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Autore: Ruta    26/07/2014    5 recensioni
“Molly.”
Qualcosa, nel modo in cui lui aveva pronunciato il suo nome, suonò carico di significato.
Gli occhi azzurri di Sherlock, appuntandosi sul suo viso, espressero per un attimo un sentimento di sollievo talmente radicato che lei si chiese come fosse possibile che una manciata di secondi dopo si fosse già dileguato senza lasciare traccia del suo passaggio.
Genere: Generale, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
Capitoli:
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17

Succederà questa notte.
Un sussurro, un messaggio, uno sguardo complice.
Succederà questa notte.
Tutto si deciderà sotto le stelle di questa notte.
Occhi d’argento, fieri, la guardano mentre finge di dormire. Perché finge, è palese. Le spalle sono troppo rigide, il respiro è controllato, il braccio che pende dalla sponda è teso in un arco irrealistico.
Indossa una vecchia maglietta di una squadra di canottaggio universitaria, una che è appartenuta a suo padre; porta i capelli annodati in una treccia sfatta che le pende sulla spalla nuda.
Il gatto soffia dal cuscino ai piedi del letto, dove lei gli deve aver intimato di restare. Non l’ha voluto con sé. Deve odiare la sua somiglianza con Toby, malgrado ciò gli ha preparato un’alcova confortevole e a portata di orecchie.

Tipico, pensa.
Vorrebbe improntare il pensiero della risentita incomprensione che avrebbe provato, ha provato anni orsono. Non ci riesce.
Si stende di fianco a lei e lascia che il respiro di Molly, tiepido, gli sfiori la base della gola quando le preme la bocca sulla tempia, poco sopra l’arcata del sopracciglio, gentilmente. Una carezza come lo è la voce di lei nella sua coscienza, il profumo affusolato di fiori che la permea, il peso del suo sguardo accurato – lo stesso che ora, serrato nella bugia del sonno, è impegnato a mentirgli.
Essere gentile, alla volte, è un tormento.
Vorrebbe prenderla, lì e adesso, per trattenerla, scomparire dentro di lei, in quel bianco accecante, totalizzante che spegne il resto, manda il mondo dentro di lui in blackout.
Sherlock si tira indietro, la copre con il lenzuolo e le dà la schiena.

 

 

Deve andare.
Molly indugia. Sa che ogni momento è prezioso, ma non riesce a muovere un muscolo, non riesce a distogliere lo sguardo dalla schiena ampia e nuda di lui, dalle linee frastagliate delle cicatrici che gli affollano le spalle e il dorso, fino ai fianchi. Sono segni pallidi, appena più pallidi del resto della pelle, del colore delle ossa, della morte, della cipria.
Molly indugia. Vorrebbe accarezzarle in punta di polpastrelli, baciarle, leggeri tocchi di farfalle, invece permette che solo il suo respiro lo faccia per lei.
Potrebbe essere l’ultima volta che lo vede, che lo tocca.

È per salvarlo, ricorda. Per salvare tutti loro.
Guarda il grande, straordinario uomo che Sherlock è. Quello che sta provando, lui lo ha provato. Quella cosa squassante che le strappa a brani il cuore e le morde il respiro, lui la conosce.
Saperlo, glielo fa amare più di quanto sia sopportabile.

Sì, deve proprio andare.  

 

 

 

 

 

 

 

IL SONNO DELLA RAGIONE

 

 

 

 

 

 

 

Molly si era aspettata che sarebbe stato difficile, complicato, addirittura impossibile.
Che fosse così semplice sgusciare attraverso l’invisibile filo spinato della rete protettiva di Baker Street, dopo cinque mesi di arresti domiciliari, era un affronto, qualcosa di inconcepibile.
Non era mai stata una prigioniera, lo sapeva bene.
La gabbia era stata il suo desiderio di compromesso, l’armistizio con la ragione che aveva messo a tacere.
Scivolare, un’ombra tra le ombre, era l’imperativo ora. Scivolare e poi perdersi per un attimo destabilizzante, un attimo soltanto, dimenticare il resto, libera dalla paura nell’avverarsi della paura stessa. (La paura di nemici in agguato, della morte dei suoi amici, delle persone che amava più di se stessa, se avesse fallito nella fuga progettata. Tradirli e nel tradimento salvarli, in uno degli innumerevoli controsensi della vita.)
In quell’attimo cristallizzato, Molly chiuse gli occhi per la pulsione di un battito sregolato, si godette i brulicanti rumori di fondo estivi.
Il vento, come una lusinga tra i capelli, faceva rifluire i gorghi d’aria e portava da un imbocco a un altro delle strade il suo lamento di nenia, litania mai dissimile e neppure del tutto uguale.

Canti funebri, canti d’addio. Non erano l’ideale, nel suo caso?
Oh, come le era mancato. Il buio senza tempo della notte londinese – l’impronta del passato nelle pietre degli edifici d’epoca, quella del domani negli impianti futuristici degli skyline; le stelle cieche in un cielo rannuvolato, il rumore lontano del traffico e la quiete effimera, simile all’intervallo durante un’opera di teatro.
Molly percorse a passi sbrigativi la strada. Anche nel suo essere palesemente deserta, le trasmetteva una sensazione inquieta di tramestio, di vita celata allo scrutinio approssimativo di uno sguardo disattento.
C’erano occhi, nascosti dietro le persiane delle finestre, negli androni dei portoni, negli anditi delle villette a schiera; occhi che seguivano e osservavano ogni suo movimento.
Non li vedeva, ma poteva sentirli, con la potenza irrevocabile della fantasia, resa contorta dall’affanno.
Stritolando per scaramanzia il foglietto con le istruzioni che avrebbe potuto recitare a memoria per quante volte le aveva rilette, il braccio rigido contro la scatola, Molly sollevò il cappuccio del giubbotto antipioggia e cominciò a correre. 

 
*

 
Attendere. Ora tutto quello che doveva fare era attendere.
Accoccolata nell’angolo estremo del ponte, la lingua di piombo ribollente del Tamigi sotto di lei e il cielo nerofumo a gravare in una massa di nuvole informi, Molly rifletté sull’irrealtà della situazione.
Nel turbinio dell’ansia crescente, ricercò con disperata solerzia lo sguardo materno di Mrs. Hudson, il sorriso di Mary che sapeva essere così pungente e analitico, quello spiegazzato di John, il modo in cui Victoria aggrottava le sopracciglia per nascondere la sua riluttanza a fidarsi, Wiggins che, fischiettando e dondolando sui talloni, le diceva che era una brava persona, come se si trattasse del complimento più lusinghiero che potesse rivolgerle.
Molly ricordò altre facce amiche, le tratteggiò amorevolmente. Meena, Caroline, Greg, Sally, Mike Stamford. I volti dei suoi genitori, della sua prima famiglia.
Cercò di non pensare a lui. Farlo sarebbe stato come aprire il vaso di Pandora.
Molly si concesse il lampo di un’immagine, la lama di un sorriso asimmetrico in cui i denti venivano mostrati in uno sprazzo fulmineo. Si disse soddisfatta. Però, più avanti, nel freddo nervoso che le ghiacciava il sangue, nel martellante rumore che incalzava nelle orecchie, non resistette oltre.

Debole. Sei una debole, Molly.
Richiamò a sé il calore delle mani di Sherlock – mani grandi, ampie, che potevano racchiuderle il viso nei palmi con estrema facilità -, la sensazione delle sue labbra che si muovevano sulle proprie, l’intensità di certe sue occhiate in momenti ben precisi, la robustezza del corpo atletico e longilineo di lui, dei suoi abbracci volitivi, dove tutto sembrava ridursi, il mondo intero era circoscritto dalle sue braccia.
Sherlock e l’arricciatura delle labbra quando cercava di non lasciar trapelare il suo divertimento, la fulgida luminosità dell’azzurro elettrico dei suoi occhi.
Sherlock e l’aspetto malinconico che non sapeva di assumere quando, davanti alla finestra del 221B, accompagnava le albe opalescenti con la musica struggente del suo violino. E Molly sapeva, ora come allora, come sempre, cosa stesse suonando, a quali momenti precisi ed occasioni particolari stesse trovando melodie per cui non esistevano espressioni altrettanto efficaci.
Sherlock e il suo essere schivo, penetrante, pungente e intenso.

Sherlock. Una preghiera sulle labbra, del cuore. Sherlock. Sherlock. Sherlock.
L’alba era ancora lontana. Sherlock lo era più che mai.

 
*
 

John non sapeva cosa stesse succedendo. Sapeva soltanto che un minuto prima era stato nel suo letto a dormire il sonno dei beati, mentre in quello successivo Sherlock lo aveva scosso bruscamente e altrettanto bruscamente gli aveva intimato di vestirsi, dopodiché era marciato fuori dalla stanza come una furia, sbattendosi la porta alle spalle.
Doveva ringraziare ogni santo del paradiso che il rumore non avesse svegliato Katie o, qualsiasi fosse la natura dannata del suo problema, non avrebbe avuto clemenza di lui.
Lanciando un’occhiata insonnolita alla finestra, John osservò le prime strisce di luce rosata di un’alba quanto mai discreta.
Imprecò, del tutto sveglio, ributtando la testa sul cuscino e scalciando via le coperte. Neppure il bacio di Mary riuscì a rabbonirlo.
Soltanto quando incrociò l’espressione di Sherlock, pochi minuti più tardi, in salotto, ogni traccia di rabbia si volatilizzò, impallidendo in preoccupazione.
“Cosa c’è? Cosa succede?” John volse lo sguardo a Victoria Queen, assorbita nel percuotere i tasti del laptop come se da quello dipendesse la sua salvezza mentale. “Dov’è Molly?”
Gli occhi di Sherlock erano incavature buie, senza fondo. “È scomparsa.”
John sentiva la lingua come cartapesta contro il palato, la gola secca.
Mary interpretò il suo silenzio e si fece avanti per prendergli la mano e stringerla, quasi cercasse di infondergli una scintilla. “State rintracciando il segnale del GPS nel ciondolo di Molly?”  

Era a quello che serviva? John volse uno sguardo incredulo a Sherlock. “È per questo che hai voluto che te lo prendessi? Come diavolo ha fatto Molly a uscire?”
Dov’era lui, dov’erano tutti quando era stata presa?
Con cupa lentezza Sherlock fece un cenno di diniego. “Molly non è stata rapita.”
Il tono in cui lo disse, apatico, di calma apparente, gli ricordò l’occhio del ciclone: qualcuno che si trovi al centro di un tornado, circondato dalle pareti incontrollate d’aria che gli vorticano attorno impazzite, in balia della forza distruttrice che le disloca.
“Tu sapevi che sarebbe successo.” John ispezionò la stanza, concitato, cercando il suo soprabito. “Dobbiamo trovarla!”
“L’avrà minacciata facendole credere che fossimo in pericolo,” proseguì Sherlock, rivolto a Mary.
“Si è resa rintracciabile,” ribatté lei.
Mary e Sherlock si scambiarono uno sguardo criptico e un lieve segno d’intesa. Stavano evidentemente sostenendo una di quelle conversazioni mute che erano loro esclusivo privilegio. 
Cercando di tenere a bada il fastidio, John aggrottò la fronte e si passò una mano sul mento. Non riusciva a conservare la compostezza di cui entrambi sembravano invece padroni. “Quanto può essere brava?”
“Dannatamente.” Sherlock era tornato a fissarlo e John intravide qualcosa che aveva sperato di non scorgere più negli occhi di lui, non dopo Appledore. “Siamo la sua famiglia e non c’è niente che non si farebbe per la famiglia.”
 

*

“Il vero colpevole brindava con noi con champagne e dolci di pessima qualità.”
Erano in una macchina mandata da Mycroft, diretti al ‘luogo dell’esecuzione’, come lo aveva definito macabramente Wiggins. John aveva serrato i pugni per la tentazione di colpirlo. “Con noi –” batté le palpebre, preso in contropiede, prima di cominciare a scuotere la testa “ma con noi c’era solo… oh, no. No, no, no.”
“Tom Airy.” La voce di Mary era priva della benché minima inflessione. John si chiese una volta di più a quali orrori avesse assistito, in quella sfera della sua vita che non gli apparteneva, per reagire con tale impassibile prontezza d’animo. “Anagramma di Moriarty.”
“Pensavo che si trattasse di Sebastian Moran,” disse John.
Sherlock annuì. “Il suo vero nome è Sebastian Moran.”
“Molly è l’esca, l’hai usata come esca.”
“Speravo che non fosse necessario arrivare a tanto.”
“Oh, questo sistema tutto allora! Tu non volevi, ma sei stato costretto! Perché mi pare di averla già sentita, questa?” Grondava sarcasmo e sapeva di suonare del tutto fuori luogo nelle attuali circostanze, ma non gli importava. Ovunque fosse, Molly rischiava la vita, forse era già morta. “Probabilmente perché è la tua scusa di sempre!”
Sherlock roteò gli occhi. “John, ti stai comportando in maniera ridicola.”
“Be’, tu abominevolmente nei confronti della tua pseudo fidanzata o qualsiasi cosa sia Molly per te. Se usciamo vivi da questa storia, no, sul serio, se ne usciamo vivi, un pugno di ringraziamento non te lo leva nessuno." Una pausa. "Molly lo sa? Che il suo ex fidanzato è uno psicopatico?”
Sherlock ruotò la testa con un movimento teso, stirò le dita nei guanti di pelle. “Non ho trovato indispensabile informarla.”
“Sherlock!”  
“Cosa?” Sherlock scoccò una smorfia, come se fosse una freccia, verso Mary che si era lasciata sfuggire quell'esclamazione. “Anche tu non condividi tutte le informazioni in tuo possesso con John o sbaglio, Mrs. Sniper?”
Mary gli sorrise. “Preferisco Miss Mummy.”
John scosse la testa. “Non è così che funziona una relazione.”
“John, ti pare il momento?” domandò Mary.
“Potremmo morire e non avrei occasione di dirgli che è una testa di –”
“Non c’è stato modo!” esclamò Sherlock esasperato.
“Cinque mesi, Sherlock e non ti è mai passato in mente di informarla? Non venire a farmi credere che non ci sono state occasioni! Da quanto sai? Scommetto da un bel po’. No, tu non hai voluto.”
“Sì, John, non ho voluto. A costo di farmi odiare da lei, le ho deliberatamente nascosto la verità perché temevo che ne rimanesse ferita, come difatti sarà.”
“Lo sarebbe stata, ma almeno ti avrebbe avuto al suo fianco.”
“Mi avrà comunque al suo fianco.”
John incrociò le braccia sul petto e guardò fuori dal finestrino ostentatamente. “Magari non ti vorrà.”
“Non parliamone adesso,” li frenò Mary con aria di rimprovero. “John, questi sono affari di Sherlock e Molly. Ci penseremo quando tutto questo sarà finito.”

Quando tutto sarà finito. John cercò di non pensare alla sentenza in modo pessimistico. Non ci riuscì.  

 
*
 

Molly aveva seguito le istruzioni. Travestita per una maratona a cui non avrebbe partecipato, era rimasta sul ponte e quando un gorilla si era avvicinato con una busta di plastica, lei non aveva battuto ciglio.
I rintocchi del Big Ben avevano accompagnato lo scorrere ristagnante della notte e scandito le prime ore dopo l’alba.
Molly si era riscaldata al rumore del traffico che incrementava e dello scalpiccio delle persone che cominciavano ad affollare la strada, ai colori caldi che rendevano l’acqua e il cielo abbaglianti nel primo mattino.
Attese, ascoltando ciò che la voce dell’uomo aveva da dirle.
Le storie che le riferì erano orribili, ma vere, su questo non c’era dubbio.
Le raccontò di morte, tortura, menzogne e inganni spacciati per piani elaborati.
Le raccontò la verità e la verità era peggio di qualsiasi incubo.
Nella pesantissima pelliccia sintetica, Molly ascoltava perché non aveva scelta.    

 
*
 

Nella folla di gorilla emerse la testa di un uomo. Era una spanna sopra i corridori che continuavano la maratona, aprendosi ai suoi lati come le biforcazioni di un fiume per farlo passare indenne e non travolgerlo.
Nel campo di tenebra e freddo in cui era sprofondato, il cuore di Molly riprese a battere, ma non a sperare. Erano i battiti penosi e sordi che precedono l’ultimo.
“Il cavalier servente. Non è affascinante, Molly?” le chiese la voce suadente all’orecchio. Il Serpente biblico che offriva l’emarginazione, smerciandola per antica conoscenza. “Di’, ti ha mai raccontato della volta in Karachi con Irene Adler? Sai che la chiama La Donna? No, certo che no, perché tu conti.”
Sherlock controllò la sua figura, irriconoscibile nel costume da gorilla, con uno sguardo che la fece sprofondare nuovamente nel baratro. Avrebbe desiderato che lo sguardo di lui fosse focalizzato e in qualche modo lo era, ma distorto da risoluzioni falsate. Stava fingendo che non gli importasse e a Molly non era mai stato più chiaro che in quel momento lo sforzo che gli occorreva per riuscire nell’intento.
“Parlare tramite altri,” Sherlock strascicò le parole con studiata insofferenza. “Tutto questo è ripetitivo.”
Molly trasse un respiro vibrante, raddrizzò le spalle. “Sherlock Holmes,” disse ciò che l’uomo-serpente le stava sussurrando. Trasmetteva messaggi. “Tu hai preso qualcosa che mi era caro, molto caro.”
“Moriarty ha sparato a se stesso,” corresse Sherlock con un sorriso artificioso. “Non io.”
“Tu ce lo hai costretto. Jim ha sempre avuto metodi estremi, per lui il fine giustificava il mezzo.”
Sherlock la fissò di nuovo, con un’intensità tale da darle l’impressione di averla corsa davvero quella maledetta maratona, di trovarsi sotto a dei riflettori incandescenti. “Tu lo amavi,” disse a voce bassa.
“Io lo amo,” replicò Molly flebilmente. Il sentimento dell’uomo-serpente suonava autentico. “La morte non uccide l’amore. Tenere a qualcuno è uno svantaggio. Il sentimento è -”
“Hai aspettato che me andassi e ti sei avvicinato a Molly,” interruppe Sherlock freddamente.
“Sapevo che eri vivo. Dovevi esserlo. E sapevo che la tua prossima mossa sarebbe stata smantellare la rete di Jim. Distruggere tutto ciò che lui aveva impiegato anni a costruire.”
Ogni parola pesava come un macigno sulle corde vocali, ma così il dispositivo dentro il torace rigido del costume.   
“Me lo hai lasciato fare. Perché?”
“Avrei potuto ucciderti o uccidere i tuoi, ma quale sarebbe stato il divertimento? No, così è tutto molto più intimo. Guardala. ‘Q
uesta ragazza, che ha saputo rimanere calma e grave dinanzi alla porta dell'inferno e alle piroette del demonio. Questa ragazza, che è quieta e sana e innocente’. Rappresenta tutto ciò che un uomo potrebbe mai desiderare. Guarda la sua pelle, porcellana. E quei capelli fini -” continuò con delle oscenità che Molly, con una morsa di nausea e disgusto, fu costretta a ripetere, osservando gli occhi di Sherlock farsi torbidi, d’acciaio. “Oh, ma tu non vuoi sentirlo, vero? Mi sono sempre chiesto perché non mi avessi dedotto, al nostro primo incontro. Molly mi aveva messo in guardia, ma tu mi hai rivolto a malapena la parola. Ho provato a richiamare la tua attenzione, allora, al matrimonio dei Watson. Un pugnale di carne. Che cosa idiota. Ancora nessuna reazione da parte tua. D’altronde anche per Mary Morstan è stato così. Anche lei è sfuggita al tuo radar, no? Oh, Mr. Sherlock Holmes, tu mi deludi.”
No no no no. Non poteva essere vero. Non poteva essere Tom. Tutti, ma non Tom. Non lui, non anche lui.
Leggendo lo sconforto e la disperazione acuirsi in lei, la mandibola di Sherlock si irrigidì e ci fu un guizzo di muscolo sulla fronte.
“Hai voluto attirarmi a Reading.”
“Vero. Volevo accelerare i tempi. Ho aspettato così a lungo. Stava diventando noioso. Noioso, noioso, noioso. Mi sembra di aver aspettato anni. Non che non ci siano stati intramezzi piacevoli nell’attesa. Mi sono scopato la tua patologa. Scopa incredibilmente bene, sai? Ti chiamava spesso, nel sonno. Una volta l’ha fatto durante un amplesso. Il giorno dopo mi ha lasciato. Era così mortificata, così dispiaciuta. Anche quando ha lasciato Jim lo era. Jim non sapeva se ridere o strangolarla. Sai che avevo affittato una famiglia, per lei? Ho anche comprato un cane. Peccato, comunque. L’avrei sposata e la prima notte di nozze le avrei strappato via il vestito e la pelle. Non sarebbe stata più così carina poi, non trovi?”
Sherlock cercò il suo sguardo e Molly non riuscì a rifuggirlo oltre. Non voleva vedere riflesso nel suo l’orrore che la paralizzava e non lo trovò. C’era pura logica, calcolo. 
“Tu sei pazzo.”
“Chi non lo è, a questo mondo?” Molly si costringeva a recitare quelle battute non sue, atona. “Questo pazzo, pazzo mondo. Non fingere che la cosa ti dispiaccia. Io ti vedo e ti conosco. Ho visto il modo in cui la guardavi, quando pensavi che nessuno se ne accorgesse. Con desiderio, brama, come una cosa che avresti voluto inglobare. Conosco i tuoi peccatucci. Ha ucciso un uomo, lo sapevi, Mols? Ha sparato a un uomo a sangue freddo e non era il grande uomo cattivo. Meritava la morte, ma chi può dirlo? Uno squalo, è così che l’hai chiamato, vero? Chi tocca i tuoi amici è un uomo morto. Non c’è poesia in questo. Mi piace. A Jim, però, non sarebbe piaciuto. Toglie bellezza al tuo personaggio. Gli dà nuove macchie, nuovo spessore. Sei caduto dal piedistallo e non sei più tra gli intoccabili. Non sei un eroe.”
“Non lo sono mai stato.”
“Ma il resto del mondo non lo sapeva. Molly non lo sapeva. Hai conosciuto mio padre, Mr. Sherlock Holmes. È un Lord, anche se tu preferisci chiamarlo Ratto numero 1. Sa chi sono, Molly. Lo ha sempre saputo.”
(“Da quanto? Rispondi alla domanda, Sherlock.”

“Sin dall’inizio.”)
“Sei stato furbo. Te ne do atto, quel programma di camuffamento della voce -”
“Un tocco di eleganza, non trovi? Farti credere che fossi lui.”
“Perché?” Un lieve acciglio si fece strada nel volto immobile di Sherlock. Per chiunque altro sarebbe stato inespressivo e vuoto, polare, ma non per lei. Molly sfogliava come se fosse un libro aperto la sua inquietudine nella trazione del collo, nella linea obliqua della bocca, nel crocchiare della mandibola, nell’accuratezza della sua maschera danzante.     
“Dovevo farti tornare. L’affare di Lady Smallwood si era spinto troppo in là perché Magnussen ha fatto il passo più lungo della gamba. Miserabile è chi non ha una donna che ne pianga la morte.”
A quanto pareva Moran non aveva altro da dire a Sherlock, perché si rivolse a lei, concedendole la libertà di non ripeterlo.
La avvertì. Aveva cinque minuti a partire da quel momento, prima che la bomba esplodesse. Se non fosse saltata dal ponte entro lo scadere del tempo, lui l’avrebbe fatta saltare in aria e insieme a lei l’intero ponte, l’Ospedale del Barts e Baker Street. Poteva morire, scegliendo di farlo o morire comunque, ma sapendo di aver condannato alla morte anche tutto ciò che amava. Aveva cinque minuti per dire addio.
Lui non pose fine alla trasmissione. Voleva sentire, sarebbe rimasto in ascolto ad origliare, beandosi del suo dolore, della sua angoscia.
Molly si appoggiò contro il parapetto del ponte in cerca di sostegno, odiandosi perché si sentiva vacillare, aveva le gambe pesanti e molli.
Dietro di loro c’erano ancora i rumori della corsa che procedeva.
Nulla era cambiato per il resto del mondo. Per lei lo era tutto invece.    
“Strapparmi il cuore dal petto e bruciarlo,” sentì che Sherlock diceva.
Non si era dimenticata di lui e quasi avrebbe voluto esserne capace.
Molly avrebbe voluto baciarlo, nella confusione che li circondava, gettarsi nella baraonda con lui e scappare. Ogni parte di lei le urlava che non poteva, che, anche se lo avesse voluto davvero, non avrebbe potuto.
“Molly.”  Sherlock le si avvicinò cautamente, ma non la toccò.
Erano così vicini che il bordo del Belstaff scremava il pelo sulle ginocchia, così vicini che lei poteva contare le rughe ai bordi degli occhi di lui, scomporre le pagliuzze grigio-verdi dell’iride. (Si era sempre chiesta se la sua fosse una eterocromia centrale). 
Erano così vicini che le loro ombre erano sovrapposte, l’una incorporata nell’altra. Erano così vicini da sembrare stretti in un abbraccio e lo stesso Molly non si era mai sentita più distante da lui, le pareva di essere su uno strapiombo e che lui fosse sull’estremità della punta opposta.
“Oh, Molly, non vedi l’elaboratezza del piano?” domandò lui concitato, ma anche con qualcosa che era molto simile alla dolcezza. “Volevano distruggermi, lo hanno sempre voluto, ma io mi sono dimostrato indistruttibile o perlomeno tutt’altro che facile da distruggere. I miei amici sono la mia famiglia. Ancora non vedi? Ancora non capisci? Avrebbe potuto ucciderti subito. Perché non l’ha fatto? Ha minacciato te, ma mai me, mai direttamente. Perché? Voleva portarti a questo, alla disperazione. Voleva che tu ti sentissi come se non avessi via di uscita. E a questo punto ha fatto l’ultima mossa: farti credere che se ti butterai da questo tetto, sarò salvo. Credi a lui, Molly? Riponi la tua fiducia in lui o in me?” Non la guardava più col distacco che aveva tentato di esibire, ma con concerno. Era animato, impaziente e febbrile. Parlava come se fosse in preda a una forte agitazione, rapidamente e privo di soste. “Molly, non importa quali piani tu abbia fatto. Se tu ti butti, salterò anch’io.”
Per qualche istante lei smise di respirare. I polmoni le dolevano, perciò ricominciò, ma la sensazione di pressione in petto non mutò, non svanì.
Sherlock le scostò una ciocca di capelli, sistemandogliela dietro l’orecchio. Era un gesto così familiare che le sembrò di essere tornata nel salotto di Baker Street, che di lì a poco Mrs. Hudson sarebbe salita a portar loro il tè. “Oh, sì, lo aveva previsto ed è esattamente ciò su cui contava. Costringere te ad uccidermi. Un piano astuto, diabolico, brillante. Spingermi ad odiarti e spingere te ad odiare te stessa, nonché me per averti ridotta in questa situazione. Se salti, farai solo il suo gioco. Ti chiedo di essere egoista, Molly.”
Molly deglutì. “Tu non lo sei stato,” disse in tono di accusa. “Non lo sei stato due volte.”
“Scegli me, Molly. Non puoi salvare la tua famiglia. Salva me.”
Stava bluffando, ma perché? L’unica ragione poteva essere – Tempo. Stava prendendo tempo. Per fortuna, Tom, Sebastian era abbastanza sadico da trovarlo uno spettacolo divertente. “Salteresti davvero?” domandò in tono sommesso.
Il barlume fugace di comprensione che saettò nel suo sguardo le parlò di orgoglio perché lei aveva capito attraverso le sue azioni, aveva letto nelle sue parole. “Mi sei indispensabile, Molly. Credevo che avessimo chiarito questo punto da tempo.”
“Se non salto, lui ucciderà –”
“No, non lo farà. Cosa credi che io abbia fatto in questi mesi? A cosa credi che servisse Victoria Queen?”
“Victoria?” fece eco lei.
“Un genio dell’informatica,” rivelò Sherlock. “Un vero pirata del web, un occhio in tempo diretto. Ho tutte le prove che occorrono, Molly. Mi serviva quella schiacciante. Non potevo ripetere lo stesso errore.”
Moran rise, una risata che la fece rabbrividire, spine di ghiaccio giù per la nuca e la spina dorsale. “Ma lo hai fatto, Sherlock,” si costrinse a ripetere, piangendo, “e questa è la tua fine.”
Molly si sporse, guardò il corso d'acqua sotto di lei e poi si sentì tirare all’indietro con una violenza che le fece lacrimare gli occhi. Non ebbe il tempo di pensare a niente.
Con la schiena che le doleva, premuta contro l’asfalto, Sherlock le aveva già strappato la plastica che rivestiva il torace, esponendo il dispositivo al di sotto. Lo afferrò e lo gettò giù dal ponte, sovrastando il proprio urlo con il suo. “Mary! John! Ora!”

 

 
Era successo tutto in un battito di ciglia.
Il cielo era al suo posto e così il ponte, nonostante il tremore che lo aveva scosso quando la bomba era esplosa, che aveva sovrastato qualsiasi altro rumore e che aveva fatto tremare la pietra e le assi della struttura.
Molly era ancora a terra, stravolta ma viva. Sapeva distinguere lo stato di morte.
“Molly, cosa stai facendo?” La testa nera e arruffata di Sherlock entrò nel suo campo visivo, l’azzurro dei suoi occhi scalzò quello del cielo.  “Dobbiamo muoverci!”
Molly sentiva la folla di passanti che vociava, già rivolgeva domande, parlava di chiamare la polizia, avvertire le autorità competenti. Sentì il nome ‘Moriarty’ cominciare a diffondersi nel brusio intimorito.
Sherlock le si stese accanto, cercò freneticamente una ferita alla testa.
Molly non accennava a muoversi. Avrebbe voluto ridere, nascondersi il viso dietro il braccio, si accorse di non riuscirci.
“Lasciami godere il momento, Sherlock,” mormorò, rauca. “Zitto.”

 
*
 

Il ‘dopo’ era per Molly un pandemonio di parole, sfilacci di immagini, volti.
Ricordava vagamente di essere stata abbracciata da Mary e che John l’avesse praticamente placcata in una presa da boa constrictor.
Ricordava di aver atteso un’eternità in una stanza con una carta da parati scura e un enorme ritratto della Regina, una scrivania piena di fascicoli e delle poltroncine di legno malagevoli.
Ricordava il viso bellissimo della donna che si faceva chiamare Anthea, le sopracciglia inarcate con cui aveva squadrato il suo costume da gorilla e che lei si era praticamente dimenticata di star indossando.
Molly non si era accorta della foga con cui aveva cercato di toglierselo finché l’altra non aveva messo da parte l’espressione distante e vaga,  si era messa a disposizione e l’aveva aiutata a venirne fuori. Era stato come essere privati di un peso di dieci chili e Molly si era ritrovata a respirare e nuda, proprio nel momento in cui la porta si riapriva per far entrare Sherlock e Mycroft.
Mycroft non aveva battuto ciglio e Sherlock aveva attraversato la stanza per coprirla con il Belstaff. L’aveva fatta sedere, rimanendole accanto, le mani sulle sue spalle. Molly aveva poggiato la testa contro il braccio di lui, inclinandola in modo da poggiarsi contro la curva del gomito.
Mycroft aveva rimproverato Sherlock con un lungo sermone, poi d’un tratto aveva smesso.
Ricordava che, prima di uscire, le si fosse rivolto personalmente. “Molly,” aveva detto ed era la prima volta che la chiamava per nome.
Molly si era aspettata una frase sibillina sulla stupidità di certi gesti avventati, l’impulso che quei tali ‘sentimenti’ operavano contro la ragione. Sorprendentemente, Mycroft aveva solo aggiunto “Grazie.”
 “Prego,” aveva ribattuto lei e aveva sorriso torpidamente.
Ricordava la risata di Sherlock e il fiacco, pigro sorriso di Mycroft, l’occhiata interdetta di Anthea.
Ricordava che una macchina li aveva accompagnati a Baker Street.
Sul morbido sedile di pelle, Molly si era abbassata il bavero del cappotto, si era rimboccata le maniche sui polsi. “Avresti dovuto raccontarmi tutto questo tempo addietro.”
“Intendevo proteggerti.”
Molly aveva poggiato la guancia bollente contro il vetro gelido del finestrino, esausta. “Adesso chi è che si arrampica sugli specchi e accampa scuse ridicole?”
“Molly.”
Sherlock doveva aver notato qualcosa nel suo tono spento e stanco, qualcosa che era sfuggito a lei che per prima lo aveva usato, perché l’aveva guardata con una nota di allarme, ferito come se lei lo avesse colpito fisicamente. 
“Non parliamone adesso, Sherlock, te ne prego.”
La verità era che neppure Molly sapeva cosa provava.
Ricordava che Sherlock l’avesse messa a letto, si fosse sfilato le scarpe e si fosse steso accanto a lei, le loro braccia rasenti e i dorsi delle mani che si lambivano come onde di mare e battigia di una spiaggia.
Ricordava di essere caduta quasi subito in un oblio soporifero, dolce e che il mormorio ipnotico di Sherlock avesse accompagnato il suo passaggio graduale al sonno. Non aveva afferrato il senso di quel suo mormorio, ma ne aveva colto la sincerità.

 
*

La mattina successiva, Molly se n’era andata.
Non si era lasciata dietro niente tranne il vago sentore floreale sulle sue vestaglie.
Non c’era segno di Toby o del giradischi di suo padre o dei suoi libri. Non c’era la fotografia di suo nonno sulla mensola del camino.
Billy il teschio appariva desolatamente solo, l’appartamento era tetro e silenzioso.
Sherlock scacciò quelle impressioni, scrollando le spalle e storcendo occhi, naso e bocca con uno ‘sciocchezze’.

 

 

  
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