardo che lei gli stava mostrando.

“Perché non mi avevate mai detto di avere un cugino?” chiese innocente Inge.

“Bè, non c’è l’hai mai chiesto…” sviò lui, grattandosi la testa e distogliendo gli occhi da lei.

“Vi assomiglia proprio. Si vede che siete cugini…” sorrise lei, alzandosi e raggiungendo Tom.

“Eh, già…” convenne lui.

Lei lo abbracciò e si alzò in punta di piedi per baciarlo, ma per la prima volta, Tom si sentì indegno di riceverne uno.

 

***

 

“È pronto!” annunciò Inge, spengendo il fuoco sotto la grande pentola.

“Aspetta! Dobbiamo finire questo combattimento!” ribatté Bill, seduto sul pavimento a gambe incrociate insieme ad Alex, intenti a far combattere Spiderman e Batman.

Per tutto il tempo in cui la pasta cuoceva, i due avevano dato sfoggio delle loro capacità di imitazione dei rumori e delle grida di dolore, per ogni qualvolta che uno dei loro personaggi veniva colpito dall’avversario. Tom, invece, stava a fissare la battaglia, stravaccato su una sedia, posizione degna di lui.

“Ma poi si raffredda la pasta…” gli fece notare la ragazza, scolandola, per poi metterla in un piatto, che posizionò sulla tavola.

“Ma tanto ora è bollente!” intervenne Tom, curioso di vedere chi avrebbe vinto tra i due supereroi. Spiderman/Alex con i suoi voli acrobatici o Batman/Bill con le sue grida di battaglia fuori dal comune?

Lei sospirò. Mai una volta che Tom l’aiutasse… Ma sorrise, mettendosi seduta su una sedia ad osservare quell’inusuale quadro che in casa Kaulitz era paragonabile ad una tempesta di neve ad Agosto; non tanto per il fatto che il moro si fosse messo a giocare con un bambino – quello le sembrava una cosa normale, visto il carattere del cantante – quanto per il fatto di avere Alex in casa.

Chissà per quanto ci sarebbe rimasto… ma nonostante questo, Inge sentiva che quel periodo sarebbe stato decisamente uno dei più speciali.

L’unica cosa che non la convinceva molto, era il comportamento di Tom nei confronti del bambino. Da quando lo conosceva, non aveva mai pensato che la presenza di una piccola creatura di soli quattro anni potesse metterlo così a disagio.

Inge alzò lo sguardo su di lui, che sentendosi osservato la guardò torvo.

“Che vuoi?” le chiese scocciato.

“Romperti i coglioni…” gli sorrise beffarda lei.

Lui sospirò.

“Come al solito, eh?”

Lei annuì, ridendo, ed il ragazzo schioccò la lingua roteando gli occhi, per poi darle un piccolo buffetto sulla guancia.

“Vuoi la guerra?” lo minacciò Inge, con aria superiore.

“Se dicessi di sì, cosa faresti?” la provocò lui.

“Tante cose…” ripose lei maliziosa.

Lui si portò le mani alla bocca in un’espressione decisamente troppo spaventata per sembrare solo un minimo reale. Lei, ridusse gli occhi a due fessure e lo guardò torva. Non le piaceva quando le parti si invertivano.

“E dai, scherzavo!” la derise lui.

“Certo…” fece lei, appoggiandosi allo schienale della sedia, in modo da allontanarsi da lui.

Tom, quindi, si girò verso di lei ed avvicinò il viso al suo.

“Possiamo fare pace?” sussurrò lui, con voce bassa e suadente.

Lei si calmò e rise.

“Guarda che c’è un minorenne…”

“Tanto è impegnato a giocare…” e si avvicinò sempre di più alle labbra della ragazza con le sue. Ma prima che potesse toccarle, avvertì qualcosa di freddo rovesciarsi sulla sua testa.

Si allontanò lentamente e con gli occhi chiusi, le mani strette in pugni.

“Inge…” sussurrò furioso, aprendo lentamente gli occhi e notando lo sguardo ed il sorriso strafottente sul viso della rossa.

“Ti ho detto che c’è un minorenne. Non voglio dare spettacolo…” ripeté lei, posando la bottiglia d’acqua ormai vuota sul tavolo ed alzandosi, per poi dirigersi su per le scale.

Ad occhio e croce aveva ancora dieci secondi di vantaggio, al termine dei quali Tom, puntualmente, si alzò e corse per raggiungerla, urlando il suo nome, incazzato. In risposta la ragazza gridò divertita. L’aveva catturata.

“Perché strillano?” chiese Alex a Bill, sospendendo il loro combattimento.

Il moro lo guardò perplesso, poi sorrise.

“Perché si vogliono bene…” e gli scarruffò i capelli.

Alex rise, cercando di fermare il cantante, che continuava imperterrito a dargli fastidio.

“A proposito!” urlò riferendosi ai due cretini al piano di sopra. “Stasera cercate di fare piano!” e subito si affrettò a tappare le orecchie al bambino – precauzione obbligatoria in quell’occasione – che aveva preso in mano entrambi i guerrieri per continuare a farli scontrare.

La fine replica del fratello, infatti, non tardò ad arrivare.

“Fatti i cazzi tuoi!”

Bill rise.

Era sempre la solita storia.

E poi dicevano che era lui il bambino…

 

¤°.¸¸.·´¯`»  «´¯`·.¸¸.°¤

Continua...

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ATTENZIONE: I Tokio Hotel non mi appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera della loro personalità. No scopo di lucro.

***

Ed eccomi con il secondo capitolo!

Bè, il titolo dice tutto. Spero che grazie ai casini che Tom sembra non possa far a meno di creare, la storia vi possa appassionare.

Ringrazio, quindi, le sei persone che hanno recensito il primo capitolo, aspettandomi di trovare altre recensioni per questo. Un grazie a: elli_kaulitz, la mitica kit2007, scrizzoth_95, BigAknge_Dark, layla the punkprincess ed Antonellina.

Ora scappo. Al prossimo capitolo! E, come già detto, lasciate tanti commentini!^^

_irina_

  
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