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Autore: 9CRIS3    28/07/2014    21 recensioni
< Cosa sta succedendo? > chiese Abby in modo tranquillo ed efficiente.
Aveva capito che si trattava di un'emergenze e che mi serviva in veste di avvocato e non di cognata.
< Ci toccherà parlare a bassa voce e fingere qualche sorriso. Ryan ci sta guardando > la informai.
Abby annuì e poi mi chiese di sputare il rospo.
< Okay. Sto per dirti qualcosa che non ho ancora detto ai miei genitori o a Ted. Non lo sa nessuno e preferirei che continuasse a non saperlo nessuno fino a quando non diventa assolutamente indispensabile che anche gli altri siano informati. >
< Chiaro > fece lei, guardandomi con un'espressione mortalmente seria.
< Sto per assumerti come mio avvocato. > iniziai.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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DUE ANNI DOPO
 
 
 Jack mi dava il tormento da una settimana.
Aveva trovato una fidanzatina piuttosto carina nella scuola media dove l'avevo iscritto e ora tutte le mattine non faceva che chiedermi cosa indossare, o cosa dirle, di cosa parlare, come comportarsi con lei e tutte queste cose che mandavano in tilt il mio cervello.
< Jack! > lo chiamai dalla cucina,dalla mia nuova cucina. Anzi forse era meglio dire nostra.
La mia vita era decisamente cambiata.
Avevo un posto come chirurgo nell'ospedale di Seattle, avevo ancora il posto come capo della sicurezza sanitaria alla GEH ed ero diventata la madre di Jack legalmente.
La fase per l'adozione era durata un anno. Un anno lunghissimo, pieno di scartoffie, visite psicologiche a me e al resto della mia famiglia e domande infinite sul posto dove avrei portato a vivere il piccolino, dove lo avrei fatto studiare, i miei turni di lavoro, il modo in cui intendevo crescerlo.
Così mi ero vista costretta a cambiare casa: ne avevo presa una vicina alla sua scuola, ero scesa a compromessi con papà ed avevo accettato la guardia del corpo per farlo stare più tranquillo e per stare io stessa più tranquilla: in questo modo sapevo che Jack era costantemente al sicuro, ventiquattro ore su ventiquattro. Ora capivo cosa intendesse mio padre quando mi diceva che avrei dovuto aspettare di diventare madre prima di poter comprendere completamente alcuni suoi atteggiamenti.
Jack aveva ormai undici anni e cresceva sempre più sano, forte e bello. La somiglianza con sua madre era strabiliante: aveva gli stessi capelli ricci, biondi, lo stesso sorriso mozza fiato. Solo che il mio Jack era un bambino buono, gentile, altruista e paziente: l'esatto contrario di quella donna.
Rebecca aveva il diritto di vedere il figlio almeno una volta al mese e Jack si atteneva a quelle visite, anche se le faceva durare poco più di due ore ogni volta.
Mi telefonava, supplicandolo di andarlo a prendere che ormai si era stancato e il mio cuore ogni volta subiva una pugnalata.
Volevo che lui instaurasse un buon rapporto con la madre, che cercasse di creare un dialogo, di raccontarle le sue cose, di renderla partecipe della sua vita, ma Jack continuava a trattarla con la freddezza necessaria a non farla sbottare.
Era appena un ragazzino eppure sapeva già quali erano le corde giuste da toccare con Rebecca. La trattava con fredda cortesia, scambiava due parole, la faceva parlare, prendeva i regali che lei gli portava e poi mi telefonava per farsi venire a prendere.
Mi sentivo quasi in colpa per quel comportamento, ma fu mia madre a farmi riflettere sulla situazione. Mi disse che probabilmente per Jack era normale quel comportamento, che probabilmente le due ore che trascorrevano assieme erano anche troppe per lui da sopportare, tenuto conto che la donna, durante le sue visite all'ospedale, non rimaneva per più di qualche minuto.
Era vero, ma in fondo io ero sempre quella che aveva combattuto fino all'ultimo sangue per toglierle la custodia di Jack, e lui, durante una testimonianza, alla domanda con chi preferisse di più vivere, pronunciò il mio nome.
La battaglia tra me e Rebecca non era mai stata alla pari, con mio figlio. Questo però non significava che il mio sonno fosse meno agitato o più coscienzioso: e se fosse venuto qualcun altro a reclamare la patria potestà su Jack? Qualcuno come suo padre? Sarei dovuta essere io poi quella che, come Rebecca, si doveva accontentare delle visite mensili di due ore.
Scacciai quei pensieri cupi e riportai l'attenzione su di lui.
< Jack! > lo chiamai ancora.
< Arrivo! > mi rispose lui, chiudendo seccamente la porta della sua stanza e venendo in cucina. < Stamattina ho deciso di ignorare Jessica > mi informò quando si sedette al tavolo della cucina, prima di immergere il cucchiaio nella tazza di cereali.
Lo fissai sbigottita. < Come mai? >
< Sono sempre io ad andare da lei. Potrebbe venire anche lei da me > mise il broncio.
Trattenni a stento le risate. Il piccoletto cominciava a capire le regole del gioco.
Gli scompigliai i capelli. < E se poi le si avvicina qualcun altro? > gli misi la pulce nell'orecchio.
Si fermò con il cucchiaio a mezz'aria e mi fissò sbigottito. < Vado io da lei! > disse con veemenza, riprese a mangiare tranquillamente.
< Vado a prepararmi. Ci sono le medicine sul tavolo: prendile. Tutte, Jack! Non fare come al solito perchè altrimenti te le porto in classe > lo avvisai, con sguardo serio.
Di tutta risposta, mio figlio, alzò gli occhi al cielo.
< Si, mamabee >
Mamabee. Un misto tra mamma e Bee, come era solito chiamarmi lui.
Non era proprio mamma, ma era un qualcosa di più. Qualcosa che univa passato e presente che aveva un sapore così dolce che non protestai mai quando si riferiva a me in quel modo.
 
In ospedale c'era più fermento del solito, quando arrivai.
Andai subito negli spogliatoi ed indossai la divisa blu che ero solita avere anche a New York. Comoda, traspirante e assolutamente non di intralcio.
Infilai veloce anche le scarpe da ginnastica e raccolsi i capelli in una coda alta.
< Ciao, Phoebe > mi salutò una voce.
< Hei, Anna! Come va? > risposi cordiale al saluto della pediatra.
< Bene. I bambini mi stanno facendo dannare, ma tutto bene > il suo sorriso si allargò ulteriormente.
< Il bello di essere genitori, no? > le feci l'occhiolino e poi uscii velocemente dalla stanza, per avvicinarmi al bancone delle infermiere.
Mi servivano le cartelle dei post operatori del giorno precedente per cominciare il giro delle visite.
Afferrai una cartella con su scritto il mio nome e cominciai a sfogliare ogni singolo paziente.
Mi preoccupava un po' di più quel povero vecchietto che era arrivato con un bisogno immediato di una lavanda gastrica e poi avevamo scoperto si trattasse di una brutta infezione alla cistifellea.
Avevo passato quasi tre ore in sala operatoria con lui e avevo perso la cena di compleanno di Ava, che non aveva smesso un attimo di rimproverarmi, quando arrivai a casa sua.
Fui giustificata solo perchè non avevo nemmeno avuto il tempo di cambiarmi ed indossavo ancora la tuta blu da chirurgo, beccandomi un'occhiata comprensiva da nonna Grace.
Con la cartella sotto braccio, cominciai a dirigermi verso i miei pazienti.
< Buongiorno, Mr Smith. Come andiamo stamattina? > gli chiesi con un sorriso.
< Male > fece lui scorbutico. < Pensavo si trattasse di una intossicazione >
< L'abbiamo presa giusto in tempo, Mr Smith > gli feci notare
< Quando potrò tornarmene a casa? >
< Quando i suoi parametri saranno a posto. >
< Dottori! > alzò le mani esasperato.
< Ha fatto chiamare qualche suo paziente? >
< si, sta arrivando mia figlia >
< Bene. Allora vado, ci vediamo più tardi > uscii dalla stanza.
Dovevo controllare almeno una decina di altri pazienti e la cosa non mi piaceva poi così tanto. Sapevo perfettamente che dovevo prendermi cura dei post operatori e che per un paziente in convalescenza ogni momento era buono per giocarmi lo scherzetto del rigetto o dell'infezione, ma quella era fastidiosa routine. Quello che mi faceva scorrere il sangue nelle vene era l'adrenalina del pronto soccorso.
< Dottoressa Grey > mi salutò il primario con un cenno del capo.
< Capo > risposi io.
Era lo stesso uomo che mi aveva permesso di intervenire su Betty quella famosa sera.
Avevo fatto con lui il colloquio; mi aveva fatta accomodare nel suo ufficio e senza nemmeno farmi le solite domande di rito mi aveva passato un camicie e un badge, e poi si era raccomandato di farmi trovare pronta per il giorno dopo.
Temevo ci fosse lo zampino di mia nonna o, peggio ancora, di mio padre, ma quando capii che erano soprattutto interessati a mettere le mani sopra la ricerca mi rilassai e anche visibilmente.
Non mi dispiaceva che qualcuno fosse così interessato al lavoro che avevo svolto per Jack e desideravo che il discorso venisse approfondito. E poi dovevo ammettere che il motivo per cui stavo per giocarmi il lavoro e la libertà personale, mi aveva invece fruttato un figlio, un lavoro e un promettente laboratorio di ricerca, mi emozionava a dismisura.
Il mio cercapersone cominciò a suonare e gli diedi un'occhiata veloce. Era il pronto soccorso.
Sorrisi, ed elettrizzata mi ci avviai.
Entrai nel reparto, camminando verso il numero che mi aveva chiamata.
< Mendez, mi hai cercata? > domandi ad una specializzanda.
< Si, dottoressa Grey. C'è un bambino con lo stomaco contratto, sta vomitando da quando è arrivato. Non riesce a stare in piedi e gli fa male stare seduto > riassunse.
< Dov'è la pediatra? > domandai. Se era un bambino, per quanto le nozioni anatomiche generali fossero sempre quelle, era meglio lei di me.
< E' impegnata con dei gemelli. E' in sala operatoria. >
< Ok, dov'è il paziente? >
< Letto dieci > mi disse.
Mi avviai velocemente, spostai la tendina e con il foglio in mano che parlava del bambino mi presentai. <
< Sono la dottoressa Grey > dissi, continuando a guardare la cartella del bimbo per capirci qualcosa di più. Allergie, reazioni strane. fui colpita dal fatto che non fosse scritto il nome.
Alzai lo sguardo e rimasi completamente scioccata.
Fissai bene il bambino, pallido in volto, l'espressione sofferente. Eppure era lui. Era cresciuto e , seppure si trovasse in un letto d'ospedale, notai che era decisamente più alto rispetto all'ultima volta che l'avevo visto.
< Alex? > chiesi
Il piccolo aprì piano gli occhi, quegli occhi neri e così simili a quelli di lui.
< Phoebe? > anche lui era incredulo.
< Cosa è successo? > mi allarmai, avvicinandomi a lui.
< Mi fa male la pancia > si lamentò
Gli alzai la maglia e cominciai a tastargli li dove mi aveva detto di sentire dolore.
L'addome era decisamente contratto, proprio all'altezza dell'appendice. Ricontrollai sulla cartella e vidi che non era ancora stato operato di appendicite.
Tastai più profondamente e Alex strabuzzò gli occhi per il dolore e diventò ancora più pallido.
La tendina fu scostata violentemente e per un attimo temetti potesse essere proprio lui. In fondo era normale che fosse li: era suo figlio.
Feci un respiro profondo e continuai a visitare Alex, aspettando che fosse la persona appena avvicinatasi che cominciasse a parlare.
< Finalmente un dottore! Siamo qui da un'ora >
No, non era lui. Guardai l'uomo che mi inveiva contro e lo riconobbi. Era l'amico di Ryan, quello che avrebbe dovuto suonare alla festa di Capodanno dei nonni.
< Oh, tu > fece lui. Evidentemente mi aveva riconosciuta.
< Si, io. > cominciai a scostare tutte le tendine e poi a chiamare altri medici.
< Mendez, sala due adesso. McCall, avverti l'anestesista e poi vieniti a preparare. Smooter, i miei post operatori. > ordinai.
< Cosa significa? > mi si avvicinò di nuovo l'uomo.
< Sam, Alex deve essere operato. Devo asportare l'appendicite > non finii nemmeno di parlare che Alex iniziò a vomitare verde. Era la bile.
< Veloci! > urlai, cominciando a trascinare il letto di Alex verso l'ascensore più vicino.
< Papà > piagnucolò il bambino.
< Papà sta arrivando, piccolo. L'ho chiamato prima > gli assicurò Sam.
< Ci sono io con te, Alex. Ti fidi di me? > gli chiesi, parlando in tono dolce.
< Si, Phoebe. >
Feci un segno con la testa, soddisfatta della sua risposta.
Fui affiancata velocemente da Mendez ed insieme spingemmo il letto verso l'ascensore. Entrammo e schiacciai il pulsando del piano.
Mi voltai verso le porta per cercare di rivolgere un gesto a Sam, per rassicurarlo, ma quello che vidi mi spiazzò: Ryan che correva nella sua direzione. Il volto travolto dall'ansia. I capelli sconvolti e il terrore negli occhi.
Rimasi a fissarlo per alcuni secondi e vidi Sam indicare con la mano l'ascensore e gesticolare animatamente. Ryan voltò di scatto il viso verso di me e mi fissò, gli occhi sgranati per la sorpresa.
Fu un attimo e poi il suo sguardo si posò su Alex e sulla mano che mi stava stringendo, subito dopo le porte dell'ascensore si richiusero.
 
Lasciai che le infermiere preparassero Alex per l'intervento e corsi a lavarmi per poter operare.
Stavo sciacquando gli avambracci quando mi voltai verso gli altri dottori presenti con me. < Voglio massima serietà lì dentro. Non un errore, non una parola che non sia prettamente legata all'operazione. Uno sbaglio e siete fuori dal programma di specializzazione >
Mi fissarono sconvolti. Sapevo bene di essere stata dura e quella non era la solita dottoressa Grey a cui erano abituati, ma poco importava.
Entrai in sala ed aspettai che l'infermiera mi si avvicinasse per asciugarmi. Poi indossai il camicie sterile ed infine i guanti.
Avevo già indossata la cuffietta e la mascherina  per coprire capelli e naso e bocca.
Mi avvicinai ad Alex, ormai già sedato dall'anestesista, e mi ricordai solo in quel momento che non c'era scritto il nome sulla cartella.
< Non si tratta di nessun sconosciuto! > sbottai, quando vidi come lo avevano etichettato.
< Mendez! Avresti dovuto chiedere il nome del bambino > sbottai.
< Scusi dottoressa > balbettò.
< Alexander Taylor > dissi, sotto lo sguardo sconcertato di tutti i presenti in sala.
< Prego? > mi guardò l'anestesista.
< Alexander Evan Taylor > dissi più precisamente < Il nome del bambino >
Mi avvicinai al tavolo operatorio ed alzai il telo che lo ricopriva, pronto ad estrarre l'appendicite.
 
Operai con estrema cautela, come se si trattasse di cristallo, come se fosse estremamente prezioso. Operai con la stessa minuziosa precisione e pignoleria con cui avevo sempre operato Jack.
Ricucii e feci in modo che la cicatrice fosse il meno evidente possibile.
Disinfettai e misi la benda, dopo di che dissi alle infermiere che avrebbero potuto portarlo via.
Tornai nella stanza adiacente, dove mi ero lavata, per togliere il camicie, la cuffietta e la mascherina.
Mi appoggiai al bordo dei lavandini, consapevole che sarei dovuta andare a comunicare a Ryan che suo figlio stava bene ed era vivo.
Non l'avevo più visto dopo quell'ultima notte, ma non c'era stato giorno, ora, momento in cui non avevo rivolto a lui un pensiero.
Non ero stata capace di amare nessuno, di uscire con nessuno, di avere un rapporto che potesse essere qualcosa di più di una semplice amicizia con qualunque altro uomo.
La verità era che io amavo ancora profondamente Ryan, tanto da essere spaventata di vederlo.
< Dottoressa Grey, bisogna avvisare i genitori > mi ricordò Mendez.
< Il padre, c'è solo il padre > mormorai.
Mi voltai nella sua direzione e le feci cenno di seguirmi.
Sentivo il cuore battermi furiosamente mentre camminavo e ogni sala d'attesa che sorpassavamo mi sembrava maledettamente minacciosa, come se Ryan potesse spuntare fuori da un momento all'altro, pronto per aggredirmi.
Feci un respiro profondo e poi espirai. Eravamo davanti alla sala d'attesa di pediatria.
Entrai per prima e lo vidi subito. Camminava per la stanza,le braccia lungo il corpo, i pugni stretti, il viso contratto per l'angoscia.
Mi schiarii la voce, avvicinandomi. < Mr Taylor? > lo chiamai.
Non potevo fare altro. Dopo due anni di assenza, di un silenzio assordante, non eravamo più Phoebe e Ryan, non eravamo più "piccolo Taylor" o "dottoressa". Ora dovevamo rispettare i nostri ruoli, anche se quelle etichette mi stavano tremendamente strette.
Lui alzò la testa, fino a far incontrare i nostri occhi, e io sentii una familiare stretta alla bocca dello stomaco. Cercai di ignorarla. Dovevo informarlo dell'operazione.
< L'intervento di suo figlio è andato bene > dissi meccanicamente.
Sam sospirò di sollievo e Ryan lasciò andare i pugni. I suoi occhi diventarono lucidi e io dovetti spostare lo sguardo per evitare di correre da lui ed abbracciarlo stretto, per poterlo rassicurare.
< Vado ad avvisare gli altri > Sam si alzò ed uscì.
< Cosa è successo? > mi domandò Ryan.
I suoi occhi neri fissi nei miei mi toglievano qualunque facoltà comunicativa. Non ero capace di esprimere nulla, se lui continuava a fissarmi in quel modo.
Le sue profondità scure, dritte nei miei occhi, che mi studiavano, che mi guardavano. Era lui, era davvero qui.
Dio, quante volte avevo desiderato quel momento, eppure non si era mai avverato.
< Abbiamo dovuto operare suo figlio d'urgenza di appendicectomia > Mendez mi venne in soccorso
< Non ha più l'appendice? > domandò Ryan
< Esatto, signore >
< Sta bene adesso? > l'ansia era palpabile nella sua voce.
< Lo abbiamo portato in camera. Può vederlo quando vuole > gli sorrise
< Grazie > disse Ryan
< Ringrazi la dottoressa Grey > disse e io mi sentii di troppo, sotto quell'attenzione.
Mendez se ne andò, lasciandomi sola con Ryan.
Avrei dovuto seguire l'esempio e andarmene, ma i suoi occhi erano ancora su di me e mi fu impossibile spostarmi di un solo millimetro.
< Come stai? > mi chiese
< Bene, e lei? > continuai con il mio tono formale. Serviva a tenerlo a distanza, a sapere che io non potevo più averlo.
Ryan alzò un sopracciglio. < Preoccupato. Ma ti volevo ringraziare >
< Dovere > alzai le spalle.
< Lavori qui ora? > chiese
< Si >
< Da quanto? >
< Un anno e mezzo >
< Bene > strinse le labbra.
Volevo evitare l'imbarazzante silenzio che si sarebbe creato, visto che la nostra conversazione era finita. Volevo evitarci la fastidiosa sensazione di non avere più nulla da darci.
Una storia d'amore che si conclude con uno scontato scambio di battute poteva andare bene per gli altri, ma io non volevo conservare questo ricordo di Ryan.
< Suo figlio è stato sistemato nella stanza trenta di pediatria. Segua le indicazioni e ci arriverà senza problemi > dissi efficiente.
Il suo sguardo si fece duro, quasi minaccioso e spostai immediatamente lo sguardo su un punto non definito.
< Io.. dovrei andare > guardai la porta dietro di me.
Mi voltai e cominciai a camminare, ma un attimo dopo le dita di Ryan si strinsero attorno al mio posto, fermandomi.
Non mi voltai. Quel contatto era stato sufficiente per far spuntare le lacrime agli angoli dei miei occhi e addio a tutti i buoni propositi per non piangere mai più.
< Phoebe.. > il mio nome sulle sue labbra fu come un colpo al cuore. Dritto, preciso e fatale.
< Lo so che non ho nessun diritto di chiedertelo e puoi non rispondermi se vuoi. Ma io.. devo sapere > disse.
Rimasi ferma sul mio posto, aspettando ansiosa che continuasse.
< Ti.. ti stai vedendo con qualcun altro? > chiese, a voce talmente tanto bassa che pensai di aver solo immaginato la domanda.
Mi voltai di scatto e lo guardai in volto. La sua espressione sofferente non mi placò.
< Esatto. Non hai nessun diritto di chiedermelo! Non dopo che te ne sei andato senza darmi la possibilità di scelta. E non pensare nemmeno di dirmi che sono stata io la prima a lasciarti perchè lo so e non c'è giorno in cui non mi maledica per quella stupida scelta, ma era la soluzione migliore! Tu e Alex meritavate la giusta tranquillità. Però tu sei tornato indietro, mi hai detto che continuavi ad amarmi, e io mi sono lasciata andare, ti ho detto che ti amavo anche io. Ho abbattuto tutte le mie difese, mi sono donata a te, ho sperato in un futuro con te e tu te ne sei andato! > strillai.
< Non è la risposta alla mia domanda > mi disse serio.
< Perchè non c'è risposta alla tua domanda! > sbottai. < Mi hai incasinata, Ryan. Mi hai sconvolta, talmente tanto che non sopporto nemmeno una stretta di mano da parte di qualsiasi altro uomo. Mi sento viscida e sporca anche solo a sorridere ad un collega. Mi hai fottuto il cervello! Vuoi sapere se c'è qualcuno? Si! C'è! >
Sussultò alle mie parole e  il suo sguardo si fece più minaccioso quando pronunciai le ultime parole.
< Sei tu, maledizione! Sei tu! Ti sogno di notte, mi sembra di vederti durante il giorno tra la folla. Non sono nemmeno sicura che ora tu sia qui effettivamente. E questo non va bene! Devi uscire dalla mia testa! Ho un figlio a cui badare e non posso farlo al cento per cento se tu continui a tartassarmi! >
Avevo il fiatone, dovuto al fatto che stavo sfogando tutta la mia frustrazione su di lui, che stavo urlando tutto il dolore che non avevo comunicato a nessuno durante quei due anni.
< Un figlio? > chiese, con gli occhi spalancati.
< Si. >
Vidi il suo volto sconvolto e capii che aveva frainteso tutto. < Non è come pensi tu. Si tratta di Jack >
< Jack? Il bambino della causa? >
< Si >
< Oh >
Si passò una mano tra i capelli, confuso da quella informazione.
< Io.. Per un attimo ho pensato che.. >
< No, non è tuo figlio > lo rassicurai
< Non intendevo questo. Pensavo che fosse tuo figlio e di qualcun altro > specificò.
< Non sono stata con nessun altro, Ryan > confessai, senza però guardarlo negli occhi.
< Nemmeno io > si avvicinò a me e prese le mie mani tra le sue.
< Non farlo > sussurrai
< Cosa? > era ormai a pochi centimetri da me
< Non avvicinarti così se poi sai che non rimarrai. Non posso sopportare di perderti ancora > una lacrima scese solitaria sulla mia guancia e non fui capace di trattenerla.
Ryan lasciò andare una mano per accarezzarmi la guancia ed asciugarmela. < Non me ne vado più, non se tu non vuoi  > portò anche l'altra mano sulla mia guancia ed avvicinò lentamente i nostri volti.
< Dimmelo > lo pregai
Mi fissò, capendo esattamente a cosa mi riferissi. < Non me ne vado, Phoebe. Ti amo >
< Ti amo anche io > risposi e poi azzerai la nostra distanza, unendoci in un bacio.
 
 
 
TRE ANNI DOPO
 
La luce filtrava dalla finestra e si posava sulle spalle nude di Ryan. Il mio Ryan.
L'odore di cocco e ammorbidente riempiva la nostra camera da letto e un sorriso involontario comparì sulle mie labbra.
Mi voltai verso di lui e gli accarezzai i capelli scuri, passandoci la mano sinistra dentro.
Sull'anulare spiccavano due anelli: un semplice cerchio d'argento con un diamante raffinato a renderlo estremamente bello e una fede d'oro.
Alla fine avevo avuto Ryan. Alla fine avevo avuto tutto dalla vita.
Sorrisi felice.
Avevamo il nostro piccolo paradiso personale. Ryan aveva realizzato il suo sogno ed era diventato un agente dell' FBI e lavorava negli uffici di Seattle, e poteva finalmente stare con Alex e io.. io avevo già avuto una buona ricompensa dal destino, riuscendo ad ottenere il mio lavoro e Jack, ma ora il Karma, il fato o chiunque fosse stato mi aveva dato il primo premio. Avevo Ryan, una famiglia e l'amore che tanto bramavo quando credevo di averlo perso.
< Buongiorno, dottoressa Taylor > sussurrò Ryan con voce roca.
Spostai lo sguardo fino a raggiungere i suoi occhi. < Rimango comunque la dottoressa Grey > dissi decisa, poi gli posai un casto bacio sulle labbra. < Buongiorno >
Mi rivolse un sorriso malizioso e mi fece sdraiare di schiena, per poi premere il suo corpo su di me. < In camera da letto rimani la sexy dottoressa Taylor > lasciò una dolce scia di baci sul collo e io feci un risolino sommesso.
< I bambini potrebbero svegliarsi da un momento all'altro > gli ricordai, stringendolo però più vicino a me.
< La porta è chiusa a chiave > mi sussurrò.
Mi voltai a guardare la sveglia. Erano le nove di mattina. < Ti concedo al massimo un'ora. Devo mettere a posto per la festa di Alex >
< Allora lasciami fare. Un'ora hai detto? Mi supplicherai di non lasciarti andare più via da qui > sussurrò sulle mie labbra.
E in un attimo, mi ritrovai a fare l'amore con mio marito.
 
Srotolai una tovaglia di carta sul tavolo ch stava in giardino, poi cominciai a mettere i bicchieri di plastica e i fazzoletti.
Mamma mi stava aiutando, mentre aspettavamo che arrivassero tutti gli invitato per la festa di compleanno di Alex. Il piccolo - piccolo Taylor aveva ormai undici anni. Non si poteva più definirlo piccolo.  
Sorrisi, al ricordo di come mi aveva accolta dopo l'operazione, quando mi avevo detto che io e il suo papà eravamo diventati di nuovo "amici".
Jack era stato quello un po' più difficile da gestire. Inizialmente era restio alla situazione, ma quando cominciò a capire che Alex sarebbe potuto essere un buon compagno di avventure, e che Ryan non era da meno, cominciò ad aprirsi piano piano.
< Non dovresti affaticarti tanto > mi disse mamma, con un sorriso, accarezzandomi la pancia appena pronunciata.
Ed eccolo un altro pezzo di paradiso. Ryan e io avevamo provato ad avere un figlio nostro e dopo svariati tentativi e fecondazioni varie, ci eravamo riusciti. Un bella femminuccia in arrivo.
< Sto bene > le dissi, ricambiando il sorriso.
< Avete pensato ad un nome? > mi chiese Ava, lasciando Mike ad aiutare Ryan.
< Si > non c'era stato nemmeno bisogno di pensarci tanto. Era venuto spontaneo ad entrambi. < Ella > le informai.
Vidi mamma tentennare appena, mentre Ava si aprì in un sorriso luminoso.
< Bel nome > mi disse mia cugina.
Sapevo perchè mamma faceva così. Quel nome sarebbe potuto essere un problema per papà, ma era il nome con cui Ryan mi aveva scoperto, l'unico che non mi aveva mai persa di vista per tutto il periodo in cui ero scappata a New York, e aveva deciso di dare alla nostra bambina quel nome come per sancire un patto. Basta nascondersi, basta scappare.
< Mamabee, possono venire anche Steve e Josh? > mi chiese Jack.
< Certo, piccolo >
Jack si fermò un attimo e mi guardò interdetto. < Puoi evitare di chiamarmi "piccolo" davanti a loro? >
Oh, il mio bambino imbarazzato. < Va bene > sorrisi.
< Hei, piccolo Rambo! Ti vergogni già della mamma? >  Ted venne verso di noi e diede una pacca leggera sulla spalla di Jack.
Lo chiamava Rambo perchè ogni volta che facevano la lotta Jack vinceva sempre. O almeno questo è quello che Ted voleva che lui sapesse.
Ted e Abby con il loro piccolo Christian erano una visione celestiale. Abby diventava sempre più bella, più donna, e Teddy era incredibilmente somigliante a papà, tanto che a volte mamma si confondeva e lo chiamava Chris, provocando basse risate da parte di papà.
< Mamabee? > mi chiamò Alex.
Aveva preso anche lui il vizio di chiamarmi in quel modo e non mi dispiaceva, ma speravo che almeno la piccola Ella, un giorno, potesse chiamarmi mamma.
< In giardino, Alex! >
Comparve con addosso ancora l'accappatoio. < Dove sono i miei pantaloni? >
< Chiedili a tuo padre > dissi, impegnata a sistemare le patatine nelle varie ciotole.
< Lui dice di chiedere a te! > esclamò Alex che in quando a pazienza era tutto suo padre.
< Ciao, peste > lo salutò Ted.
< Ciao, zio. > Alex gli rivolse a mala pena un'occhiata, concentrato com'era a fulminare me perchè gli potessi prendere i pantaloni.
< Due minuti, Alex. Jack, potresti.. > mi voltai in cerca di Jack, che però si era volatilizzato.
Sbuffai, stizzita. Possibile che in quella casa dovessi fare tutto io?
< Ci penso io, Pheebs > disse Ted, togliendomi di mano il sacchetto delle patatine. < Vai a prendergli i pantaloni > mi disse.
Sorrisi riconoscente a mio fratello e poi mi incamminai in casa, seguita a ruota da Alex.
< Vai in bagno, ti porto tutto lì > gli dissi.
Mi obbedì senza fiatare e io mi accinsi a prendere quello di cui aveva bisogno. Stavo salendo le scale per andare al piano di sopra quando vidi papà e Ryan discutere muovendo le braccia nel salotto.
Alla fine papà aveva accettato l'idea che Ryan era l'unica persona capace di darmi la felicità di cui avevo bisogno. Questo non significava però che durante i primi periodi gli avesse reso la vita meno difficile: continuava a sbagliare di proposito il suo nome e tartassarlo di domande personali e quando invece aveva passato una giornataccia lo metteva sulle spine come solo lui era capace di fare.
La sua ridicola gelosia era finita il giorno del matrimonio, quando aveva fatto un discorso meraviglioso al momento del brindisi. Il solo pensiero mi faceva venire le lacrime agli occhi.
< Potevi almeno preparare i vestiti di Alex, piccolo Taylor > dissi mentre salivo le scale, parlando ad alta voce così che potesse sentirmi.
< Non trovavo i vestiti! > si giustificò lui e sentii la risata di mio padre che lo spronava a seguirmi, prima di poter finire nei guai.
Presi la biancheria pulita, un paio di jeans al ginocchio e una polo blu. Stavo per rientrare nel bagno, quando sentii la voce di Ryan chiamare il figlio.
< Ti ho preso i vestiti, Alex! > disse trafelato.
Mi affacciai in bagno mi appoggiai allo stipite della porta.
Ryan stava porgendo i vestiti ad Alex che lo guardava esasperato, riconoscendo i vestiti del fratello.
< Tieni, Alex > gli porsi i vestiti ridacchiando
< Oh, grazie! > fece lui riconoscente e poi corse in camera sua a cambiarsi.
< Sono un disastro > Ryan mi fece un mezzo sorriso.
< Forse solo un po' > lo presi in giro.
< Non sei simpatica, dottoressa > mi posò un bacio a fior di labbra
< Peccato, piccolo Taylor, ci sono un sacco di uomini che mi trovano molto simpatica > lo stuzzicai
< Sai, potrei sempre chiuderti nella cella di fronte alla mia scrivania >
< In questo modo ti aiuterei solo a soddisfare le tue strane fantasie. > dissi maliziosa
< Come se ti fossi mai lamentata > mi pizzicò un fianco.
Sussultai < Ella mi ha appena tirato un calcio. Non le piacciono i pizzicotti. >
Ryan si chinò e mi baciò la pancia. < Scusa piccola, il pizzicotto è per la strega di tua madre. Papà è completamente e follemente innamorato di te e non vede l'ora di spupazzarti >
Gli tirai uno schiaffetto in testa e lui si rialzò divertito.
< Io non sono una strega >
< Oh, si invece. Tu hai stregato il mio cuore. >
Le sue labbra si incollarono alle mie e le mie mani finirono automaticamente tra  i suoi  capelli.
Riusciva ancora a regalarmi le stesse emozioni: un fremito al basso ventre, lo stomaco che si attorcigliava, il cuore che batteva forte e una piacevolissima sensazione di pace.
Amare Ryan era la cosa più semplice del mondo.
< Mamabee! C'è anche Jessica! > urlò Jack mentre contemporaneamente Alex richiamò la mia attenzione chiedendomi : < Mamabee, posso mettere i pantaloni lunghi? >
La nostra bolla fu interrotta dai nostri figli e io non potei fare a meno di sorridere.
< I tuoi figli ti chiamano, donna > mi rivolse un sorriso a metà tra il dispiaciuto e il divertito.
< Andiamo, uomo, ho bisogno di aiuto morale >
Sorridendo uscimmo dal bagno, mano nella mano, incontro al resto della nostra vita assieme. 
  
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