Succederà
questa notte.
Un sussurro, un
messaggio, uno sguardo complice.
Succederà
questa notte.
Tutto si deciderà sotto
le stelle di questa notte.
Occhi d’argento, fieri,
la guardano mentre finge di dormire. Perché finge, è palese. Le spalle sono troppo
rigide, il respiro è controllato, il braccio che pende dalla sponda è teso in
un arco irrealistico.
Indossa una vecchia
maglietta di una squadra di canottaggio universitaria, una che è appartenuta a
suo padre; porta i capelli annodati in una treccia sfatta che le pende sulla
spalla nuda.
Il gatto soffia dal
cuscino ai piedi del letto, dove lei gli deve aver intimato di restare. Non
l’ha voluto con sé. Deve odiare la sua somiglianza con Toby, malgrado ciò gli
ha preparato un’alcova confortevole e a portata di orecchie.
Tipico, pensa.
Vorrebbe improntare il
pensiero della risentita incomprensione che avrebbe provato, ha provato anni orsono. Non ci riesce.
Si stende di fianco a
lei e lascia che il respiro di Molly, tiepido, gli sfiori la base della gola quando
le preme la bocca sulla tempia, poco sopra l’arcata del sopracciglio, gentilmente.
Una carezza come lo è la voce di lei nella sua coscienza, il profumo affusolato
di fiori che la permea, il peso del suo sguardo accurato – lo stesso che ora,
serrato nella bugia del sonno, è impegnato a mentirgli.
Essere gentile, alla
volte, è un tormento.
Vorrebbe prenderla, lì e
adesso, per trattenerla, scomparire dentro di lei, in quel bianco accecante,
totalizzante che spegne il resto, manda il mondo dentro di lui in blackout.
Sherlock si tira
indietro, la copre con il lenzuolo e le dà la schiena.
Deve
andare.
Molly indugia. Sa che
ogni momento è prezioso, ma non riesce a muovere un muscolo, non riesce a
distogliere lo sguardo dalla schiena ampia e nuda di lui, dalle linee
frastagliate delle cicatrici che gli affollano le spalle e il dorso, fino ai
fianchi. Sono segni pallidi, appena più pallidi del resto della pelle, del
colore delle ossa, della morte, della cipria.
Molly indugia. Vorrebbe
accarezzarle in punta di polpastrelli, baciarle, leggeri tocchi di farfalle, invece
permette che solo il suo respiro lo faccia per lei.
Potrebbe essere l’ultima
volta che lo vede, che lo tocca.
È
per salvarlo, ricorda. Per salvare
tutti loro.
Guarda il grande, straordinario
uomo che Sherlock è. Quello che sta provando, lui lo ha provato. Quella cosa
squassante che le strappa a brani il cuore e le morde il respiro, lui la
conosce.
Saperlo, glielo fa amare
più di quanto sia sopportabile.
Sì,
deve proprio andare.
IL SONNO DELLA RAGIONE
Molly
si era aspettata che sarebbe stato difficile, complicato, addirittura
impossibile.
Che
fosse così semplice sgusciare attraverso l’invisibile filo spinato della rete
protettiva di Baker Street, dopo cinque mesi di arresti domiciliari, era un
affronto, qualcosa di inconcepibile.
Non
era mai stata una prigioniera, lo sapeva bene.
La
gabbia era stata il suo desiderio di compromesso, l’armistizio con la ragione
che aveva messo a tacere.
Scivolare,
un’ombra tra le ombre, era l’imperativo ora. Scivolare e poi perdersi per un
attimo destabilizzante, un attimo soltanto, dimenticare il resto, libera dalla
paura nell’avverarsi della paura stessa. (La paura di nemici in agguato, della
morte dei suoi amici, delle persone che amava più di se stessa, se avesse
fallito nella fuga progettata. Tradirli e nel tradimento salvarli, in uno degli
innumerevoli controsensi della vita.)
In
quell’attimo cristallizzato, Molly chiuse gli occhi per la pulsione di un
battito sregolato, si godette i brulicanti rumori di fondo estivi.
Il
vento, come una lusinga tra i capelli, faceva rifluire i gorghi d’aria e
portava da un imbocco a un altro delle strade il suo lamento di nenia, litania
mai dissimile e neppure del tutto uguale.
Canti funebri, canti
d’addio. Non erano l’ideale, nel suo caso?
Oh,
come le era mancato. Il buio senza tempo della notte londinese – l’impronta del
passato nelle pietre degli edifici d’epoca, quella del domani negli impianti
futuristici degli skyline; le stelle cieche in un cielo rannuvolato, il rumore
lontano del traffico e la quiete effimera, simile all’intervallo durante
un’opera di teatro.
Molly
percorse a passi sbrigativi la strada. Anche nel suo essere
palesemente deserta, le trasmetteva una sensazione inquieta di tramestio, di
vita celata allo scrutinio approssimativo di uno sguardo disattento.
C’erano
occhi, nascosti dietro le persiane delle finestre, negli androni dei portoni,
negli anditi delle villette a schiera; occhi che seguivano e osservavano ogni
suo movimento.
Non
li vedeva, ma poteva sentirli, con la potenza irrevocabile della fantasia, resa
contorta dall’affanno.
Stritolando
per scaramanzia il foglietto con le istruzioni che avrebbe potuto recitare a
memoria per quante volte le aveva rilette, il braccio rigido contro la scatola,
Molly sollevò il cappuccio del giubbotto antipioggia e cominciò a correre.
*
Attendere.
Ora tutto quello che doveva fare era attendere.
Accoccolata
nell’angolo estremo del ponte, la lingua di piombo ribollente del Tamigi sotto
di lei e il cielo nerofumo a gravare in una massa di nuvole informi, Molly rifletté
sull’irrealtà della situazione.
Nel
turbinio dell’ansia crescente, ricercò con disperata solerzia lo sguardo
materno di Mrs. Hudson, il sorriso di Mary che sapeva essere così pungente e
analitico, quello spiegazzato di John, il modo in cui Victoria aggrottava le
sopracciglia per nascondere la sua riluttanza a fidarsi, Wiggins che, fischiettando
e dondolando sui talloni, le diceva che era una brava persona, come se si
trattasse del complimento più lusinghiero che potesse rivolgerle.
Molly
ricordò altre facce amiche, le tratteggiò amorevolmente. Meena, Caroline, Greg,
Sally, Mike Stamford. I volti dei suoi genitori, della sua prima famiglia.
Cercò
di non pensare a lui. Farlo sarebbe stato come aprire il vaso di Pandora.
Molly
si concesse il lampo di un’immagine, la lama di un sorriso asimmetrico in cui i
denti venivano mostrati in uno sprazzo fulmineo. Si disse soddisfatta. Però, più
avanti, nel freddo nervoso che le ghiacciava il sangue, nel martellante rumore che
incalzava nelle orecchie, non resistette oltre.
Debole. Sei una debole,
Molly.
Richiamò
a sé il calore delle mani di Sherlock – mani grandi, ampie, che potevano
racchiuderle il viso nei palmi con estrema facilità -, la sensazione delle sue
labbra che si muovevano sulle proprie, l’intensità di certe sue occhiate in
momenti ben precisi, la robustezza del corpo atletico e longilineo di lui, dei
suoi abbracci volitivi, dove tutto sembrava ridursi, il mondo intero era
circoscritto dalle sue braccia.
Sherlock
e l’arricciatura delle labbra quando cercava di non lasciar trapelare il suo
divertimento, la fulgida luminosità dell’azzurro elettrico dei suoi occhi.
Sherlock
e l’aspetto malinconico che non sapeva di assumere quando, davanti alla
finestra del 221B, accompagnava le albe opalescenti con la musica struggente
del suo violino. E Molly sapeva, ora come allora, come sempre, cosa stesse
suonando, a quali momenti precisi ed occasioni particolari stesse trovando melodie
per cui non esistevano espressioni altrettanto efficaci.
Sherlock
e il suo essere schivo, penetrante, pungente e intenso.
Sherlock. Una preghiera sulle
labbra, del cuore. Sherlock. Sherlock.
Sherlock.
L’alba
era ancora lontana. Sherlock lo era più che mai.
*
John
non sapeva cosa stesse succedendo. Sapeva soltanto che un minuto prima era stato
nel suo letto a dormire il sonno dei beati, mentre in quello successivo
Sherlock lo aveva scosso bruscamente e altrettanto bruscamente gli aveva
intimato di vestirsi, dopodiché era marciato fuori dalla stanza come una furia,
sbattendosi la porta alle spalle.
Doveva
ringraziare ogni santo del paradiso che il rumore non avesse svegliato Katie o,
qualsiasi fosse la natura dannata del suo problema, non avrebbe avuto clemenza
di lui.
Lanciando
un’occhiata insonnolita alla finestra, John osservò le prime strisce di luce
rosata di un’alba quanto mai discreta.
Imprecò,
del tutto sveglio, ributtando la testa sul cuscino e scalciando via le coperte.
Neppure il bacio di Mary riuscì a rabbonirlo.
Soltanto
quando incrociò l’espressione di Sherlock, pochi minuti più tardi, in salotto, ogni
traccia di rabbia si volatilizzò, impallidendo in preoccupazione.
“Cosa
c’è? Cosa succede?” John volse lo sguardo a Victoria Queen, assorbita nel percuotere
i tasti del laptop come se da quello dipendesse la sua salvezza mentale. “Dov’è
Molly?”
Gli
occhi di Sherlock erano incavature buie, senza fondo. “È scomparsa.”
John
sentiva la lingua come cartapesta contro il palato, la gola secca.
Mary
interpretò il suo silenzio e si fece avanti per prendergli la mano e
stringerla, quasi cercasse di infondergli una scintilla. “State rintracciando
il segnale del GPS nel ciondolo di Molly?”
Era a quello che
serviva?
John volse uno sguardo incredulo a Sherlock. “È per questo che hai voluto che
te lo prendessi? Come diavolo ha fatto Molly a uscire?”
Dov’era
lui, dov’erano tutti quando era stata presa?
Con
cupa lentezza Sherlock fece un cenno di diniego. “Molly non è stata rapita.”
Il
tono in cui lo disse, apatico, di calma apparente, gli ricordò l’occhio del
ciclone: qualcuno che si trovi al centro di un tornado, circondato dalle pareti
incontrollate d’aria che gli vorticano attorno impazzite, in balia della forza distruttrice
che le disloca.
“Tu
sapevi che sarebbe successo.” John ispezionò
la stanza, concitato, cercando il suo soprabito. “Dobbiamo trovarla!”
“L’avrà
minacciata facendole credere che fossimo in pericolo,” proseguì Sherlock,
rivolto a Mary.
“Si
è resa rintracciabile,” ribatté lei.
Mary
e Sherlock si scambiarono uno sguardo criptico e un lieve segno d’intesa. Stavano
evidentemente sostenendo una di quelle conversazioni mute che erano loro
esclusivo privilegio.
Cercando
di tenere a bada il fastidio, John aggrottò la fronte e si passò una mano sul
mento. Non riusciva a conservare la compostezza di cui entrambi sembravano invece
padroni. “Quanto può essere brava?”
“Dannatamente.”
Sherlock era tornato a fissarlo e John intravide qualcosa che aveva sperato di
non scorgere più negli occhi di lui, non dopo Appledore. “Siamo la sua famiglia
e non c’è niente che non si farebbe per la famiglia.”
*
“Il
vero colpevole brindava con noi con champagne e dolci di pessima qualità.”
Erano
in una macchina mandata da Mycroft, diretti al ‘luogo dell’esecuzione’, come lo
aveva definito macabramente Wiggins. John aveva serrato i pugni per la
tentazione di colpirlo.
“Tom
Airy.”
“Pensavo
che si trattasse di Sebastian Moran,” disse John.
Sherlock
annuì. “Il suo vero nome è Sebastian Moran.”
“Molly
è l’esca, l’hai usata come esca.”
“Speravo
che non fosse necessario arrivare a tanto.”
“Oh,
questo sistema tutto allora! Tu non volevi,
ma sei stato costretto! Perché mi
pare di averla già sentita, questa?” Grondava sarcasmo e sapeva di suonare del
tutto fuori luogo nelle attuali circostanze, ma non gli importava. Ovunque
fosse, Molly rischiava la vita, forse era già morta. “Probabilmente perché è la
tua scusa di sempre!”
Sherlock
roteò gli occhi. “John, ti stai comportando in maniera ridicola.”
“Be’,
tu abominevolmente nei confronti della tua pseudo fidanzata o qualsiasi cosa
sia Molly per te. Se usciamo vivi da questa storia, no, sul serio, se ne
usciamo vivi, un pugno di ringraziamento non te lo leva nessuno." Una pausa. "Molly
lo sa? Che il suo ex fidanzato è uno psicopatico?”
Sherlock
ruotò la testa con un movimento teso, stirò le dita nei guanti di pelle. “Non ho
trovato indispensabile informarla.”
“Sherlock!”
“Cosa?”
Sherlock scoccò una smorfia, come se fosse una freccia, verso Mary che si era lasciata sfuggire quell'esclamazione. “Anche tu
non condividi tutte le informazioni in tuo possesso con John o sbaglio, Mrs.
Sniper?”
Mary
gli sorrise. “Preferisco Miss Mummy.”
John
scosse la testa. “Non è così che funziona una relazione.”
“John,
ti pare il momento?” domandò Mary.
“Potremmo
morire e non avrei occasione di dirgli che è una testa di –”
“Non
c’è stato modo!” esclamò Sherlock esasperato.
“Cinque
mesi, Sherlock e non ti è mai passato in mente di informarla? Non venire a
farmi credere che non ci sono state occasioni! Da quanto sai? Scommetto da un
bel po’. No, tu non hai voluto.”
“Sì,
John, non ho voluto. A costo di farmi odiare da lei, le ho deliberatamente
nascosto la verità perché temevo che ne rimanesse ferita, come difatti sarà.”
“Lo
sarebbe stata, ma almeno ti avrebbe avuto al suo fianco.”
“Mi
avrà comunque al suo fianco.”
John
incrociò le braccia sul petto e guardò fuori dal finestrino ostentatamente. “Magari
non ti vorrà.”
“Non
parliamone adesso,” li frenò Mary con aria di rimprovero. “John, questi sono
affari di Sherlock e Molly. Ci penseremo quando tutto questo sarà finito.”
Quando tutto sarà
finito. John
cercò di non pensare alla sentenza in modo pessimistico. Non ci riuscì.
*
Molly
aveva seguito le istruzioni. Travestita per una maratona a cui non avrebbe
partecipato, era rimasta sul ponte e quando un gorilla si era avvicinato con
una busta di plastica, lei non aveva battuto ciglio.
I
rintocchi del Big Ben avevano accompagnato lo scorrere ristagnante della notte
e scandito le prime ore dopo l’alba.
Molly
si era riscaldata al rumore del traffico che incrementava e dello scalpiccio delle
persone che cominciavano ad affollare la strada, ai colori caldi che rendevano
l’acqua e il cielo abbaglianti nel primo mattino.
Attese,
ascoltando ciò che la voce dell’uomo aveva da dirle.
Le
storie che le riferì erano orribili, ma vere, su questo non c’era dubbio.
Le
raccontò di morte, tortura, menzogne e inganni spacciati per piani elaborati.
Le
raccontò la verità e la verità era peggio di qualsiasi incubo.
Nella
pesantissima pelliccia sintetica, Molly ascoltava perché non aveva scelta.
*
Nella
folla di gorilla emerse la testa di un uomo. Era una spanna sopra i corridori
che continuavano la maratona, aprendosi ai suoi lati come le biforcazioni di un
fiume per farlo passare indenne e non travolgerlo.
Nel
campo di tenebra e freddo in cui era sprofondato, il cuore di Molly riprese a
battere, ma non a sperare. Erano i battiti penosi e sordi che precedono
l’ultimo.
“Il
cavalier servente. Non è affascinante, Molly?” le chiese la voce suadente
all’orecchio. Il Serpente biblico che offriva l’emarginazione, smerciandola per
antica conoscenza. “Di’, ti ha mai raccontato della volta in Karachi con Irene
Adler? Sai che la chiama La Donna? No, certo che no, perché tu conti.”
Sherlock
controllò la sua figura, irriconoscibile nel costume da gorilla, con uno
sguardo che la fece sprofondare nuovamente nel baratro. Avrebbe desiderato che
lo sguardo di lui fosse focalizzato e in qualche modo lo era, ma distorto da risoluzioni
falsate. Stava fingendo che non gli importasse e a Molly non era mai stato più
chiaro che in quel momento lo sforzo che gli occorreva per riuscire
nell’intento.
“Parlare
tramite altri,” Sherlock strascicò le parole con studiata insofferenza. “Tutto
questo è ripetitivo.”
Molly
trasse un respiro vibrante, raddrizzò le spalle. “Sherlock Holmes,” disse ciò
che l’uomo-serpente le stava sussurrando. Trasmetteva messaggi. “Tu hai preso
qualcosa che mi era caro, molto caro.”
“Moriarty
ha sparato a se stesso,” corresse Sherlock con un sorriso artificioso. “Non
io.”
“Tu
ce lo hai costretto. Jim ha sempre avuto metodi estremi, per lui il fine
giustificava il mezzo.”
Sherlock
la fissò di nuovo, con un’intensità tale da darle l’impressione di averla corsa
davvero quella maledetta maratona, di trovarsi sotto a dei riflettori
incandescenti. “Tu lo amavi,” disse a voce bassa.
“Io
lo amo,” replicò Molly flebilmente. Il sentimento dell’uomo-serpente suonava
autentico. “La morte non uccide l’amore. Tenere a qualcuno è uno svantaggio. Il
sentimento è -”
“Hai
aspettato che me andassi e ti sei avvicinato a Molly,” interruppe Sherlock
freddamente.
“Sapevo
che eri vivo. Dovevi esserlo. E
sapevo che la tua prossima mossa sarebbe stata smantellare la rete di Jim.
Distruggere tutto ciò che lui aveva impiegato anni a costruire.”
Ogni
parola pesava come un macigno sulle corde vocali, ma così il dispositivo dentro
il torace rigido del costume.
“Me
lo hai lasciato fare. Perché?”
“Avrei potuto ucciderti
o uccidere i tuoi, ma quale sarebbe stato il divertimento? No, così è tutto
molto più intimo. Guardala. ‘Questa ragazza, che ha
saputo rimanere calma e grave dinanzi alla porta dell'inferno e alle piroette
del demonio. Questa ragazza, che è quieta e sana e innocente’. Rappresenta
tutto ciò che un uomo potrebbe mai desiderare. Guarda la sua pelle, porcellana.
E quei capelli fini -” continuò con delle oscenità che Molly, con una morsa di
nausea e disgusto, fu costretta a ripetere, osservando gli occhi di Sherlock
farsi torbidi, d’acciaio. “Oh, ma tu non vuoi sentirlo, vero? Mi sono sempre
chiesto perché non mi avessi dedotto, al nostro primo incontro. Molly mi aveva
messo in guardia, ma tu mi hai rivolto a malapena la parola. Ho provato a
richiamare la tua attenzione, allora, al matrimonio dei Watson. Un pugnale di
carne. Che cosa idiota. Ancora nessuna reazione da parte tua. D’altronde anche
per Mary Morstan è stato così. Anche lei è sfuggita al tuo radar, no? Oh, Mr.
Sherlock Holmes, tu mi deludi.”
No no no no. Non poteva
essere vero. Non poteva essere Tom. Tutti, ma non Tom. Non lui, non anche lui.
Leggendo
lo sconforto e la disperazione acuirsi in lei, la mandibola di Sherlock si
irrigidì e ci fu un guizzo di muscolo sulla fronte.
“Hai
voluto attirarmi a Reading.”
“Vero.
Volevo accelerare i tempi. Ho aspettato così a lungo. Stava diventando noioso.
Noioso, noioso, noioso. Mi sembra di aver aspettato anni. Non che non ci siano
stati intramezzi piacevoli nell’attesa. Mi sono scopato la tua patologa. Scopa
incredibilmente bene, sai? Ti chiamava spesso, nel sonno. Una volta l’ha fatto
durante un amplesso. Il giorno dopo mi ha lasciato. Era così mortificata, così
dispiaciuta. Anche quando ha lasciato Jim lo era. Jim non sapeva se ridere o
strangolarla. Sai che avevo affittato una famiglia, per lei? Ho anche comprato
un cane. Peccato, comunque. L’avrei sposata e la prima notte di nozze le avrei
strappato via il vestito e la pelle. Non sarebbe stata più così carina poi, non
trovi?”
Sherlock
cercò il suo sguardo e Molly non riuscì a rifuggirlo oltre. Non voleva vedere
riflesso nel suo l’orrore che la paralizzava e non lo trovò. C’era pura logica,
calcolo.
“Tu
sei pazzo.”
“Chi
non lo è, a questo mondo?” Molly si costringeva a recitare quelle battute non
sue, atona. “Questo pazzo, pazzo mondo. Non fingere che la cosa ti dispiaccia.
Io ti vedo e ti conosco. Ho visto il modo in cui la guardavi, quando pensavi
che nessuno se ne accorgesse. Con desiderio, brama, come una cosa che avresti
voluto inglobare. Conosco i tuoi peccatucci. Ha ucciso un uomo, lo sapevi,
Mols? Ha sparato a un uomo a sangue freddo e non era il grande uomo cattivo. Meritava
la morte, ma chi può dirlo? Uno squalo, è così che l’hai chiamato, vero? Chi
tocca i tuoi amici è un uomo morto. Non c’è poesia in questo. Mi piace. A Jim, però,
non sarebbe piaciuto. Toglie bellezza al tuo personaggio. Gli dà nuove macchie,
nuovo spessore. Sei caduto dal piedistallo e non sei più tra gli intoccabili. Non
sei un eroe.”
“Non
lo sono mai stato.”
“Ma
il resto del mondo non lo sapeva. Molly non lo sapeva. Hai conosciuto mio
padre, Mr. Sherlock Holmes. È un Lord, anche se tu preferisci chiamarlo Ratto
numero 1. Sa chi sono, Molly. Lo ha sempre saputo.”
(“Da quanto? Rispondi alla domanda, Sherlock.”
“Sin dall’inizio.”)
“Sei
stato furbo. Te ne do atto, quel programma di camuffamento della voce -”
“Un
tocco di eleganza, non trovi? Farti credere che fossi lui.”
“Perché?”
Un lieve acciglio si fece strada nel volto immobile di Sherlock. Per chiunque
altro sarebbe stato inespressivo e vuoto, polare, ma non per lei. Molly sfogliava
come se fosse un libro aperto la sua inquietudine nella trazione del collo,
nella linea obliqua della bocca, nel crocchiare della mandibola,
nell’accuratezza della sua maschera danzante.
“Dovevo
farti tornare. L’affare di Lady Smallwood si era spinto troppo in là perché Magnussen
ha fatto il passo più lungo della gamba. Miserabile è chi non ha una donna che
ne pianga la morte.”
A
quanto pareva Moran non aveva altro da dire a Sherlock, perché si rivolse a
lei, concedendole la libertà di non ripeterlo.
La
avvertì. Aveva cinque minuti a partire da quel momento, prima che la bomba
esplodesse. Se non fosse saltata dal ponte entro lo scadere del tempo, lui
l’avrebbe fatta saltare in aria e insieme a lei l’intero ponte, l’Ospedale del
Barts e Baker Street.
Lui non pose fine alla trasmissione. Voleva sentire, sarebbe rimasto in ascolto ad
origliare, beandosi del suo dolore, della sua angoscia.
Molly
si appoggiò contro il parapetto del ponte in cerca di sostegno, odiandosi
perché si sentiva vacillare, aveva le gambe pesanti e molli.
Dietro
di loro c’erano ancora i rumori della corsa che procedeva.
Nulla
era cambiato per il resto del mondo. Per lei lo era tutto invece.
“Strapparmi
il cuore dal petto e bruciarlo,” sentì che Sherlock diceva.
Non
si era dimenticata di lui e quasi avrebbe voluto esserne capace.
Molly
avrebbe voluto baciarlo, nella confusione che li circondava, gettarsi nella
baraonda con lui e scappare. Ogni parte di lei le urlava che non poteva, che, anche
se lo avesse voluto davvero, non avrebbe potuto.
“Molly.”
Sherlock le si avvicinò cautamente, ma
non la toccò.
Erano
così vicini che il bordo del Belstaff scremava il pelo sulle ginocchia, così
vicini che lei poteva contare le rughe ai bordi degli occhi di lui, scomporre
le pagliuzze grigio-verdi dell’iride. (Si era sempre chiesta se la sua fosse
una eterocromia centrale).
Erano
così vicini che le loro ombre erano sovrapposte, l’una incorporata nell’altra. Erano
così vicini da sembrare stretti in un abbraccio e lo stesso Molly non si era
mai sentita più distante da lui, le pareva di essere su uno strapiombo e che
lui fosse sull’estremità della punta opposta.
“Oh,
Molly, non vedi l’elaboratezza del piano?” domandò lui concitato, ma anche con
qualcosa che era molto simile alla dolcezza. “Volevano distruggermi, lo hanno
sempre voluto, ma io mi sono dimostrato indistruttibile o perlomeno tutt’altro
che facile da distruggere. I miei amici sono la mia famiglia. Ancora non vedi?
Ancora non capisci? Avrebbe potuto ucciderti subito. Perché non l’ha fatto? Ha
minacciato te, ma mai me, mai direttamente. Perché? Voleva portarti a questo,
alla disperazione. Voleva che tu ti sentissi come se non avessi via di uscita.
E a questo punto ha fatto l’ultima mossa: farti credere che se ti butterai da
questo tetto, sarò salvo. Credi a lui, Molly? Riponi la tua fiducia in lui o in
me?” Non la guardava più col distacco che aveva tentato di esibire, ma con
concerno. Era animato, impaziente e febbrile. Parlava come se fosse in preda a
una forte agitazione, rapidamente e privo di soste. “Molly, non importa quali
piani tu abbia fatto. Se tu ti butti, salterò anch’io.”
Per
qualche istante lei smise di respirare. I polmoni le dolevano, perciò ricominciò,
ma la sensazione di pressione in petto non mutò, non svanì.
Sherlock
le scostò una ciocca di capelli, sistemandogliela dietro l’orecchio. Era un
gesto così familiare che le sembrò di essere tornata nel salotto di Baker
Street, che di lì a poco Mrs. Hudson sarebbe salita a portar loro il tè. “Oh,
sì, lo aveva previsto ed è esattamente ciò su cui contava. Costringere te ad
uccidermi. Un piano astuto, diabolico, brillante. Spingermi ad odiarti e spingere
te ad odiare te stessa, nonché me per averti ridotta in questa situazione. Se
salti, farai solo il suo gioco. Ti chiedo di essere egoista, Molly.”
Molly
deglutì. “Tu non lo sei stato,” disse in tono di accusa. “Non lo sei stato due
volte.”
“Scegli
me, Molly. Non puoi salvare la tua famiglia. Salva me.”
Stava
bluffando, ma perché? L’unica ragione poteva essere – Tempo. Stava prendendo tempo. Per fortuna, Tom, Sebastian era abbastanza sadico da
trovarlo uno spettacolo divertente. “Salteresti davvero?” domandò in tono sommesso.
Il
barlume fugace di comprensione che saettò nel suo sguardo le parlò di orgoglio
perché lei aveva capito attraverso le sue azioni, aveva letto nelle sue parole.
“Mi sei indispensabile, Molly. Credevo che avessimo chiarito questo punto da
tempo.”
“Se
non salto, lui ucciderà –”
“No,
non lo farà. Cosa credi che io abbia fatto in questi mesi? A cosa credi che
servisse Victoria Queen?”
“Victoria?”
fece eco lei.
“Un
genio dell’informatica,” rivelò Sherlock. “Un vero pirata del web, un occhio in
tempo diretto. Ho tutte le prove che occorrono, Molly. Mi serviva quella
schiacciante. Non potevo ripetere lo stesso errore.”
Moran
rise, una risata che la fece rabbrividire, spine di ghiaccio giù per la nuca e
la spina dorsale. “Ma lo hai fatto, Sherlock,” si costrinse a ripetere,
piangendo, “e questa è la tua fine.”
Molly
si sporse, guardò il corso d'acqua sotto di lei e poi si sentì tirare
all’indietro con una violenza che le fece lacrimare gli occhi. Non ebbe il
tempo di pensare a niente.
Con
la schiena che le doleva, premuta contro l’asfalto, Sherlock le aveva già
strappato la plastica che rivestiva il torace, esponendo il dispositivo al di
sotto. Lo afferrò e lo gettò giù dal ponte, sovrastando il proprio urlo con il
suo. “Mary! John! Ora!”
Era
successo tutto in un battito di ciglia.
Il
cielo era al suo posto e così il ponte, nonostante il tremore che lo aveva
scosso quando la bomba era esplosa, che aveva sovrastato qualsiasi altro rumore
e che aveva fatto tremare la pietra e le assi della struttura.
Molly
era ancora a terra, stravolta ma viva. Sapeva distinguere lo stato di morte.
“Molly,
cosa stai facendo?” La testa nera e arruffata di Sherlock entrò nel suo campo
visivo, l’azzurro dei suoi occhi scalzò quello del cielo. “Dobbiamo muoverci!”
Molly
sentiva la folla di passanti che vociava, già rivolgeva domande, parlava di
chiamare la polizia, avvertire le autorità competenti. Sentì il nome ‘Moriarty’
cominciare a diffondersi nel brusio intimorito.
Sherlock
le si stese accanto, cercò freneticamente una ferita alla testa.
Molly
non accennava a muoversi. Avrebbe voluto ridere, nascondersi il viso dietro il
braccio, si accorse di non riuscirci.
“Lasciami
godere il momento, Sherlock,” mormorò, rauca. “Zitto.”
*
Il
‘dopo’ era per Molly un pandemonio di parole, sfilacci di immagini, volti.
Ricordava
vagamente di essere stata abbracciata da Mary e che John l’avesse praticamente
placcata in una presa da boa constrictor.
Ricordava
di aver atteso un’eternità in una stanza con una carta da parati scura e un
enorme ritratto della Regina, una scrivania piena di fascicoli e delle
poltroncine di legno malagevoli.
Ricordava
il viso bellissimo della donna che si faceva chiamare Anthea, le sopracciglia
inarcate con cui aveva squadrato il suo costume da gorilla e che lei si era
praticamente dimenticata di star indossando.
Molly
non si era accorta della foga con cui aveva cercato di toglierselo finché
l’altra non aveva messo da parte l’espressione distante e vaga, si era messa a disposizione e l’aveva aiutata
a venirne fuori. Era stato come essere privati di un peso di dieci chili e
Molly si era ritrovata a respirare e nuda, proprio nel momento in cui la porta
si riapriva per far entrare Sherlock e Mycroft.
Mycroft
non aveva battuto ciglio e Sherlock aveva attraversato la stanza per coprirla
con il Belstaff. L’aveva fatta sedere, rimanendole accanto, le mani sulle sue
spalle. Molly aveva poggiato la testa contro il braccio di lui, inclinandola in
modo da poggiarsi contro la curva del gomito.
Mycroft
aveva rimproverato Sherlock con un lungo sermone, poi d’un tratto aveva smesso.
Ricordava
che, prima di uscire, le si fosse rivolto personalmente. “Molly,” aveva detto
ed era la prima volta che la chiamava per nome.
Molly
si era aspettata una frase sibillina sulla stupidità di certi gesti avventati,
l’impulso che quei tali ‘sentimenti’ operavano contro la ragione. Sorprendentemente,
Mycroft aveva solo aggiunto “Grazie.”
“Prego,” aveva ribattuto lei e aveva sorriso torpidamente.
Ricordava
la risata di Sherlock e il fiacco, pigro sorriso di Mycroft, l’occhiata
interdetta di Anthea.
Ricordava
che una macchina li aveva accompagnati a Baker Street.
Sul
morbido sedile di pelle, Molly si era abbassata il bavero del cappotto, si era
rimboccata le maniche sui polsi. “Avresti dovuto raccontarmi tutto questo tempo
addietro.”
“Intendevo
proteggerti.”
Molly
aveva poggiato la guancia bollente contro il vetro gelido del finestrino,
esausta. “Adesso chi è che si arrampica sugli specchi e accampa scuse
ridicole?”
“Molly.”
Sherlock
doveva aver notato qualcosa nel suo tono spento e stanco, qualcosa che era
sfuggito a lei che per prima lo aveva usato, perché l’aveva guardata con una
nota di allarme, ferito come se lei lo avesse colpito fisicamente.
“Non
parliamone adesso, Sherlock, te ne prego.”
La
verità era che neppure Molly sapeva cosa provava.
Ricordava
che Sherlock l’avesse messa a letto, si fosse sfilato le scarpe e si fosse
steso accanto a lei, le loro braccia rasenti e i dorsi delle mani che si
lambivano come onde di mare e battigia di una spiaggia.
Ricordava
di essere caduta quasi subito in un oblio soporifero, dolce e che il mormorio
ipnotico di Sherlock avesse accompagnato il suo passaggio graduale al sonno.
Non aveva afferrato il senso di quel suo mormorio, ma ne aveva colto la
sincerità.
*
La
mattina successiva, Molly se n’era andata.
Non
si era lasciata dietro niente tranne il vago sentore floreale sulle sue
vestaglie.
Non
c’era segno di Toby o del giradischi di suo padre o dei suoi libri. Non c’era
la fotografia di suo nonno sulla mensola del camino.
Billy
il teschio appariva desolatamente solo, l’appartamento era tetro e silenzioso.
Sherlock
scacciò quelle impressioni, scrollando le spalle e storcendo occhi, naso e
bocca con uno ‘sciocchezze’.