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Autore: ermete    30/07/2014    3 recensioni
Questa sarà una raccolta di diversi tipi di flash fic: le prime 3 sono reaction-fic alla terza stagione, mentre le altre saranno storielle scemine ispiratemi da gif e fanart varie. Sarà spessissimo presente il tema degli animali (Sherlock gatto per la maggiore XD). Accetto eventuali prompt! Nel capitolo 1 sposterò l'indice :3
Note: johnlock e tomcroft forever
Genere: Generale, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: AU, Raccolta, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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Sherlock le aveva passate proprio tutte.
Un’infanzia solitaria, la morte del suo adorato RedBeard, la partenza di Mycroft per il college.
Quindi un’adolescenza difficile, risse e insulti. La cocaina.
Poi c’erano stati i casi a risollevarlo un poco, così come l’arrivo di John. Ma cosa c’è di peggio nell’avere finalmente qualcosa di veramente importante se poi si finisce col perderlo?
Sì, perché poi c’erano stati Moriarty, gli anni lontani da Londra ed un lentissimo riavvicinamento con John risoltosi col suo matrimonio.
Matrimonio. Il matrimonio con Mary, l’ennesimo problema. A cui era collegato Magnussen, poi il tradimento di Mary e il difficile perdono di John.
Dunque l’omicidio di Magnussen e, come se non tutto ciò non fosse bastato, l’emulatore di Moriarty.
E ultima, ma non per ordine di importanza, la nascita di Joy che lo aveva ancora una volta diviso da John.
Un John che era ancora rotto dentro per il tradimento di Mary, ma che tentava di tenere uniti i cocci per amore di Joy.
John. Che forse lo amava a sua volta, ma non si poteva dire ad alta voce.
E Sherlock, sempre più in disparte, sempre più perduto, che riesce a mantenere le apparenze nel mondo esterno, ma a casa… a casa è un incubo.
Così cerca sempre nuovi hobby per ingannare lo spazio ed il tempo che deve vivere senza John all’interno del 221B. Sia passatempi di cui possegga un reale talento come la musica, che quelli in cui è totalmente negato come la pittura.
Ha scoperto che la pittura è qualcosa di contemplativo che lo aiuta ad insonorizzare le pareti della casa e ad immergerlo in un mondo nuovo che ha il piacere di esplorare. Soprattutto se viene aiutato da una soluzione al sette percento di cocaina.
Sono giorni, ormai, infatti, che si chiude della stanza di John, che ha coperto con enormi teloni bianchi, e pasticcia una tela con colori caldi. E quando è inebriato da quell’alcaloide in forma liquida non usa più i pennelli, preferendo percepire la consistenza densa e viscosa della pittura non diluita sui polpastrelli, giocando con la tela, disegnando ciò che nella sua mente è chiaro come una fotografia, ma che sulla tela si traduce sotto forme di sinuose curve colorate.
Usa colori caldi per disegnare le dune del deserto afghano e impiega un giallo pallido per disegnare John che, però, non è impegnato in una guerra faticosa e dolorosa, bensì si impegna a sorridergli e a rircordargli le loro avventure passate assieme.
Una volta arriva a pasticciare la tela per tre giorni di fila senza mangiare, bere e dormire, aiutato dalla cocaina e dalle allucinazioni in quel sogno senza fine che lo spinge a sorridere a quel John che è sempre più vivido all’interno della tela. Così vivido che a Sherlock sembra di vederlo uscire da quel cencio così pitturato che è spesso almeno mezzo centimetro. E si allunga, Sherlock, verso quel John che esce dal suo personalissimo quadro e gli va incontro per baciarlo.
Ed è così fulgida la sensazione di quel tocco sul viso e sulle braccia, che Sherlock non si accorge che, nel mondo reale, John, il vero John, è entrato in camera sua e lo sta staccando dalla tela.
“Sherlock. Gesù, Sherlock, come sei ridotto…”
Sherlock che, sporco di tempera anche sul viso e, molto probabilmente anche dentro la bocca, impiastriccia il viso e i vestiti del vero John nel momento in cui gli sviene addosso.
A quel punto tutto è buio. Non ci sono più la tela e i colori caldi del deserto. Non ci sono più i chiaroscuri, le luci e le ombre.
C’è solo la voce di John che lo chiama da lontano e a cui non riesce a rispondere.
 
 
 
Sherlock viene svegliato da un brivido di freddo e impiega qualche istante a capire la logistica della sua attuale collocazione nello spazio e nel tempo.
Apre bene gli occhi e, dopo aver messo a fuoco ciò che ha di fronte a sé, tossisce le poche gocce d’acqua che gli sono entrate in bocca. Ma è proprio l’acqua ad avergli permesso di riacquistare la lucidità necessaria per capire di essere dentro la vasca da bagno: l’acqua è aperta ed arriva dal telefono della doccia il cui lungo tubo è stato fissato in alto. Ha addosso i vestiti che ora, oltre ad essere sporchi di vernice, sono anche bagnati ed appiccicati alla propria pelle.
Abbassa lo sguardo ed oltre a vedere i colori a tempera colorare ciò che rimane del fondo della vasca, trova un altro paio di braccia giacere sulle proprie gambe, per poi muoversi, alzarsi e cercare di ripulirlo.
“John?”
L’altro paio di braccia si ferma di scatto, per poi posarsi sul torace ed accompagnarlo leggermente in avanti.
“Sherlock.”
Sherlock ruota il capo appoggiato alla spalla buona di John e sorride debolmente al dottore.
“John. Sei uscito dal quadro.”
John approfitta dei movimenti di Sherlock per pulirgli il viso: non usa la spugna, preferendo accarezzargli con i palmi delle mani le guance, il mento, il naso, la fronte e le labbra. Si sofferma su quest’ultime, facendo slittare l’ultima falange di indice e medio dentro la bocca di Sherlock.
“Sì. Sono uscito dal quadro” mente John, perché non sa ancora come chiedere scusa a Sherlock per tutto ciò che gli ha fatto e perché vuole vedere e sentire ciò che l’altro stava facendo con quella tela pensando che fosse lui.
Sherlock sorride di grazia e autentica gioia, quindi si gira, seppur a fatica, con tutto il corpo facendolo aderire a quello di John: gli prende il volto tra le mani e lo studia mentre l’altro lo guarda.
John lo guarda, vede quel sorriso così semplice e al tempo stesso pieno di aspettative e gli si stringe il cuore. Così gli va incontro, inconsapevole di aver fatto lo stesso anche nella tela, nella fantasia di Sherlock, e appoggia le labbra su quelle di lui, saggiando il suo sapore e un vago sentore di tempera, gustando il suo amore e la sua devozione, leccando via la tristezza e la malinconia che si sono impossessati di lui.
Sherlock mugola e stringe le braccia attorno al collo di John così forte che i vestiti appiccicatisi addosso dall’acqua iniziano a tirare. Lo stringe come se ne andasse della loro stessa vita, nella speranza che un potere superiore al quale neanche crede possa imprigionare quel momento in una tela che li unisca per sempre.
“Ti amo, John.”
Al che John si ferma di colpo. Non che non lo sapesse, certo, ma sentirlo dire ad alta voce è tutta un’altra cosa. Si ferma e prende nuovamente le guance di Sherlock tra le mani, osservandolo a fondo.
“Ti amo anche io, Sherlock” confessa ed è un giuramento così forte da poter essere percepito fisicamente “Ti amo più della mia stessa vita.”
“Lo so” sorride Sherlock “Finalmente me lo hai detto.”
Ma lo sguardo annebbiato che ha di fronte, suggerisce a John che Sherlock non sia ancora lucido del tutto. Quindi gli scosta i capelli da viso e aspetta che lo metta a fuoco al meglio, che le pupille non siano più dilatate come prima.
“Sherlock sono io. Sono il vero John, non quello del quadro.”
Sherlock apre e chiude gli occhi rapidamente, segno che abbia effettivamente messo a fuoco il viso di John. Si guarda attorno e finalmente capisce sul serio di essere nella vera vasca del suo vero bagno assieme al vero John. E va in panico, vorrebbe scappare dalla vasca, ma John lo tiene.
John lo tiene perché ha deciso che non vuole più lasciarlo andare. Che il motivo sia serio o banale, non vuole più permettere a se stesso di lasciarsi scappare Sherlock.
“Sherlock, ti prego. Perdonami” e lo ripete all’inifinito, stringendolo e nascondendo il viso nel collo dell’altro.
Sherlock spalanca gli occhi e non può davvero resistere a John. Lo stringe a sé e non ha bisogno di rispondergli a voce, decretando con un lungo bacio che sì, lo avrebbe perdonato. Perché lui non può fare a meno di John, perché aspettava quel momento da anni, perché la sua vita, ora, avrebbe riacquistato nuovamente un senso.
Si alzano a fatica appesantiti dall’acqua, ma alla fine riescono a spogliarsi e a ripulirsi completamente dai colori caldi che si confondevano con la pelle di John e che, invece, risaltavano su quella più chiara di Sherlock. E dopo essersi avvolti in due coperte di lana, si siedono per terra davanti al fuoco, accompagnati da alcuni cuscini e da due tazze di tea fumante.
John spiega a Sherlock che le cose con Mary vanno male da molto tempo ormai e che il divorzio è ormai l’ultima formalità da compiere. Poi gli racconta di Joy, di volerla con sé, di volerla strappare a Mary prima che la porti via con sé in qualche angolo sperduto del mondo.
“Se per te è un problema, vivremo in due case separate.”
“Non dire sciocchezze, vi voglio entrambi qui.”
John sorride alla risposta di Sherlock e si muove verso di lui. Prova a spingerlo per terra e, quando ci riesce, si sdraia sopra di lui. Quando lo sente ridacchiare, non resiste all’impulso di baciarlo sulle labbra.
“Possiamo fare l’amore?”
Sherlock sorride a quella domanda e si domanda se davvero necessiti di una risposta.
“John Watson, sei serio? Me lo stai chiedendo veramente?”
“Perché? Non vuoi?”
“Non credevo si dovesse chiedere il permesso se entrambi le parti sono consenzienti. Ed è ovvio che io lo sia. Proprio come te.”
“Beh… almeno la prima volta si dovrebbe chiedere. Penso.”
Sherlock non riesce a smettere di sorridere. Non lo ha mai fatto così tanto in vita sua.
“Insegnami a fare l’amore, ti prego.”
Nel dirlo, Sherlock libera i lembi di coperta che ancora tiene tra le dita e fa scendere quella che copre John oltre le sue spalle, la sua schiena, le sue natiche che poi afferra gentilmente ed inizia a massaggiare.
John si solleva da Sherlock il tanto che basta per liberare entrambi da ciò che rimane di quelle calde coltri di lana ed osserva il corpo nudo dell’altro con eccitazione mista a dolcezza e curiosità. È inevitabilmente eccitato di fronte alla perfezione di quel corpo marmoreo che toglie il primato alle statue classiche solo perché quel corpo, effettivamente, è vero, di carne e ossa, caldo e reattivo sotto le sue mani e le sue labbra. E non può non spingersi già contro di lui in cerca di una frizione che è quasi dolorosa da quanto è stata attesa e bramata in tutti quegli anni di stupida negazione.
Le mani di Sherlock risalgono lentamente sulla schiena di John, poi sulle spalle e infine sulla nuca che spinge contro il proprio viso in cerca di un altro bacio, questa volta più affamato e frenetico che si interrompe a tratti, a tempo col proprio respiro che è reso più pesante dall’eccitazione. E divarica istintivamente le gambe per chiuderle attorno ai fianchi di John alla ricerca di ulteriore frizione, di maggiore contatto tra le loro pelle che, tornate asciutte da pochi minuti, si inumidiscono nuovamente, questa volta di sudore e di umori e si mischiano tra loro creando la fragranza perfetta.
John insinua una mano tra i loro ventri ed afferra le due erezioni attorno alle quali si muove velocemente, a ritmo coi respiri e coi gemiti che si fanno sempre più frequenti e concitati. Apre gli occhi per osservare il viso di Sherlock, quella magnifica bocca a forma di cuore che è aperta alla disperata ricerca di aria e che copre con la propria, incapace di resistere a quel richiamo.
Sherlock trova quell’ulteriore sottrazione di ossigeno ancor più eccitante e si impone di trattenere il fiato ancora un poco, il tanto che basta per raggiungere assieme a John un orgasmo atteso da così tanto tempo che non sembra credere che sia reale. E per un attimo lo dubita sul serio, almeno finché non sente John crollargli addosso e ribadirgli nuovamente che lo ama, che lo farà per sempre e che non permetterà più a nessuno di dividerli. Allora riapre gli occhi e rilassa i muscoli tesi, circondando la testa di John con entrambe le braccia.
“Non ti sarà più permesso andartene via, John.”
“Non voglio farlo.”
Sherlock non permette a John neanche di smontare da sopra di lui, ma gli concede di coprirsi la schiena con una delle coperte abbandonate a lato.
“Sei meglio del John dentro al quadro.”
“Sono un po’ geloso di quel quadro. Quando sono entrato nella stanza lo stavi baciando.”
“Sei geloso anche ora che sai che dentro al quadro c’eri tu?”
“Sì.”
Sherlock ride e dopo essere riuscito a fuggire dalla presa di John, sale in camera a recuperare la tela impiastricciata in precedenza. Si siede accanto a John ed ora che la osserva con lucidità può notare un enorme miscuglio di colori e curve senza senso, ben lunghi dal raffigurare anche solo lontanamente il volto di John.
“Dovevi essere tu. In Afghanistan.”
John ride leggermente.
“Beh, i colori ci sono. Ma io sono decisamente più bello.”
Sherlock si unisce alla risata e pian piano inizia a smontale il cencio dal telaio di legno sulla quale è fissata e, una volta concluso il lavoro, butta la stoffa nel fuoco e lo scheletro della tela in un angolo a caso del salotto.
“Così non avrai più alcun motivo di essere geloso di un John che non esiste.”
John lo afferra per il busto con lo scopo di farlo sdraiare nuovamente accanto a sé.
“Non userai mai più alcun tipo di droga. Non con Joy in casa. E inoltre non avrai più motivo per farlo.”
Sherlock annuisce e si lascia catturare dall’abbraccio di John.
“La camera di sopra sarebbe perfetta per Joy.”
“La dipingerai tu. Ma nessuno sfondo afghano, per favore.”
“Accetto suggerimenti.”
“I tuoi sogni che colori hanno?”
Sherlock osserva John e sorride prima di baciargli le labbra.
“C’è il blu di un cielo che, dopo aver visto mille tempeste, è tornato limpido. C’è il colore del grano in primavera, ancora acerbo, non completamente dorato…”
John allarga le labbra in un sorriso mentre ascolta la descrizione dei diversi colori che Sherlock gli decifra addosso e si lascia cullare dal calore del fuoco che, alle sue spalle, brucia e diffonde un odore acrilico, artificiale, fittizio, così lontano da ciò di reale che si è finalmente concretizzato tra lui e Sherlock.
“E in tutto questo” chiede dunque “C’è posto per il nero corvino di una magnifica creatura del colore del marmo posata in mezzo a questo famigerato campo di grano?”
“In un sogno c’è posto per tutto ciò che si vuole.”
“Io voglio che ci sia.”
La statua di marmo dai capelli corvini sorride, nel mondo reale, e si china per intingere le labbra sulla dolce e quanto mai vivida distesa di grano per saggiarne il sapore ancora una volta.
“Come desideri.”
 

 

   
 
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