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Autore: Fannie Fiffi    29/07/2014    6 recensioni
[Bellarke; Modern!AU]
Clarke Griffin è una diciannovenne alla ricerca di se stessa, ma soprattutto alla ricerca di una verità ancora più grande di lei: quella riguardo la morte del padre.
Costretta a dover abbandonare le proprie ricerche per due anni, il suo mondo verrà nuovamente sconvolto quando conoscerà il suo nuovo vicino di casa, il giovane detective Bellamy Blake.
Genere: Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Prima di tutto vorrei ringraziare come sempre chi ha recensito, chi ha inserito fra le seguite/ricordate/preferite e chi si è limitato a spendere un quarto d'ora del proprio tempo per leggere i capitoli.

A proposito dei quali... Quest'aggiornamento è decisamente il più lungo finora, quindi spero di non essere risultata noiosa o cose simili. Ho ritenuto, però, che ognuno degli avvenimenti dovesse accadere per sviluppare la storia, quindi perdonatemi se, leggendo, avrete voglia di venire a cercarmi e strozzarmi a mani nude.

Non sono molto sicura di essere soddisfatta di questo capitolo, perciò qualsiasi vostro commento è ben accetto.

Piccolo avviso: Ci sarà una scena (non vi dico quale, lo scoprirete da voi) in cui sono presenti un po' di parolacce. Nulla di eccessivamente volgare, ma avvisare non fa mai male.

Detto questo, mi dileguo e vi auguro buona lettura!

 


Is It Any Wonder?
 



Octavia Blake era sempre stata una ragazza considerata da molti “tutta d’un pezzo”.

Cresciuta in una famiglia problematica fin dall’inizio, senza una figura paterna o una condizione economica stabile, aveva cominciato a forgiare il proprio carattere sin dai primi anni della giovinezza.

Lei incarnava semplicemente tutto ciò che una donna avrebbe voluto avere: sicurezza, fegato da vendere, una considerevole quantità di spavalderia e un tocco di arroganza, quel tanto che bastava per non farsi mettere i piedi in testa da nessuno.

Tutto ciò aveva comportato trasformarla in una persona forte, veemente e intensa, totalmente indipendente e del tutto capace di prendersi cura di se stessa.

Tuttavia, la strada verso l'adorata libertà era ardua e problematica: il suo fratellone non aveva mai abbandonato l’istinto di protezione che aveva nutrito nei suoi confronti fin dal giorno della sua nascita, anzi, col tempo quel sentimento involontariamente soverchiatore sembrava essere aumentato, e questo non aveva fatto altro che incrementare a dismisura il proprio inebriante desiderio di trasgredire ognuna delle sue regole.

Come, ad esempio, la più facile di tutte: “Stai alla larga dai guai.”

Perché sì, insomma, starsene in un vicolo buio, in una macchina rubata, seduta su un ragazzo di cinque anni più grande di lei armato di non proprio purissime intenzioni era proprio la precisa definizione che Bellamy avrebbe affibiato alla parola guaio.

Octavia ricordava ancora come, una settimana prima, Clarke l’avesse avvertita di ciò a cui andava incontro, e di come lei aveva rifiutato ogni consiglio e aveva cominciato a frequentare i Grounders, quella compagnia non troppo raccomandabile di gente altrettanto poco affidabili.

All’inizio era stato divertente, le piaceva il fatto di essere la ragazza nuova che aveva stregato tutti con i suoi occhi verdi e l’atteggiamento sfrontato, le piaceva pensare all’idea inosservante di non rispettare gli stop e sfrecciare per le strade su quei furgoncini dipinti con le bombolette, ma poi un certo senso di colpa aveva cominciato a fare capolino fra i suoi pensieri per tutte le volte in cui usciva di casa raccontando a suo fratello bugie su bugie e il tutto aveva cominciato a perdere quel certo fascino.

E la giovane non aveva comunque fatto nulla per cambiare le cose, aveva soppresso quella tediosa sensazione in fondo al proprio stomaco e aveva continuato a incontrarsi con Lincoln di nascosto, fino ad arrivare a quel momento; lei non aveva mai nemmeno visto un’automobile rubata e ora la sua schiena era premuta contro il volante di una di quelle e due paia di braccia la stringevano e spingevano contro un petto muscoloso e ampio.

Quando le labbra del suddetto ragazzo scesero lungo il suo collo, Octavia non poté trattenersi dal gettare il capo all’indietro e sospirare leggermente.

« Forse… Dovrei tornare a casa… » Mormorò la ragazza, senza però allontanarsi di un centimetro da lui.

« O forse no. » La voce di Lincoln le rispose con decisione e una certa intensità, mentre le sue mani trovavano la pelle dei fianchi sotto la canotta che lei indossava.

« Non so nemmeno il tuo cognome. » Rise lievemente e chiuse gli occhi, abbandonandosi per qualche attimo alle sensazioni che stava provando.

« Io so il tuo, e questo è sufficiente. » Lo percepì sorridere contro la propria spalla e istintivamente sorrise anche lei.

« Siamo su un’auto rubata. » Tentò per l’ennesima volta di trovare una giustificazione per staccarsi da lui, ma in fondo sapeva di non essere riuscita a convincere nemmeno se stessa.

« Perspicace. »

Lincoln sollevò il volto per baciarla di nuovo e Octavia si perse ancora in lui, nel modo in cui la sfiorava e oscurava qualsiasi suo pensiero.

Lo conosceva da una settimana e si era abbandonata a lui con una facilità che non aveva mai sentito prima, perché lui era tutto ciò che lei bramava, era l’emblema di una libertà che sapeva di non poter mai raggiungere.

Tutto quello che poteva fare era sfiorarla con la punta delle dita e avvicinarsi il più possibile, sapendo di essere sempre un po’ più lontana dalla prigione che erano la sua casa e le stupide regole di suo fratello, e questo lo riteneva sufficiente.

Non che Bellamy le avesse fatto mancare qualcosa, sapeva bene di essere la sua unica priorità, ma per troppo tempo si era vista costretta nella gabbia d’oro in cui lui l’aveva inconsapevolmente intrappolata, timoroso di quello che il mondo fuori le avrebbe potuto fare.

Una parte di lei non lo biasimava, percepiva allo stesso modo un attaccamento totalizzante nei suoi confronti – in fondo era suo fratello, diamine, il sangue del suo sangue, fatto di tutto ciò di cui era fatta lei –, ma un’altra parte, invece, non poteva impedirsi di sentirsi tenuta lontano dalle migliaia di occasioni che avrebbe potuto sfruttare.

Col passare degli anni un ambiguo sentimento di claustrofobia ed estraniamento aveva cominciato ad attanagliare le pareti del suo cuore, facendola sentire come una diversa, una reietta.

Era come se il fare protettivo di suo fratello avesse scavato, con il tempo, una buca sotto i suoi piedi e lei ci fosse caduta dentro, come costretta a passare ogni suo giorno in quel buco sotto al pavimento mentre gli altri facevano esperienze e le camminavano sopra e semplicemente vivevano al posto suo, e poi quel buco era diventato così grande da inghiottirla e farla scivolare giù.

Forse era per questo che aveva cominciato a frequentare quelle persone, perché sapeva di non poter reclamare di più.

Forse era caduta troppo in basso per aspirare a qualcosa di meglio – cos’era il meglio, poi?

Perciò sì, Octavia Blake poteva anche possedere tutti i requisiti che qualsiasi donna avrebbe facilmente potuto desiderare, ma alla sua stessa sicurezza corrispondeva un’incertezza da brividi, un vuoto difficilmente contenibile che, proprio lì, proprio allora, la portò a maledire mentalmente qualsiasi senso di colpa l’avesse colpita e a dimenticare per un attimo tutte le aspettative che gravavano sulle sue spalle.

E fu per quello stesso motivo che, invece di allontanarsi e farsi riportare a casa, tutto ciò che fece fu stringersi un po’ più forte a Lincoln.


 

 
 
 
 
 
Il telefono di Bellamy prese a squillare, ma il moro non aveva alcuna intenzione di alzarsi e controllare chi fosse, tantomeno di rispondere.

Se ne stava seduto alla propria scrivania e osservava con aria distratta e deconcentrata i documenti e i rapporti dell’ultimo caso a cui aveva lavorato prima di essere sospeso, e purtroppo ciò non faceva altro che demotivarlo e farlo incazzare ancora di più.

Finalmente il cellulare smise di suonare, perciò il maggiore dei Blake si appoggiò alla poltrona con la schiena e si passò una mano sul volto. Il suo lavoro gli mancava più di qualsiasi altra cosa e non c’era niente che non fosse disposto a dare pur di riottenerlo al più presto.

Quando la sua suoneria ripartì per l’ennesima volta, Bellamy si alzò con un grugnito e raggiunse il letto, su cui aveva gettato l’apparecchio qualche ora prima.

Si trattava di un numero sconosciuto e per un attimo fu tentato di rifiutare la chiamata, ma poi decise di accettarla comunque.

« Pronto? »

« Ehi, straniero! »

Riconobbe immediatamente quella voce. Una voce che, ci avrebbe potuto giurare, non sentiva da almeno sette anni e pensava di non poter sentire mai più.

« Atom? » Il tono incredulo suscitò una risata dall’altro lato del telefono e il moro non poté trattenersi dal sorridere a sua volta.

« Pensavo fossi emigrato su una navicella nello Spazio! » Esclamò l’altro con stupore e sarcasmo.

« Che fine hai fatto, cazzone? »

« Sai, quando mi sono trasferito da Portland ho deciso di partire. Tra una cosa e l’altra, ho conosciuto un’associazione di sostegno e volontariato, così mi sono buttato in questo progetto. Sono appena tornato dalla Bolivia. »

« Non ci credo. Tu, volontariato? Dio, devo proprio essermi perso qualcosa! »

Bellamy aveva ancora un ricordo preciso del suo migliore amico d’adolescenza, quello che tutti erano soliti definire il classico bravo ragazzo – almeno finché non aveva conosciuto il maggiore dei Blake. Non avrebbe mai potuto dimenticare quando entrambi erano finiti in una rissa ed erano stati trattenuti in riformatorio per tre giorni.

Fortunatamente, il padre di Atom li aveva salvati dai guai con la fedina penale, riuscendo, tramite amicizie, a far ritirare ogni accusa contro di loro. Era quello che aveva permesso al maggiore dei Blake di arruolarsi in Accademia, e per quello non avrebbe mai smesso di ringraziare la famiglia Ward.

« Beh, io ho saputo che ora sei un poliziotto, quindi credo che siamo pari! » La risata di Atom riecheggiò nell’apparecchio e solo allora Bellamy si accorse di quanto gli era mancato.

« Mi sei mancato, idiota. Non posso credere che sia davvero tu... » Sussurrò lui, non proprio abituato ad esternare i propri sentimenti.

« Anche tu. Sai, io sono a Los Angeles, ma… »

« Cosa? Stai scherzando? »

« No, amico. Dovrei raggiungere Portland entro… »

D’improvviso, il ragazzo si rese conto che Atom non sapeva praticamente niente della sua vita; né di ciò che era successo a sua madre, né del trasferimento.

In fondo, aveva cambiato città pochi mesi prima che lui venisse a conoscenza della malattia di Aurora, perciò non poteva sapere di ciò che era successo.

« Ehi, woh, fermo un attimo. Sono a Los Angeles anch’io. Perché non passi da me? »

« Che diavolo ci fai qui? », la sorpresa nel tono di voce dell’amico gli appariva chiarissima, « Non ci posso credere! »

« Beh, abbi un po’ di fiducia.  »

« Il fatto è che, sai, dovrei prenotare un albergo e… »

« Scherzi? Nessun albergo, puoi stare da me.  »

Dopo avergli dato le indicazioni sul suo quartiere e la via da raggiungere ed essersi salutati con la promessa di vedersi entro un’ora, i due amici si salutarono e attaccarono.

Bellamy rimase a fissare il vuoto davanti a sé con un sorriso vago. Non era mai stato un tipo pieno di amici, sia a causa della sua naturale sfiducia e diffidenza verso gli altri, sia per tutto ciò che era accaduto nella sua vita.

Eppure per lui e Atom le cose erano state allo stesso tempo paurosamente facili e incredibilmente difficili, due undicenni pieni di complessi e desideri irrealizzabili, animati da un sentimento che, in età adulta, sarebbe poi divenuto brama di potere e successo; insomma, si erano semplicemente trovati, sebbene entrambi fossero bloccati in una intricata situazione famigliare.

I due ragazzi avevano vissuto nello stesso palazzo per tutta la loro vita, si erano incontrati per le scale miliardi di volte prima di rivolgersi effettivamente la parola. Bellamy, col suo atteggiamento intimidatorio; Atom, con la naturale predisposizione a tenersi fuori dai guai.

Tuttavia, dopo anni e anni di sguardi furtivi e solitudini pomeridiane, i due ragazzi avevano cominciato a parlarsi e a trascorrere sempre più tempo insieme.

Il loro non era mai stato un rapporto semplice e nemmeno salutare, per certi versi, ma ognuno aveva saputo tirare fuori dall’altro un lato di sé di cui non era a conoscenza.

Ad esempio, il maggiore dei Blake aveva trascinato l’amico nelle più spericolate avventure – spesso attirandosi le ire del padre –, facendogli così capire che non doveva essere per forza tutto deciso da altri, che lui era l’unico in grado di determinare se stesso e cosa fare della propria vita, e che le aspettative altrui lo avrebbero soltanto limitato.

D’altronde, Bellamy aveva sempre avuto il dono di persuadere e ispirare chiunque entrasse a contatto con lui, rivelandosi un leader nato.

E poi c’era l’unico figlio di casa Ward, che aveva fatto comprendere al ribelle amico che non tutto doveva per forza andare male, che la vita era fatta anche di quei momenti in cui rimanere in silenzio e ragionare quell’attimo in più sufficiente a prendere una buona decisione.

I due caratteri opposti e complementari, quindi, si erano influenzati l’un l’altro per tutta l’adolescenza, e allo stesso modo uno aveva fatto dell’altro il proprio cardine, il luogo di ritrovo in cui rifugiarsi quando tutto il resto andava male.

La loro amicizia – sempre più simile ad una fratellanza – era andata man mano rafforzandosi finché il padre di Atom, un rigido e sever’uomo che come professione faceva il militare, non era stato costretto a trasferirsi per motivi di lavoro e la sua famiglia aveva dovuto seguirlo.

Ormai diciassettenni, i due amici si erano salutati sull’ultimo pianerottolo del loro palazzo, valigie e borsoni ad ostacolargli i movimenti; senza dire una parola, Bellamy aveva stretto forte quel ragazzo un po’ più magro di lui con cui aveva condiviso le peggiori e quindi più divertenti peripezie, e i due si erano promessi di tenersi in contatto a qualsiasi costo, di vedersi almeno una volta ogni due settimane e, in caso di bisogno, di non esitare a cercare l’uno l’aiuto dell’altro.

E la loro relazione a distanza aveva davvero funzionato, per qualche mese, ma poi Aurora Blake si era ammalata e non c’era stato più spazio per nient’altro nella vita del giovane.

Una volta diventato adulto, il pensiero di Atom era lentamente scivolato fra le questioni di cui non poteva preoccuparsi al momento. Con la casa, Octavia e tutto il resto, Bellamy aveva smesso di curarsi di qualsiasi cosa non fosse strettamente necessaria al benessere di sua sorella.

Ovviamente non aveva dimenticato il suo primo e unico migliore amico, ma la certezza di sapere che ci sarebbe sempre stato, che l’avrebbe raggiunto anche in capo al mondo, aveva fatto sì che per il momento il ragazzo lasciasse fluttuare lontano i gloriosi giorni dell’adolescenza e riponesse ogni energia nel tentare di mantenere a galla la propria famiglia.

Il fatto era, però, che quel momento si era trasformato in sette anni di silenzio e ora il senso di colpa aveva bussato alla sua porta.




 
*



 
Clarke se ne stava seduta sul portico di casa sua, il sole di Giugno a creare riflessi dorati sui suoi capelli e un bicchiere di thé ghiacciato sul tavolino vicino a lei.

Come la maggior parte delle volte, era sola in casa e questo le permetteva di riflettere nella pace e nel silenzio che aveva sempre anelato.

Si rigirava tra le mani il primo regalo che le aveva fatto Finn, uno stupido cervo a due teste modellato sul metallo (“La normalità è sopravvalutata, no?” Le aveva detto il giorno in cui glie lo aveva dato), e ripercorreva nella mente tutto ciò che si erano detti una settimana prima, quando lui si era presentato alla sua porta senza il minimo segno di pudore.



« Finn? » La sua voce era salita come minimo di un’ottava, esaltando così una certa isteria.

« Clarke… » Lui aveva risposto con un semplice sussurro accompagnato da quell’estremamente irritante espressione che metteva su quando voleva farsi perdonare di qualcosa.

«Non so davvero cosa ti sia passato per la mente venendo qui, ma te ne devi andare.  » La rabbia per la sua incredibile sfacciataggine fu probabilmente ciò che la fece riavere dallo stupore di vederlo lì, perciò questa volta il suo tono parve molto più sicuro.

« Ti prego, ascoltami per un attimo. » Il ragazzo aveva fatto un passo avanti e aveva alzato un braccio nella sua direzione, facendola così arretrare automaticamente.

« Non voglio le tue preghiere, Finn », sentire il suo nome pronunciato dalle proprie labbra fu così strano da sembrare irreale, come se fosse stata un’altra a parlare, e impulsivamente Clarke serrò la mascella, « non voglio più niente che ti riguardi. »

«Lo so. »

«Perché sei ancora qui, allora? »

La giovane aveva sperato che il suo tono sconfitto implicasse un dietrofront da parte sua, ma le sue speranze furono vane. « Ho
bisogno di parlarti. Ti prego. »

Lei lo fissò per qualche istante dal portico, tre scalini sopra di lui, mentre la confusione e la tempesta che la stava sconvolgendo parevano non darle pace.

Era sempre stato così: Finn era l’unico in grado di offuscare qualsiasi sua capacità di giudizio; quando si trattava di lui, la sua razionalità semplicemente si dissolveva.

«No. »

«Ma…  »

Collins fu interrotto dal rumore della porta d’ingresso che si apriva e si richiudeva con forza dietro alle spalle del nuovo interlocutore.

«Ehi,
Spacewalker », Bellamy parlò ponendosi davanti a Clarke come a volerla difendere, indicando la maglietta del ragazzo – un astronauta seduto sulla superficie lunare che faceva il dito medio –. « mi sembra che abbia detto di andartene. »

« E tu chi diavolo saresti? Questi non sono affari tuoi. »

«Scommettiamo?  » Il maggiore dei Blake superò i tre gradini della veranda con un solo passo e raggiunse il ragazzo, scrutandolo con astio.

Lo sguardo di ostilità fra i due si protrasse ancora per qualche momento, il livello di testosterone che era arrivato al culmine e pareva palpabile nell’aria intorno a loro, finché la giovane Griffin non ne ebbe abbastanza e li raggiunse.

Sorpassando Bellamy, si avvicinò a Finn e istintivamente lo afferrò per le spalle. Entrambi i loro sguardi scattarono nel punto in cui i loro corpi entravano in contatto, lei scioccata dalla propria mossa e lui con un sorrisetto compiaciuto sul volto.

«Ok, va bene? Parleremo. Ora vattene. »

Annuendo, lui prese qualcosa dalla sua tasca e, lasciandola totalmente sconvolta e sorpresa del gesto, le afferrò la mano, facendo cadere al suo interno un piccolo oggetto.

I due si guardarono per qualche altro istante, ognuno cercando qualcosa negli occhi dell’altra, finché Finn non si voltò e raggiunse la propria macchina.

Una volta sicura della sua lontananza, del fatto che ora se ne fosse andato e potesse riprendere a respirare normalmente, Clarke abbassò lo sguardo e notò il piccolo animale di metallo nel suo palmo sinistro.

Un colpo di tosse fermò sul nascere qualsiasi percorso sul viale dei ricordi e lei fu costretta a voltarsi.

«Non avevo bisogno del tuo aiuto,
Bellamy », il tono infastidito e tormentato di Clarke calcò sul suo nome, «potevo farcela da sola. »

Il ragazzo davanti a lei la guardò per un attimo con un’espressione indecifrabile, poi socchiuse gli occhi e alzò le braccia in segno di resa.

« Come vuoi, Principessa. »






E ora aveva ricevuto un messaggio dal suo ex ragazzo – se così poteva definirsi – in cui le chiedeva di incontrarlo quella stessa sera, al The 100, in mezzo a tutti i loro amici. Cosa poteva esserci di peggio?


Il flusso dei suoi pensieri fu interrotto dal suono squillante e acuto di un clacson in arrivo.

Clarke si voltò alla sua sinistra, da dove proveniva il rumore, per vedere un’automobile piuttosto sportiva che arrivava dall’inizio della strada.

Quello non era mai stato un quartiere molto chiassoso, la serie di case a schiera era occupata principalmente da anziani o coppie sposate, perciò la giovane si ritrovò piuttosto sorpresa del fatto.

Osservò l’auto raggiungere l’abitazione alla sua destra e subito capì di chi doveva trattarsi.

L’effettiva verità della sua ipotesi si concretizzò quando vide dirigersi fuori dalla suddetta casa l’irritantissimo Bellamy Blake, al momento preso da una gioia di cui non l’avrebbe mai ritenuto capace.

Nello stesso momento un ragazzo probabilmente della sua stessa età uscì dalla vettura con una simile espressione di eccitazione sul volto.

I due si studiarono da lontano per qualche secondo, stupore e frenesia facilmente intuibili dalle loro facce, e con poche falcate si raggiunsero.

Si guardarono per qualche istante senza dire nulla e poi, d’improvviso, si abbracciarono.

Percependo la propria intrusione in quell’attimo di intimità rubata, la ragazza riportò lo sguardo sul messaggio di Finn: Stasera al The 100, diceva.

Quando sollevò nuovamente gli occhi, la prima cosa che Clarke vide fu il ragazzo appena arrivato sulla veranda di casa Blake intento ad entrare; convinta che non ci fosse più nessuno, la giovane si guardò un po’ intorno solo per vedere che Bellamy era rimasto proprio lì dov’era e i suoi occhi erano fissi su di lei.

La giovane Griffin non poté fare a meno di irrigidirsi, ma non interruppe il contatto visivo. Da lontano, lui parve sollevare impercettibilmente il mento a mo’ di saluto e, in un attimo, si avviò verso l’entrata della propria casa.



 

 
*



« Wow, e quella chi era? »

Bellamy finì di sistemare le valigie del suo migliore amico e si voltò verso di lui; con una scrollata di spalle, parlò: « La persona più irritante che tu possa mai conoscere. »

« Beh, “irritante” non è il primo aggettivo che mi è venuto in mente vedendola. » Rispose l’altro con sarcasmo, dirigendosi verso la cucina e osservando fuori dalla finestra.

« Cosa, vuoi provarci con la mia vicina di casa? »

« Ehi, amico, non farei mai una cosa del genere. » Atom sollevò le sopracciglia e si voltò verso di lui.
Il maggiore dei Blake conosceva bene quello sguardo.

« No, non… »

« Ho visto come la guardavi. »

Bellamy si diresse verso il frigorifero e lo aprì, oscurando per qualche secondo la figura del ragazzo al suo fianco e tirando fuori due birre.

« Io non… Io non la guardo. A malapena la conosco. »

Afferrando la bottiglia che l’amico gli passava, il giovane Ward decise di non insistere, perciò gli lanciò un'occhiata indecifrabile e si appoggiò al bancone alla sua sinistra.

« Non posso credere di avere davanti Bellamy Blake. » Affermò con fierezza prendendo un lungo sorso dalla bevanda fresca.

 « Finalmente, direi. »

 « Ci sono così tante cose che non so di te... »

 Il moro osservò l'amico sporgersi in avanti e alzare le sopracciglia in un'espressione quasi arresa.

« Mi dispiace. Mi dispiace per tutto il tempo trascorso senza sentirci, mi dispiace essere sparito... »

« Ehi, Bell », Atom lo richiamò quasi dolcemente, « non devi scusarti. Sono successe un sacco di cose nelle nostre vite, è normale che le nostre strade si siano separate. »

« Aurora è morta. »

La frase gli scivolò dalle labbra simile a un'unica sillaba con incredibile facilità, sotto cui, però, si celava un antico dolore, una sofferenza che gli pareva di portarsi dietro da secoli, anziché da una manciata d'anni.

Per qualche strano motivo gli risultava difficile guardare negli occhi il suo migliore amico, come se quella fosse stata l'affermazione della propria sconfitta. Come se avesse implicato il suo non essere abbastanza.

Con la coda dell'occhio lo vide affondare il volto nelle proprie mani e sospirare pesantemente.

 Bellamy fu finalmente in grado di alzare lo sguardo e vide riflesso il proprio dolore nell'espressione mortificata dell'amico.

« È saltato fuori che era malata da tempo, ma non aveva detto niente né a me né ad Octavia. L'abbiamo saputo quando ormai era troppo difficile nasconderlo. »

« E voi... Voi siete rimasti da soli? Cosa avete fatto? »

Il maggiore dei Blake si avviò verso il divano e fece cenno ad Atom di seguirlo.

Una volta seduti, rispose: « All'inizio è stato difficile. Oh, se lo è stato. Avevo solo diciotto anni, non mi ero mai preso cura nemmeno di me stesso, come potevo farlo di una tredicenne? »

Il giovane si interruppe per passarsi una mano sul volto. « Poi, fortunatamente – per quanto possa ritenersi fortunata la mia vita – è riapparsa Atys, la sorella di mia madre. Te la ricordi? »

L'amico annuì con un sorriso vago, gli occhi persi nel vuoto – probabilmente stava pensando al decimo compleanno di Bellamy e a quella donna che pareva un'attrice degli anni cinquanta.

« Beh, non chiedermi perché, ma a un tratto voleva prendersi cura di noi. Non potevo rifiutare, capisci? Era la nostra unica occasione. Così, una mattina estiva siamo saliti sulla vecchia macchina di Aurora e siamo venuti qui, in California. Lei vive in un piccolo appartamento qui vicino, nel Cudahy.

Io avevo finalmente la possibilità di realizzare qualcosa, perciò mi sono arruolato all'Accademia e mi sono fatto il culo per laurearmi il più in fretta possibile.

Una volta essermi stabilizzato, ho usato i miei risparmi per affittare questa casa. Insomma, Atys ci ha davvero aiutati, ma come potevo continuare ad appoggiarmi a una trentacinquenne che soffre di crisi di mezza età precoci e porta a casa chitarristi strafatti?

Le cose sembravano andare davvero bene: avevo un lavoro, mia sorella otteneva tutto ciò desiderava, ci stavamo per trasferire in una casa tutta per noi, un posto dove avremmo potuto avere quello che volevamo... »

« E poi hai fottuto tutto. »

L'intuizione dell'amico lo fece sorridere amaramente; era davvero così sconfinata la propria scontatezza?

« C'era quest'idiota, nel mio vecchio dipartimento, un coglione a cui non ho mai dato retta. Una sera, però, ha detto qualcosa di troppo su Octavia e io sono scattato.
L'ho picchiato. Ho cercato di calmarmi, di dirmi che non ne sarebbe valsa la pena, ma lui continuava e...
Insomma, morale della favola: il Capitano mi ha sospeso a data da destinarsi ed eccomi qui. Rischio di perdere il mio lavoro, mia sorella mi odia per averle rovinato la vita e non so davvero che diavolo fare. »

« Bell, andrà tutto bene. So che è difficile, so quanto sia stata dura per te affrontare tutto da solo, ma credimi, tutto si risolverà. Dio, tu sei Bellamy Blake! Sei un lottatore, sei un leader nato. Mi hai trasformato nella versione più coraggiosa di me che potessi mai desiderare di diventare. E poi... Non sei più solo. »

Incoraggiandolo con un lieve sorriso, Atom lo guardò negli occhi e annuì vigorosamente.

« Grazie. Lo apprezzo davvero. È inutile dire che puoi restare qui quanto vuoi, no? »

« Non poltrirò sul tuo divano in eterno, ma accetto volentieri l’invito! »

I due ragazzi si abbandonarono a una leggera risata e caddero in un piacevole silenzio. Bellamy sorseggiava la propria birra e ripensava a com’era stato semplice ridurre la propria vita a una manciata di parole.

« Non so ancora dov’è la piccola O! » L’amico interruppe l’apprezzata quiete con un’esclamazione ad alta voce.

« La piccola O », rimarcò il maggiore dei Blake con sarcasmo, « sarà la mia morte. Si è fatta degli amici, così ha detto, e ora è con loro. »

« Wow, non credevo fossi così permissivo! »

« Sì, beh… Non appena saprò i loro nomi, cognomi e indirizzi farò solo un paio di ricerche, così, per informazione. »

Alzò le spalle con indifferenza e l’altro lo colpì con un debole pugno sull’avambraccio.

« Cazzone! »

Le loro risate riecheggiarono nella sala per qualche altro secondo, prima che Atom aggiungesse in tono leggermente più serio: « Stasera usciamo a festeggiare! »

« Cosa? Sai, non sono più il tip... »

« Non era una domanda, Bell », lo interruppe l'altro con una certa sicurezza nella voce, « stasera usciamo a festeggiare. » Ripeté nuovamente le parole, questa volta scandendo una sillaba dietro l'altra.

Osservando attentamente il suo volto, Bellamy comprese di non aver alcuna possibilità di opporsi. Quella sera avrebbero festeggiato, fine della storia.
 
 



 
*


 
L'ora era arrivata.

Sì, insomma, a Clarke non era mai mancato un pizzico di teatralità, quel briciolo sufficiente a farla definire da Jasper una vera drama queen.

Il fatto era che l'ora era davvero arrivata, perché in venti minuti avrebbe dovuto trovarsi al The 100 e affrontare Finn.

La giovane Griffin si osservò nuovamente allo specchio e sospirò profondamente.

Con lui era sempre stato così: era in grado di farle dubitare di qualsiasi cosa, anche della più evidente, ma, ancora peggio, soprattutto di se stessa.

Era una verità di cui si era sempre sentita consapevole, ma che non era mai riuscita a cambiare in alcun modo: Finn era l'unico capace di portarle via qualsiasi sicurezza.

Sistemandosi per l'ennesima volta i capelli lasciati al naturale, Clarke afferrò la felpa appesa alla maniglia della porta della propria stanza e si diresse giù per le scale.

Così come era solita fare durante la moltitudine di serate estive passate al locale, la bionda decise di avviarsi a piedi: così avrebbe sicuramente avuto modo di ragionare un po'.

Cosa voleva Finn? Era tornato in città? Era tornato in città per restare? Ma soprattutto: Dov'era Raven? Era tornata con lui?

La giovane Griffin ricordava ancora con estrema chiarezza il giorno in cui li aveva visti caricare la Jeep del ragazzo un anno prima, montare in macchina e partire senza voltarsi indietro nemmeno una volta.

Sapeva che lei l'aveva messo davanti ad un bivio – in giro non si era parlato d’altro per giorni – gli aveva concesso un ultimatum per cui l'avrebbe tenuta con sé o non l'avrebbe mai più rivista, a lui la scelta.

Inutile dire quale era stata la sua decisione.

Clarke non era mai riuscita a evitare di biasimare se stessa e la sua debolezza per tutto ciò che era successo: aveva conosciuto l’affascinante Collins all’età di diciassette anni e si era perdutamente innamorata di lui in così poco tempo da sentirsi quasi ridicola.

Non era mai stata una persona passionale dal punto di vista romantico, aveva sempre trascorso la maggior parte del suo tempo con Jasper e Monty e questo le era bastato, almeno finché non aveva conosciuto lui.

Col senno di poi, ancora non sapeva se si fosse trattato effettivamente di lui o del semplice bisogno di avere qualcuno al proprio fianco.

E lei non aveva voluto semplicemente un qualcuno, aveva voluto una persona estranea a tutto quello che le era successo, alla perdita del padre e ai problemi con la madre, aveva desiderato così tanto una via di fuga da gettarsi fra le sue braccia senza farsi né fargli troppe domande.

Era stato schifosamente ironico quando, circa un anno dopo, una misteriosa ragazza bruna aveva bussato alla porta di Finn mentre Clarke era in casa sua.

I tre si erano ritrovati a fissarsi senza parole, il ragazzo con espressione simile a quella di un animale braccato e le due fanciulle colte dalla più totale sorpresa.

E, di nuovo, era superfluo dire quale delle due se ne fosse andata per prima.

La giovane Griffin aveva potuto riconoscere la propria espressione sul volto della ragazza mentre si davano il cambio, la prima uscendo dall’appartamento e la seconda entrandovi.

Aveva visto il proprio stupore e il proprio risentimento nei suoi occhi, si era voltata un’ultima volta verso di lui e poi gli aveva voltato le spalle; a Finn, a quella ragazza, a tutti i ricordi e alla parte di sé che si stava lasciando dietro.

La rabbia di Clarke era stata travolgente, impetuosa, così violenta da farla sentire quasi impotente, sopraffatta da quel sentimento a lei tanto estraneo.

Se ci rifletteva attentamente, poteva ancora percepire il dolore al pugno destro che aveva usato per colpire un albero sotto casa Collins.

La bionda sorrise amaramente nel ricordare ciò che era successo e, in un inaspettato atto di amor proprio, cercò di seppellire nuovamente il tutto nella parte della propria mente che aveva relegato a scatolone di vecchie e superate preoccupazioni.

Quasi senza nemmeno accorgersene, camminando e rammentando il passato, era arrivata al club.

Con un respiro profondo si avvicinò all’entrata, dove intravide Miller e Monty discutere animatamente, probabilmente riguardo una delle loro battaglie spaziali online.

Percependo qualcuno schiarirsi la voce alle proprie spalle, si voltò: Finn la fissava da sotto le ciglia scure, il capo piegato verso il basso e le mani in tasca, probabilmente volendo mascherare il proprio nervosismo.

« Ciao! » La salutò con tono convinto, sebbene lei potesse leggere nei suoi occhi una certa inquietudine.

« Ehi. » Rispose lei con un cenno della testa alquanto incerto.

« Vuoi entrare? » Chiese lui con finto disinteresse, indicando con un gesto della mano l’ingresso del locale.

« No. »

Finn strinse le labbra in un’unica linea simile al disappunto, poi si voltò e cominciò a camminare lentamente verso le panchine alla loro destra.

Senza dire una parola, Clarke prese un respiro profondo e lo seguì.

« Vuoi sederti? »

« No. »

« Sono contento che tu mi abbia dato un’occasione. » Dicendo così, si sporse in avanti per sfiorarle il braccio, ma la giovane Griffin fu più veloce e si scansò prima che la sua mano la raggiungesse.

« L’ho fatto solo per poter chiudere definitivamente questa farsa, Finn. » Aveva parlato senza guardarlo negli occhi e una piccola vocina nella sua testa – tanto insignificante quanto fastidiosa – l’aveva rimproverata.

Sospirando con una certa evidenza, puntò lo sguardo nel suo. Faceva male.

« Voglio dirti tutto », il ragazzo davanti a lei annuì, probabilmente a se stesso, e poi continuò: « Sai, un anno fa… Non ho avuto modo di farlo. »

« Già. » Commentò brevemente lei, stringendosi le braccia al petto in una chiara posizione di difesa.

« Quando ti ho conosciuta avevo bisogno di prendere una pausa dalla mia vecchia vita. Da Raven, dalla mia vecchia scuola, le vecchie amicizie. Era tutto sbagliato, tutto confuso, e io volevo semplicemente… evadere. Tu eri così bella e intelligente e carismatica, eri quello che io non sarei mai riuscito ad essere. Credo di essermi innamorato di te praticamente subito. Pensavo, e credimi quando dico che ne ero maledettamente convinto, che non avrei più avuto nessun contatto con il mio passato. Tu mi rendevi felice… »

« Perché mi stai dicendo tutto questo? Pensi che cambierà le cose? »

« No, ma… »

« Allora cosa? Lo fai per riportarmi nel tuo letto? » Non poté trattenersi dall’alzare la voce e compiere un passo avanti, mentre la frustrazione e la rabbia le ribollivano nelle vene.

« Fra noi non è mai stato solo quello, lo sai bene. Non è quello che voglio. » Allo stesso modo, Finn si sollevò dalla panchina a cui si era appoggiato e le si avvicinò.

« Avevo chiuso con ciò che mi ero lasciato alle spalle. Per me era tutto sepolto e non avevo alcuna intenzione di lasciarmi trascinare nuovamente in quel circolo vizioso. »

« E allora come sei arrivato da questo a salire sulla tua bella macchina e andartene con lei? » La voce di Clarke tremò irrimediabilmente pronunciando quelle parole e all’ira per tutto quello che era accaduto si aggiunse una considerevole vergogna per se stessa.

« Quel giorno, quando Raven è tornata… Non me lo sarei mai aspettato. Non era previsto, non l’avevo immaginato. Pensavo avesse capito che era finita il giorno in cui mi ero trasferito, ma a quanto pareva non era così. Era spaventata, disorientata, era scappata di casa. Non potevo abbandonarla, capisci? »

« Non te lo avrei chiesto. Non ti avrei chiesto di lasciarla sola, Dio, io… »

« Clarke… » Lui la richiamò con tono inaspettatamente dolce, e questo non fece altro che farle salire la nausea.

« Mi hai spezzato il cuore. » Il singhiozzò che le scivolò dalle labbra le sconvolse il petto, ma questa volta non tentò neppure di nasconderlo.

« Mi dispiace, Clarke, non sai quanto io sia dispiaciuto. Non è mai stata mia intenzione ferirti, ma Raven era lì e non aveva nessun altro, era sola e… Ero confuso anch’io, avevo seppellito tutti i miei sentimenti sotto al desiderio di chiudere con il passato, ma… Non ho mai smesso di amarla. Mi dispiace. »

« No! Non mentire, Finn! Non osare nemmeno! Tu non la ami. Ti aggrappi a quell’abitudine perché è facile, perché non devi sforzarti, perché così ti è tutto dovuto, ma tu non la ami. Se lo avessi fatto davvero, non avresti mai… »

La giovane Griffin aveva cominciato ad alzare la voce e, quando se ne accorse, fece una pausa, tirò su un respiro profondo e poi riprese: « La prima volta che noi… La prima volta, quella sera, ti ho detto che non eri solo. Tu urlavi e prendevi a calci qualsiasi cosa perché non sopportavi l’idea di perdere e la possibilità che non ci fossero più speranze, e io ti ho detto che non eri solo. »

Le lacrime ormai avevano cominciato a concentrarsi sul fondo dei suoi occhi e la bionda sapeva perfettamente che avrebbero cominciato a rigarle il volto da un momento all’altro.

« Beh, tu non mi hai fatta sentire allo stesso modo. Mi hai fatta sentire come se tu fossi l’unico al mondo a capirmi e poi mi hai tolto quella consapevolezza. Mi hai fatta sentire dannatamente sola e questo non potrò mai perdonartelo. »

Con un gesto seccò del dorso della mano sinistra si ripulì il viso dalle stille salate che avevano cominciato ad attraversarlo e tirò su col naso, chiudendo gli occhi per un millesimo di secondo.

« Clarke, aspetta… »

Di nuovo si allungò verso di lei per toccarla, per cercare di farle capire in qualsiasi modo quanto fosse dispiaciuto, ma questo non fu possibile: la giovane Griffin si scostò per l’ennesima volta.

Si guardarono negli occhi ancora per pochi secondi, ma prima che lui riuscisse nuovamente a parlare, lei si stava già voltando.

« È finita. Qualsiasi cosa fosse rimasta di… questo – il disgusto fu estremamente percepibile nella sua voce – ora non c’è più. Non c’è più niente. Non cercarmi. Non parlarmi. Se mi vedi per strada, non guardarmi nemmeno. Voltati. »

Prima che il ragazzo potesse fare qualsiasi cosa, prima che riuscisse anche solo ad elaborare l’idea di averla persa per sempre e per davvero, Clarke se ne stava già andando.





 
*


 
Tutto quello che riuscì a fare fu camminare: senza mai voltarsi indietro, senza nemmeno la forza di muovere la testa, Clarke cominciò a camminare verso l'entrata del club, poi dritta verso l'angolo più nascosto del bancone del bar.

Voleva continuare a trascinarsi in avanti, voleva fermarsi e finalmente riposarsi, voleva che tutto quel chiasso e tutte quelle persone scomparissero, voleva che qualcuno le parlasse.

Ed era proprio quello il problema: come poteva pensare di volere davvero qualcosa, se i suoi desideri non facevano altro che contraddirsi e annullarsi l’un l’altro?

Non aveva voglia di cercare i propri amici, quindi si sedette su uno degli sgabelli alti e si fece scivolare le luci colorate e la musica spacca timpani contro la schiena, sperando così di estraniarsi da tutto quello che la circondava.

Se ne stava semplicemente lì, le mani congiunte sulla superficie fredda e il capo chino, gli occhi socchiusi e stanchi: si sentiva prosciugata da qualsiasi energia.

Rimase in quella posizione finché non sentì due mani tamburellare sul bancone davanti a lei.

Sollevando lo sguardo, incontrò il sorrisone di Alexander, uno dei baristi del club e miglior amico di Wells. Lo conosceva da tutta la vita e aveva trovato in lui un dono fondamentale, assolutamente necessario: la discrezione.

« Ehi, biondina, cos'è quel muso lungo? » Le domandò a voce alta, il suono della musica a fargli da sottofondo.

« Finn. » Disse semplicemente lei, sicura che quello bastasse a rendere l'idea.

Tutti sapevano cos’era successo fra loro due e, poiché Clarke era la persona con cui erano cresciuti e Finn solamente qualcuno che si era trasferito da poco, tutti avevano preso le parti della ragazza e avevano cercato di starle vicino.

Senza il bisogno di aggiungere altro, il ragazzo dall'altro lato del bancone si allontanò per qualche attimo, solo per ritornare con un grande bicchiere colorato fra le mani.

« Ti potrebbe servire! » Le parlò avvicinandosi per farsi sentire e posandole una mano sul braccio destro.

La bionda gli sorrise con gratitudine e lo osservò allontanarsi per servire gli altri clienti.

La maggior parte della serata trascorse così: lei seduta su quello sgabello a buttare giù drink dopo drink a cercare di non pensare a quello che era successo, a quello che aveva detto a Finn e a ciò che le aveva detto lui, tentando di dimenticare l'odio che provava verso la debolezza che entrambi avevano dimostrato, e Alexander a controllarla da lontano e ad assicurarsi che non esagerasse.
 
 



 
*


 
« Quindi... Questo è il The 100. » Constatò Bellamy osservando l'insegna luminosa davanti a loro e i gruppi di ragazzi che probabilmente aspettavano qualche amico per entrare.
 
« Esatto! » Rispose Atom con molto più entusiasmo, voltandosi verso il moro e incoraggiandolo con un sorriso.

« Octavia è dentro. » Aggiunse l'altro, scrollando le spalle come a volersi dare una motivazione.

Era passato molto tempo dall'ultima volta che aveva frequentato un locale, visto una pista da ballo o avuto anche solo la minima intenzione di bere un drink.

Sentiva ormai che quella vita non gli apparteneva più: i ricordi che aveva della propria adolescenza parevano quasi dei sogni lontani, come se non fossero mai esistiti.

« Ulteriore motivo per entrare, no? Andiamo! » Con una pacca sulla spalla dell'amico il giovane si incamminò e il maggiore dei Blake fu costretto a seguirlo.

Una volta dentro, Bellamy si guardò intorno per qualche istante: sulla sinistra, in fondo, una folla piuttosto consistente ballava e si muoveva al ritmo della musica, la pista circondata da privè essenzialmente vuoti; sulla destra, invece, si trovavano il bancone del bar e alcuni tavolini probabilmente utilizzati durante il giorno.

L'ambiente non era affatto piccolo, anzi, era piuttosto spazioso: sicuramente molto migliore delle discoteche che era solito frequentare nell'Oregon. Percepì l'amico voltarsi verso di lui e fece lo stesso.

« Ehi, io prendo da bere! Piña Colada in nome dei vecchi tempi? » Gli urlò per farsi sentire dalla musica, colpendolo giocosamente con una lieve gomitata.

« Una birra sarà sufficiente, grazie! » Rispose lui con tono ironico, ridendo per la sua proposta.

Mentre Atom si dirigeva verso il bancone, Bellamy tirò fuori il cellulare dalla tasca e cominciò a comporre un SMS per Octavia.
 




 
*


 
« Una Piña Colada e una birra. Sai, il mio migliore amico è diventato noioso! »

Il giovane Ward si sporse sul bancone e fece la propria ordinazione. Mentre aspettava che i drink fossero pronti, guardandosi attorno, vide qualcuno di familiare e si avvicinò.

Prima di parlare si schiarì la gola, ma lei sembrò non farci troppo caso.

« Ehi, scusa, tu sei la vicina di Bell, vero? » La bionda finalmente si voltò, un'espressione confusa e accigliata sul volto.

« Io sono ubriaca. » Fu la sua pronta risposta, alzando il bicchiere in un brindisi immaginario.

Atom scoppiò in una risata fragorosa e la osservò per qualche attimo attraverso le luci colorate e quasi psichedeliche che le illuminavano il volto.

All’improvviso un’idea geniale gli venne alla mente e, pensando di non far danno a nessuno, le parlò nuovamente: « Mi chiedevo… Vorresti unirti a noi? Io e Bellamy siamo soli e credo tu conosca il locale molto meglio di noi. Ci divertiremo! »

Clarke si girò con il busto verso il ragazzo, accennando un sorriso e mordendosi il labbro inferiore in segno di indecisione.





 
*



« Bellamy! »

La voce di Octavia gli giunse attraverso la musica prima di riuscire a vederla, perciò il maggiore dei Blake si staccò dalla parete a cui era appoggiato e si voltò alla propria destra.

Sua sorella lo raggiunse e lo abbracciò velocemente, staccandosi subito dopo.

« Allora », urlò lei per farsi sentire, « che ci fai qui? » Poteva percepire la sua stessa voce salire di una tonalità, mentre si guardava intorno e si accertava che nessuno dei suoi amici fosse nei paraggi.

Se Bellamy avesse capito che tipo di gente stava frequentando, non avrebbe avuto vita lunga.

« Non indovinerai mai chi ho incontrato. » Lui gridò a sua volta per sovrastare il rumore che li circondava e, senza attendere risposta, la prese per mano e la trascinò lontano dalla calca e dalla musica, vicino al bar.

Prima che i due potessero ancora scambiarsi una parola, il moro intravide un volto conosciuto alle spalle della sorella e sorrise furbescamente; quando lei si voltò per vedere chi fosse, la percepì sussultare con sorpresa.

Si gettò fra le sue braccia non appena le fu abbastanza vicino e sorrise contro la sua spalla, entusiasta e sconvolta dalla sua presenza.

« Atom! »

« Octavia… »

E in quel momento, mentre osservava il suo migliore amico e sua sorella salutarsi dopo anni di lontananza, Bellamy si accorse che c’era qualcun altro, lì vicino.

« Principessa? »

« Bellamy. »

I due si osservarono impassibili per qualche attimo, sebbene la confusione e il disorientamento sul volto di Clarke fossero ben visibili nonostante le luci diffuse e colorate che si riflettevano dalla pista da ballo.

Non appena l’abbraccio dei due ragazzi si sciolse, Octavia si accorse della presenza della loro vicina di casa e si avvicinò per baciarle la guancia.

« Ehi, bellezza! »

La bionda sorrise stordita, l’effetto degli svariati drink che iniziava a fare effetto, e passò ad Atom il bicchiere che teneva in mano.

Poi si voltò verso il maggiore dei Blake, rimasto in silenzio per tutto il tempo, e gli fece scivolare fra le dita la bottiglia di birra.

Lui non parve nemmeno accorgersene, troppo occupato a lanciare occhiatacce simili a stilettate infuocate verso il suo migliore amico, mentre l’altro gli sorrideva maliziosamente e alzava le spalle con innocenza.

La brunetta prese per mano il giovane Ward e poggiò il capo contro la sua tempia; non poteva credere che fosse davvero lì, con loro, soprattutto perché era sempre stata convinta che non l’avrebbe mai più incontrato.

Lui era come un altro fratello maggiore, l’aveva sempre percepito come un membro della propria famiglia e l’aveva guardato con la stessa ammirazione e adorazione che aveva riservato a Bellamy.

« Ti prego, andiamo a ballare! » Lo supplicò con quella che era la sua migliore faccia da cucciolo, sperando che sortisse l’effetto desiderato.

« Io credo che… Credo che andrò a bere qualcosa. » Clarke sopraggiunse nella conversazione dopo istanti di silenzio, sentendosi come qualcuno di troppo in quello che evidentemente era un raduno di vecchi amici.

« Per una volta potrei davvero essere d’accordo con te, Principessa. » Anche il moro parve essere della stessa idea, perciò Octavia e Atom decisero di poterli lasciare soli e buttarsi in pista.

I quattro si divisero con la promessa di sentirsi tramite cellulare e di non bere troppo, mentre intorno a loro la folla cominciava ad aumentare e lo spazio pareva inesorabilmente diminuire.

« Sarà meglio avviarci, prima che qualcuno non ti veda e ti calpesti. » Affermò il ragazzo con un sorrisetto compiaciuto sul volto, cominciando ad avviarsi verso il bar e gettando qualche occhiata alle sue spalle per assicurarsi che lei lo seguisse.

La giovane Griffin parve capire la battuta solo dopo qualche secondo, perché, afferrando il suo avambraccio per non perderlo di vista, sbuffò: « Doveva essere divertente, Blake? »

Quando raggiunsero il bancone del bar, e quindi riuscirono a parlare senza dover urlare e a camminare senza dover evitare di beccarsi gomitate alle costole, il ragazzo si voltò verso di lei, adocchiando rapidamente le sue dita strette attorno al proprio braccio.

Lei seguì il suo sguardo lentamente e, quasi come svegliandosi da un incantesimo, ritrasse con velocità la mano.

I due si sedettero esattamente dove lei aveva trascorso la prima parte della serata e presto Alexander li raggiunse.

« Cosa ti porto, splendore? » Domandò rivolgendosi a Clarke e gettando solo un’occhiata veloce al suo accompagnatore.

« Per me il solito. » Rispose lei con una scrollata di spalle.

« Io sono a posto così. » Aggiunse Bellamy, sollevando la bottiglia di birra da cui non aveva ancora preso nemmeno un sorso.

Per qualche momento si creò un silenzio piuttosto gradevole, lei fissando il vuoto davanti a sé e lui bevendo lentamente la propria bevanda, poi, quando arrivò il suo cocktail, Clarke schioccò la lingua e bevve velocemente un primo goccio.

« Woah, ci vai giù pesante. E io che pensavo fossi una brava ragazza… »

La giovane si voltò verso di lui ruotando sullo sgabello forse con un po’ troppa energia, perché le proprie ginocchia urtarono la sua gamba sinistra.

« Oh, mi dispiace… » Farfugliò lei staccandosi subito e osservandolo con le sopracciglia aggrottate.

Bellamy si fece sfuggire un sorrisino e liquidò il fatto con un gesto della mano.

« Non fa niente. »

« Io non sono una cattiva ragazza. » Sentenziò subito dopo, alzando l’indice destro davanti al volto in segno di ammonimento.

« Non ne dubito… » Rispose l’altro con poca convinzione, bevendo ancora un altro po’ dalla bottiglia di vetro.

« Ho solo avuto una brutta serata. »

Osservandola così indifesa e malinconica, il ragazzo capì immediatamente di cosa dovesse trattarsi.

« Eri con Spacewalker, non è vero? »

Immediatamente entrambi spalancarono gli occhi, stupidi dalla sua intrepida domanda, e si guardarono per un attimo senza dire una parola.

« Voglio solo dimenticarlo per sempre. »

Un silenzio questa volta abbastanza imbarazzante cadde tra i due, ma Clarke lo interruppe presto: « E credo che questo mio amico qui », indicò con un cenno della testa il bicchiere che teneva stretto nella mano destra, « possa davvero aiutarmi a farlo. »

« L’unica cosa che ti aiuterà a fare sarà vomitare la tua cena. » Commentò Bellamy guardandosi attorno e riportando l’attenzione su di lei l’attimo successivo.

L’espressione sul suo volto era assolutamente comica: le sopracciglia aggrottate, le labbra unite in un’unica linea di perplessità, lo sguardo interrogativo.

« Io credo… Credo di non aver cenato. »  

Lui parve scattare sullo sgabello. « Stai scherzando, Principessa? », La sua era un’espressione di puro terrore, « Vuoi farmi arrestare per omicidio colposo? »

Sentendo quelle parole, la bionda tentò invano di soffocare una risata e si portò entrambe le mani davanti alla bocca.

« Calma, agente, non la metterò nei guai. E io che pensavo fossi un intrepido ribelle! »

Con un gesto secco le tolse il bicchiere di mano e finì il suo contenuto in un unico sorso.

Quando lo poggiò nuovamente sul bancone e puntò lo sguardo nel suo, la trovò con un sorriso di stupore sulle labbra.

« Usciamo di qui. »

Senza attendere oltre, Bellamy la prese per mano e la condusse verso l’uscita.

Clarke sentiva la propria testa girare vorticosamente, ma la stretta forte sulle sue dita le impedì di crollare a terra.

Una volta fuori, fu il suo turno di trascinarlo: lo sorpassò e si diresse verso i tavolini alla loro sinistra.

Non appena si sedettero, uno di fronte all’altra, entrambi parvero accorgersi solo in quel momento delle loro mani ancora intrecciate, perciò dopo un’occhiata da parte del moro, lei si ritrasse e incrociò le braccia al petto.

« Perché non ci siamo ancora urlati contro? » Domandò dopo qualche attimo di silenzio, alzando il volto per osservarlo meglio.

Il maggiore dei Blake accennò una risata e si strinse nelle spalle. Poi, scrutandola attentamente, parlò: « Forse perché discutere con un’ubriaca non è poi così divertente. »

« O forse sei tu quello ubriaco. » Sentenziò la bionda subito dopo, alzando una mano e lasciandola sospesa in aria.

« Sì, certo. Non mi conosci, Principessa. »

« Perché allora non mi ripeti l’alfabeto al contrario? » Lo provocò lei, sollevando un sopracciglio in segno di sfida e alzando il mento verso l’alto.

« Non ne ho bisogno! », Si difese lui, « Sto perfettamente bene. »

« Hai solo paura. Z, Y, X… »

« Smettila! »

« S, R, Q… »

« Sono piuttosto sicuro che ti sia persa qualcosa, ma non mi sorprende nelle tue condizioni. » La prese in giro con un sorriso furbo sulle labbra e una scrollata di spalle.

« Sei solo invidioso. O, N, M… »

Clarke aveva iniziato a muovere le braccia in più direzioni, prima lanciandogli linguacce e poi storcendo gli occhi, mentre la lieve risata di Bellamy le faceva da sottofondo e accompagnava le sue peggiori smorfie.

Non sapeva perché si stava comportando in quel modo: quella era stata una delle peggiori serate di sempre, aveva detto addio all’unico individuo di cui si fosse mai innamorata in diciannove anni di miserabile vita, era rimasta sola gran parte della serata, bevendo e cercando di buttare giù qualsiasi pensiero potesse farla ragionare lucidamente, e ora non riusciva a smettere di fare l’idiota in compagnia del ragazzo più irritante che avesse mai conosciuto, nonché suo vicino di casa da poco più di una settimana e fratello di una delle poche persone a cui fosse riuscita chiaramente a spiegare la propria situazione famigliare.

Sì, insomma, quella cosa doveva necessariamente aver a che fare con l’alcol, non c’era altra spiegazione plausibile.

Si sentiva perfino bene, in un certo senso; si stava rendendo ridicola, sicuramente, ma non poteva fare a meno di abbandonarsi a una risata bassa, controllata, ma pur sempre una risata.

Forse era perché non aveva aspettative, non voleva apparire bella, intelligente e carismatica – così come l’aveva definita qualche ora prima Finn – anzi, per qualche strana ironia della sorte, voleva apparire in tutt’altro modo.

O forse era perché le sue inibizioni s’erano considerevolmente ridotte, spazzate via dal liquido freddo che le aveva bruciato la gola fino a qualche momento prima.

« Devi davvero smetterla », la riprese lui tra una risata e l’altra, in qualche modo stupefatto dall’intera situazione, « mi metti i brividi. »

Clarke spalancò la bocca con espressione stupita e offesa. « E io che credevo di piacerti davvero! »

« Chi l’avrebbe mai detto… » Bellamy fece una piccola pausa e osservò le proprie mani poggiate sul tavolino, poi tornò a guardarla: « La Principessa ha senso dell’umorismo. »

« Non ne hai la minima idea. » Confermò lei sbadigliando e poggiando la testa sulle proprie braccia conserte.

Lui la osservò distrattamente per qualche attimo, cercando in qualsiasi modo di decifrare quella strana ragazza e di capire come fosse veramente, ma fu costretto a interrompere quelle riflessioni a causa di uno sbadiglio che colpì anche lui.

« Penso sia ora della nanna. »

Tirando fuori il proprio cellulare dalla tasca dei jeans, notò l’ora sul display: le due e trentuno del mattino.

Subito iniziò a digitare un SMS per sua sorella e, non appena finì, poggiò il telefono davanti a sé.

Clarke, nel frattempo, si era risollevata e lo stava fissando con una strana espressione sul volto.

« Che c’è? »

« Mi chiedevo… Quanti anni hai, Bellamy? » Domandò lei, sporgendosi sul tavolino e reggendosi la testa con la mano sinistra.

« Ne compirò venticinque a breve. »

« Sei un omaccione! »

Il maggiore dei Blake non fece in tempo a formulare una risposta, poiché il suo cellulare vibrò e si illuminò.

Non vogliamo tornare proprio ora! Possiamo avviarci a piedi fra un po’. Ci vediamo a casa.

Beh, a quanto pareva sua sorella e il suo migliore amico l’avevano piantato.

« Qualcosa non va? » La voce di Clarke, questa volta bassa e calma, interruppe il corso dei suoi pensieri e Bellamy sollevò lo sguardo verso di lei.

« Nessun problema. Andiamo, ti riporto a casa. »

I due si alzarono quasi contemporaneamente, e lui dovette sorreggerla per un braccio quando la bionda inciampò nei suoi stessi piedi.

Scivolando con le dita fino ad arrivare a stringere le sue, le prese nuovamente la mano e insieme si diressero verso la sua auto.

Bellamy voleva davvero dirsi che l’aveva fatto solamente per non perderla di vista o farla cadere, ma c’era qualcosa in lei – qualcosa che era stato in grado di notare solo quella sera – che sembrava attirarlo e respingerlo in eguale misura; magari era il suo sguardo così indifeso e nostalgico, magari era lo stato in cui si trovava, ma il moro percepiva un tale senso di protezione nei suoi confronti da lasciarlo interdetto, meravigliato.

Una volta saliti in macchina, Clarke si tirò il cappuccio della felpa sulla testa e si appoggiò al finestrino, chiudendo gli occhi e abbandonandosi al calore del veicolo.

Il giovane Blake le lanciò una breve e veloce occhiata prima di mettere in moto e guidare, non molto lontano, fino alle loro abitazioni.

Il viaggio durò poco più di dieci minuti e fu estremamente silenzioso; prima che uno di loro potesse dire qualcosa, erano già arrivati.

Notando che la bionda non accennava ad aprire gli occhi, la richiamò due volte lievemente e, quando lei si svegliò, lui stava attraversando la macchina per aprirle la portiera.

« Andiamo, Principessa. »

Si diressero verso la sua abitazione senza dire una parola e, una volta arrivati davanti al suo portico, Clarke infilò la chiave nella serratura e si appoggiò alla propria porta di casa.

« Stai bene? Hai bisogno che ti metta a letto? Sai, devi solo chied… »

« Sto bene. » Con un’occhiata di rimprovero che a lui parve estremamente lucida, la giovane Griffin lo interruppe prima che potesse finire la frase.

L’altro affondò i pugni nelle tasche dei jeans e dondolò sui talloni, percependo una sensazione di attesa e aspettativa scorrergli nelle vene. Per cosa, non avrebbe saputo dirlo.

« Sapevo che saresti stato tu a riportarmi a casa. » Affermò lei con convinzione, puntandogli teatralmente l’indice contro, prima di voltargli le spalle e sparire dietro la porta senza aggiungere nient’altro.

Bellamy non poteva dirsi sicuro di aver compreso il significato di quella frase.







 

Curiosità:


Non essendoci stato detto quale sia il cognome di Atom, ho voluto affibiargli Ward, poiché in effetti è il cognome dell'attore che lo interpreta.


 
  
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