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Autore: SallyLannister    29/07/2014    2 recensioni
Carter era un uomo insensibile e a tratti crudele. Non si curava del prossimo nemmeno per attimo, quando però nella sua vita accadde l'impensabile. Diverse vicende si abbatterono su di lui, rendendo la sua vita diversa da come in realtà il giovane aveva sempre voluto.
Questa è la storia di tradimenti, inganni, menzogne, crimini e sì, anche d'amore.
___ Dal Testo ___
[...] Pianse in singhiozzi mentre il ragazzo la guardava senza la minima espressione sul volto. Aveva visto tante donne piangere, lei era una di loro, non aveva nulla di particolare.
Senza degnarla di uno sguardo la lasciò sul letto a piangere e infilandosi un paio di pantaloncini si diresse verso la finestra, arrampicandosi per ritrovarsi sulle scale antincendio del palazzo.
Dopo vari istanti i singhiozzi cessarono e la porta di casa sbatté.
Carter trasse un lungo e intenso sospiro, finalmente era finito tutto.
Genere: Drammatico, Erotico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
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CAPITOLO 6
 


Moscow; 26 anni prima.
Orfanotrofio di Kirov.
 

Il rumore della campana e dopo di esso un pianto disperato, fu ciò che svegliarono Miss Maslov nel cuore della notte.
La donna allora direttrice dell’istituito di Kirov in Russia, si precipitò giù dal letto per andare a soccorrere la povera creaturina che era stata abbandonata proprio quella notte.
Miss Maslov era una donna rigida in apparenza, ma in realtà era la più dolce delle donne. La sua facciata era sempre impeccabile, voleva mostrarsi a chiunque in perfetto ordine, quando poi nel profondo del suo cuore vi era talmente tanta tenerezza che al mondo non ci sarebbe stato bisogno di nulla, se fossero state tutte come lei.
La donna era alta con folti capelli grigi, elegantemente raccolti in una croccia assicurata sul retro della testa da un’infinità di mollettine e fermagli. Le labbra sottili erano sempre distese in un’espressione di disappunto e gli occhi erano anch’essi triati in una strana espressione che nessuno riusciva mai a decifrare.
Ogni qualvolta qualcuno bussava alla campana, ella stessa si precipitava ad accogliere il futuro ospite della sua casa, non che si potesse propriamente chiamare così. L’orfanotrofio, uno dei più grandi a Mosca si ergeva al centro di un piccolo e umile borgo di città che nella stagione invernale era quasi sotterrata dalla neve.
Le mura erano alte, quasi come se volesse assomigliare a una prigione, probabilmente lo era dato che era costruito sulla base di un castello risalente all’età medievale. Le sale erano di pietra, così anche i pavimenti, mentre nei giardini vi era la presenza di spaventose e quasi inquietanti statue anche elle medievali.
Il rumore delle scarpe sul pavimento di pietra era tutto ciò che si sentiva quella notte, nessuno si era svegliato a parte lei, voleva prendersi cura di tutti i bambini possibili, finché lo spazio glielo concedesse.
Raggiunse il maestoso portone di quercia e con un po’ di aiuto da parte dell’inserviente di turno, riuscì a scostare la porta rivelando una persona incappucciata che reggeva fra le braccia un piccolo fagottino che scalpitava irrequieto. Il cuore della donna si sciolse, era sempre così toccata da bambini che erano abbandonati così piccoli.
«Hai intenzione di lasciare qui questa povera creatura? » Sussurrò la donna, che nella notte però quel suo sussurrò, era chiaro e netto come se avesse proferito ad alta voce.
La figura incappucciata per via del vento gelido che tirava quella notte, fece un passo in avanti, scostandosi il cappuccio di pelliccia e mostrando il suo viso così giovane, rigato dalle lacrime.
«Cara, hai bisogno di sederti un attimo? » Chiese allarmata Miss Maslov affrettandosi a raggiungere la donna e prelevare il piccolo fra le braccia della ragazza.
La figura che prima era incappucciata affidò il piccolo fra le braccia dell’istitutrice e quest’ultima osservò il piccolo. Non aveva nulla che non andava, era un bambino piccolo e piangeva a più non posso. Dai suoi occhi socchiusi riuscì a notare quel colore glaciale che era così bello e allo stesso tempo così puro. Si stupì nel notare che era un bambino completamente sano; solitamente erano abbandonati bambini con strane malformazioni o perfino alcune volte, bambini in punto di morte.
Maslov fece un cenno con la mano e l’inserviente di turno si affrettò a chiudere il portone dietro le due donne, così furono completamente al riparo della tempesta che si stava aizzando quella notte.
La ragazza si tolse del tutto il mantello e la donna notò immediatamente che i suoi abiti non erano per niente lerci o malandati, anzi erano fin troppo costosi perché lascino pensare che fosse una zingara. Il suo lavoro però le impediva categoricamente di chiedere l’origine dei genitori dei piccoli affidati a loro.
«N-non p-posso tenerlo. » Singhiozzò la donna incappucciata – che chiameremo Miss X -.
Maslov intenerita da quella situazione cercò di calmare sia il piccolo sia, era riposto fra le proprie braccia che la giovane, che aveva trovato sostegno su una sedia appena dopo l’ingresso dell’orfanotrofio.
«Mio padre ha detto che lo avrebbe ucciso. » Miss X continuava a farneticare, aveva un’espressione impaurita e il suo corpo era completamente infreddolito, non smetteva per un attimo di tremare e di piangere.
«Ti va di raccontarmi cosa è successo? » Miss Maslov si apprestò a rincuorare la ragazza, facendo portare da un altro inserviente qualcosa di caldo per farla calmare almeno un po’, non poteva agitarsi aveva bisogno che fosse lucida per firmare le carte permettendo all’istituto di affidarlo a qualche casa.
Miss X si strinse fra le proprie braccia e cominciò a dondolarsi sulla sedia e Maslov capì che la cosa era più grave di quanto pensasse.
Dopo vari istanti arrivò anche l’assistente di Miss Maslov; Miss Perners, una donna dolce e sensibile che era pronta a tutto per i bambini del suo istituto. Perners prese il piccolo ancora piangente fra le braccia di Maslov e cercò di calmarlo, stringendolo fra le proprie braccia e cullandolo, intonando anche alcuni versi di una canzoncina che la madre le cantava da piccola. Una volta assicurate che il piccolo avesse le cure giuste, Maslov si dedicò interamente alla madre del piccolo.
«Va tutto bene. Ci occuperemo noi del tuo bambino. » La rassicurò l’istitutrice con una voce dolce e soave, accarezzando il braccio della ragazza, che era bagnato di lacrime.
Miss X alzò lo sguardo, mostrando gli occhi glaciali come quelli di suo figlio gonfi e rossi di pianto; quella poverina aveva sofferto veramente tanto.
«Mio padre mi ha violentata… lui è tutto ciò che ho. » Alzò lo sguardò per guardare il suo piccolo fra le braccia di Pranse e scoppiò nuovamente in un pianto che sembrasse non avere fine.
Le due donne si guardarono e sospirarono, Parnes scosse il capo e liberando una mano si asciugò delle lacrime che le rigarono la guancia, mentre Maslov si rivolse alla ragazza.
«Vuoi che chiami la polizia? Se hai paura di tuo padre, ci penseranno loro così puoi tenere il piccolo. »
La ragazza quasi come se avessero detto un’eresia si alzò dalla sedia e si gettò contro il muro in preda al panico, accasciandosi poi contro di esso.
«NO! Vi prego non chiamate nessuno, mio padre mi uccide. Vi prego. » Urlò ancora una volta in preda alla disperazione.
Entrambe le donne non sapevano cosa fare con la ragazza, non erano nella posizione di muoversi né in quella di sentenziare una soluzione, potevano semplicemente prendere il piccolo e prendersene cura. Per quanto erano, entrambe rammaricate non sapevano come avrebbe reagito la famiglia della ragazza a una loro denuncia. Così decisero di lasciar che la giovane affrontasse il proprio destino senza poter fare nulla per lei.
 
Il portone si chiuse dietro la figura della donna incappucciata, che dopo essersi calmata e firmato, le carte per l’adozione sparì lasciando detto che non avrebbero dovuto mai raccontare la storia al piccolo, preferendo che elle dicessero che la madre lo aveva abbandonato su un marciapiede. Miss Maslov e Perners non potevano fare una cosa così meschina e cattiva a un povero bambino, che fondamentalmente non aveva nessuna colpa, ma da regolamento erano obbligate a mantenere l’anonimato dei genitori qualora egli lo ritenessero opportuno.
Perners aveva ancora fra le braccia il piccolo Carter – così Miss X aveva pregato di chiamare il piccolo, poiché era il nome della persona che ella amava follemente – lo guardava con un’aria affranta e triste, avrebbe sicuramente pianto una volta giunta nelle sue camere, ma non voleva farsi vedere dalla sua superiore così debole d’animo, così stampandosi un’espressione dura sul viso, trattenne le lacrime.
«Poveri bambini. Hanno avuto la sfortuna di nascere in famiglie così disastrate. » Maslov pronunciò quelle parole più a se stessa che alla sua collega.
Avevano posto il piccolo nel nido, ove vi erano anche altri bambini molti più grandi di lui. Appena depositato fra candide lenzuola bianche e coperto con una copertina leggera, il piccolo si addormentò subito.
«E’ necessario raccontare al piccolo che la madre l’ha abbandonato su un marciapiede? » Domandò Perners mordendosi appena il labbro inferiore. Era in combutta con la sua coscienza, il bambino sarebbe cresciuto sicuramente con dei disturbi e carenze di affetto.
«Se questo lo segnasse per tutta la vita? » Domandò allarmata sempre fissando il piccolo che ormai riposava beato nella culla.
«Non succederà, ci prenderemo noi cura del piccolo. Sarà amato e coccolato finché non troverà una casa che lo accolga con il calore che merita. » Convenne Maslov fiduciosa nelle sue stesse parole.
 
 

***
 
 


Moscow; 17 Anni prima.
Orfanotrofio di Kirov.
 
 

«Giù dal letto! » Un urlo gli arrivò alle orecchie, facendo sobbalzare Carter durante il sogno più bello che avesse fatto da che ne aveva memoria.
Stava sognando se stesso in un’altra casa, in una casa su una collina e circondata da un laghetto dove vi erano tanti di quei pesci rossi e lui si stava divertendo un mondo a pescare con un legnetto. Sfortunatamente però quel sogno era solo per l’appunto solo un sogno. La realtà era bensì un’altra e sicuramente meno piacevole.
I suoi occhi chiari impiegarono vari istanti prima di mettere a fuoco la vista, filtrando i raggi del sole che penetravano dalla finestra cui erano state tirate le pesanti tende. Era una di quelle rare giornate di sole, e tutti i bambini erano eccitati all’idea di uscire in giardino a giocare.
«Giù dal letto! » Quella voce stizzita urlò di nuovo e questa volta una mano gli afferrò un piede tirandolo giù dal letto, facendolo cadere con la faccia sul pavimento. Le risa generali si riversarono in quella camera, mentre tutti i suoi compagni di camera ridevano a crepapelle per la sua caduta.
S’issò a sedere, portando una mano sulla fronte e massaggiandosi un punto dove sicuramente sarebbe nato un bernoccolo, quando una mano si allungò dinanzi a lui, comparendo nel suo campo visivo.
La mano era piccola e delicata e sapeva già a chi apparteneva: Annabeth.
Carter si alzò da solo, non voleva dare soddisfazione a nessuno, meno che a quei bulletti che si divertivano a fargli i dispetti che lui abilmente ricambiava con i peggiori modi, tipo mettere animali morti nel letto; per quei motivi era spesso messo in punizione, spedito a letto senza cena.
«Prendi la mia mano. » La voce di Annabeth era come una dolce melodia, così bassa e dolce che sembrasse una sinfonia di qualche compositore famoso. La bambina lo guardava speranzosa, in attesa che egli le afferrasse la mano, ma ciò non avvenne. Si alzò con le proprie forze, facendo leva con le ginocchia sbucciate e piene di graffi.
«Riesco da solo, grazie. » Disse in tono fin troppo rude per un bambino di nove anni.
Era cresciuto per tutto quel tempo completamente da solo, senza l’affetto e l’amore di nessuno, considerato dagli altri bambini lo scarto della società, poiché si raccontavano storielle dicendo che la madre di Carter era una prostituta e suo padre poteva essere un uomo qualsiasi.
Non era stato sempre così però, nei primi anni della sua infanzia, egli era stato accolto e coccolato da quelle due istitutrici che gli avevano fatto da madre: Maslov e Perners. Sfortunatamente elle morirono in un incidente d’auto quando Carter aveva tre anni. D’allora avevano occupato il loro posto due arpie che erano peggio di Satana in persona, due sorelle perfide ed egoiste che si divertivano a screditare il piccolo Carter davanti a tutti e incoraggiavano perfino la violenza nei suoi confronti.
Carter era maltrattato continuamente, finché non smise di essere il centro dell’attenzione delle cattiverie e venne semplicemente ignorato, lasciato alla sorte.
Restava per tutto il tempo da solo, in un angolo a giocare e parlare da solo, covando rabbia verso chiunque essere umano; per n on parlare delle persone che si presentavano all’orfanotrofio per adottare i bambini, lui veniva scartato a priori. Inizialmente attendeva con ansia il momento della sua adozione, fino a perdere completamente fascino per quest’ultima. Insomma chi avrebbe mai portato via un bambino che era per il 70% coperto da lividi e sempre con l’espressione funerea.
I comportamenti che aveva di certo non aiutavano la sua posizione, anzi la aggravarono ancora di più. Sulla sua scheda venne inserita una voce che diceva: “Bisognoso di continue attenzioni” cui si susseguirono tante altre fino a che non dovettero aggiungere un ennesimo foglio, perché il precedente era terminato, corredato il tutto con il referto dello psicologo che chiedeva di somministrare dei tranquillanti al piccolo.
Carter si preparò in fretta per uscire in giardino, non che volesse passare del tempo con i suoi compagni ma perché si divertiva a martoriare povere lucertole che era consueto a rincorrere per tutto il giardino. Annabeth l’era sempre alle calcagna, odiava la sua presenza ma lei imperterrita non si smuoveva nemmeno per un attimo.
Restava seduta per ore nei pressi di dov’era seduto Carter giocando con i suoi lunghi capelli rossi, mentre i bambini si divertiva a costruire armi con i legnetti che trovava.
«Perché mi segui sempre? » Le domandò Carter quella stessa mattina, una volta raggiunto il giardino sprofondando ai piedi di un enorme albero, era come se l’albero avesse creato con le radici un luogo dove il ragazzino potesse sedervi e occupare posto tranquillamente, quasi nascosto dal resto della comitiva.
«Voglio giocare con te. » Gli aveva risposto semplicemente la bambina raggiungendolo per accoccolarsi accanto a lui.
Carter la guardò male e le diede una spinta, per esortarla a spostarsi da lui, ma invano, Anna non aveva intenzione di muoversi.
«Io non voglio giocare. »
«Tutti vogliono giocare. Tu sei sempre qui da solo. » Pronunciò l’ultima frase con un’espressione triste e sconsolata, abbassando il capo quasi come se la colpa della sua solitudine fosse di se stessa.
Carter alzò il viso e rendendosi conto che la sua compagna – forzata – era triste, cercò in qualche modo di farla ridere, facendo una smorfia buffa. La ragazzina rise e si nascose subito il viso fra le mani, imbarazzandosi subito. Per un momento il bambino ne fu intenerito, tanto che ella ne approfittò per appoggiare la testa sulla spalla, sfiorando con la sua manina piccola e vellutata quella di Carter. Trasalì per via di quel gesto, che gli fece accapponare la pelle. Divenne irrequieto, non aveva mai avuto un contatto così stretto con una persona prima d’ora. Era spaventato come se lei da un momento all’altro lo picchiasse, ma nulla di ciò accadde lei si limitò a tenere la testa china sulla sua spalla e stringere le dita fra le sue sospirando beatamente.
Il cuore di Carter cominciò una corsa scomoda, lo sentiva martellare così forte che per un attimo credette che stesse per morire, era troppo per lui e non poteva sopportarlo.
«Devo andare. » Si alzò così in fretta che Anna non ebbe nemmeno il tempo di alzarsi per proferire parola che lui già era sparito via.
Mentre correva verso l’interno dell’istituto, il suo cuore continuava a battere così forte che non seppe come fermarlo, aveva paura per quel strano e nuovo contatto che aveva avuto con un essere umano e questo gli bastò per convincersi che mai nessuno l’avrebbe più toccato in quel modo.
 
 




Probabilmente con questo capitolo mi avete odiata xD Ma io amo Flaschbeckkare (?), ritenevo opportuno inserire un pezzo di vita passata di Carter per trasmettere al lettore – a voi in questo caso – quanto i rapporti umani, che noi siamo abituati a ricevere fin da piccoli, siano in realtà terribili per Carter. Mi sembra sempre di non riuscire a descriverlo bene, e non di non riuscre a far capire la sua natura e la sua psicologia.
Tutto ciò che ho scritto, è puro frutto della mia immaginazione, non fa riferimento a nessun fatto realmente accaduto o persone reali. Ho semplicemente preso il nome di un orfanotrofio in Russia, ricamando la mia storia su quest’ultimo.
Con l’atteggiamento delle due istitutrici ho toccato un argomento un po’ delicato, quando entrambe lasciano che la ragazza viva nel terrore scegliendo volutamente di non chiamare la polizia, mi sono attenuta a un principio che purtroppo rispecchia la realtà, nessuno si sarebbe immischiato in questioni così “delicate”, anche se ciò è stato un atteggiamento immorale, ma specifico che era decisamente voluto.
Grazie ancora a voi che leggete, io sto amando questa storia (poiché oggi l’ho aggiornata tre volte xD) spero che qualcuno sia appassionato quanto lo sono io.
Un bacione e un abbraccio a tutti!
I feedback sono sempre ben accetti le critiche costruttive soprattutto. Non si finisce mai d’imparare.
- Sally.
 
   
 
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