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Autore: Alex Wolf    31/07/2014    6 recensioni
ATTENZIONE: AVEVO IN PRECEDENZA DECISO DI INIZIARE UNA NUOVA STESURA DI QUESTA STORIA, IN SEGUITO HO DECISO CHE CONTINUERO' QUESTA!
«Eleonora. Isil. Hai perso i tuoi nomi non appena sei morta e sei caduta qui, nelle mie lande» spiegò placidamente lui, giocando con un grosso anello in cui vi era incastonata un’ambra. Dello stesso, identico colore dei suoi occhi. «Hai rinunciato a loro per sempre nell’esatto momento in cui hai accettato di divenire mio Generale. Perciò, era mio dovere sceglierti un nome, e quale più si adirebbe a una donna della tua fama –che ha cavalcato draghi; vinto battaglie; ucciso uomini e sedotto il Signore di Mordor- più che Morwen? La Dama Oscura?»
Genere: Fantasy, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Legolas, Nuovo personaggio, Thranduil, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Ehi ragazze, ciao. Allora, comincio col dirvi che inizierò a scrivere in prima persona dalla parte di Elanor da questo capitolo. Perciò, spero vi piaccia.
 


Storia d’inverno
 


“Il desiderio di te era più forte di qualsiasi felicità.”
 




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C’è un senso di vuoto che opprime tutte le persone che perdono qualcuno che hanno amato da un momento all’altro. C’è questo peso che sembra crollarti sulle spalle e spingerti verso il basso, giù, giù finché non crolli e lasci che il dolore ti abbracci come un vecchio amico. Lo lasci cullarti la notte, lasci che le lacrime cadano sul cuscino e che i tuoi singhiozzi vengano trattenuti dalle coperte. E’ tutto così strano. Ricordi la persona che non c’è più e solo allora ti accorgi di quanto era importante per te, di quando sentirai la sua mancanza ora che non c’è più.  Ma perché?
Già. Perché? E’ una cosa che mi ero chiesta più volte quella mattina grigia, mentre vagavo in camicia da notte tra i corridoi di casa sperando di sentire mia madre urlarmi dietro di andare a vestirmi. Con vestiti femminili che non comprendessero arco e frecce, possibilmente. E invece non era arrivato nessuno a mandarmi in camera, a impartirmi quegli ordini con nella voce l’accenno di una risata da mamma.
Dov’è la mia mamma? Non c’è più. Ora che ho bisogno di lei, che voglio uno di quegli abbracci che ho sempre rifiutato o dato di fretta, ora che vorrei sentire il suo profumo, il calore del suo corpo lei non c’è. E non ci sarà mai più.
Perché è successo tutto questo? Mi domandai mentre restavo ferma in mezzo a uno dei tanti corridoi bui. Perché siamo in guerra e in guerra la gente muore, mi rispose una vocina nella testa. Perché è morta proprio lei? A questo non mi risposi, perché la risposta avrebbe potuto farmi molto male.
Perché combatteva per i suoi figli. Perché combatteva per tenerti al sicuro. Mi ritrovai a dire, con il cuore che martellava forte nel petto e il corpo che iniziava a tremare. Sono una masochista, conclusi.
Ingoiai un fiotto di saliva e tornai sui miei passi. Perché pensavo ancora a lei? Era passata una settimana ma il dolore che sentivo al petto non era diminuito. Si attenuava solo la mattina quando aprivo gli occhi, e la luce grigia delle nuvole che annunciavano l’arrivo imminente dell’inverno mi si rivolgeva contro. Solo in quegli attimi di dormiveglia nessun tipo di dolore calava su di me, e io ero in pace con il mondo. Poi la verità mi veniva schiaffeggiata in faccia quando in sala da pranzo il posto di mamma restava vuoto e accanto a lei quello di papà. E questo rendeva le cose ancora più difficili. Perché era come se lei fosse li, una presenza conosciuta, sicura e confortante, ma al tempo stesso fuggevole e invisibile. Perché non passava tutto questo? Perché non potevo svegliarmi una mattina e scoprire di aver sognato? Perché la vita è dura e ti mette alla prova, e non gli frega niente se stai male. Lei non cambia, devi cambiare tu. Non ero abituata a provare dolore, i miei genitori gli avevano sempre vietato di attanagliarmi fra le sue grinfie, ma adesso era come se mi ci fossi buttata io contro, con tanto di braccia aperte. Era tutto così strano.
Mio padre non si era fatto vedere per una settimana. E se era stata dura senza mia madre, che non sarebbe tornata mai più, senza mio padre era un’agonia. Non avevo avuto nessun sostegno a cui aggrapparmi, se non i miei fratelli che avevano fatto quello che potevano. Ma anche loro erano umani, fatti di carne ossa e sentimenti e non erano di ghiaccio. In quei giorni avevamo fatto un po’ a turno per sostenerci. C’erano quei momenti in cui tutto sembrava normale, in cui facevamo ogni cosa quotidiana senza esitare. E poi c’erano quei momenti in cui qualcuno ricordava e allora iniziava a piangere e, sebbene provasse a nasconderlo, rendeva solo le cose più difficili a tutti. Persino il nonno aveva versato una lacrima. Una, ma era meglio di nulla. Significava che la mamma era stata qualcosa anche per lui dopotutto.
Mi strinsi nell’accappatoio di seta bianco che portavo e mi gettai in una stanza a caso. Il buio mi avvolse di nuovo, mentre mi avventuravo vero il letto a tentoni. Da fuori riuscivo a vedere la luna che brillava nonostante le nubi grigie glielo volessero impedire. Mi chiesi se mamma si trovava su una di quelle. Pensiero sbagliato. Calde lacrime salate iniziarono a precipitarsi giù dalle mie guance, ignorando ogni mio tentativo di farle cessare. Odiavo questa debolezza. La detestavo. In momenti come questi avrei voluto essere come mamma, ma come avrei potuto se era per lei che ero ridotta così? Se solo avessi avuto un po’ più di sangue freddo come Haldir. Haldir, che in una settimana non avevo mai visto piangere sebbene i suoi occhi dicessero il contrario quando lo incontravo a colazione. Haldir, che mi dava una pacca sulla spalla e un bacio in fronte prima di congedarsi e sparire per l’intera giornata, per poi tornare la sera in camera mia a farmi addormentare. Haldir dal cuore di ghiaccio più caldo di qualunque altra persona. Mio fratello. Quanto vorrei che non lasciasse fuori tutti da quel muro solido che si è eretto attorno. Ma non lo fa. Aiuta tutti ma non si fa aiutare.
« Ciao principessa. » Una voce si insinuò nei miei timpani, melodiosa e distante. Poco lontano, due candele si accesero all’improvviso rivelandomi due grandi occhi verdi da serpente.
Feci un passo indietro, asciugando le lacrime con la manica della vestaglia. La lunga treccia che pendeva sulla mia spalla dondolò un poco per i movimenti, come un pendolo che segna incessabile i rintocchi di una vita.
« Ciao. » Sussurrai a Sauron, osservandolo bene. Aveva indosso una tunica verde smeraldo, ricamata di nero. Era la stessa persona che avevo salvato nei boschi, ma sembrava così diverso da allora. Non aveva più le occhiaie scure sotto gli occhi, ne le mani rovinate o i capelli intrigati. Sembrava un dio, come era stato un tempo.
Era bello, ma quale semidio caduto non lo era? Magari, pensai, nei giorni della sua dittatura a Mordor lo era ancora di più. Oppure era ancora meglio quando stava fra i Valar. Ma chi può dirlo?
« Oh, stai piangendo principessa. » Si alzò di scatto e aprì il cassetto del so comodino, frugando in cerca di qualcosa da usare come fazzoletto. Passai ancora una volta le maniche sotto gli occhi e il naso, scuotendo vivacemente la testa.
« Non sto piangendo. Ok, forse un po’, ma poi mi passa. » Gli assicurai, non accettando il piccolo riquadro di stoffa che mi aveva offerto. Ora che era più vicino potevo vedere che non aveva occhiaie, ne occhi rossi di pianto. Sembrava fresco come una rosa, come se la morte di mia madre non l’avesse toccato. E poi mi tornò in mente che in tutta quella settimana non gli avevo mai visto gli occhi rossi di pianto.
Sorrise un poco, cacciando il fazzoletto in una tasca della tunica. « Si, immagino di si. »
« Ma come fai? » Mi scappò dalle labbra. Lui inarcò un sopracciglio. « Come fai a non piangere? Tu, che dicevi di amarla. »
« Ah. Ti hanno raccontato allora; scommetto solo quello che faceva loro comodo che conoscessi » sussurrò quasi divertito Sauron, passandosi una mano fra i capelli neri. Un lampo guizzò attraverso gli occhi verdi, ora più vuoti di prima.  « Comunque è semplice, sai, non piangere. Basta non pensare a quella persona che non c’è più. »
« E come fai a non pensarci? »
« Non posso. E’ troppo forte il dolore per la perdita che sto provando, così tento, tendo a ignorarlo. Ogni tanto funziona, ogni tanto invece no. Non posso controllarlo sempre, anche se ci provo. »
« Allora devi avere una qualche specie di potere speciale per non piangere. Ti invidio davvero tanto. » Sussurrai, alzando gli occhi al cielo. Lui rise leggermente, e gli angoli delle labbra gli si alzarono di poco.  
Tale quale a lei, mi parve di sentirgli dire. Ma non lo fece, non vocalmente almeno. Al contrario invece disse: « Anche tu hai un potere niente male, principessa. Se mi acconsenti, ti insegnerò a usarlo. »
Accettare o no? Che importanza aveva?  Avrei fatto di tutto pur di non tornare in quel mondo fasullo che era fatto dei sogni, delle cose, delle persone che più bramavo. In quel mondo finto dove tutto era rimasto invariato e i rimproveri di mia madre che mi scovava a gironzolare nel periodo che precedeva l’alba e mi costringeva a cambiarmi. Avrei fatto di tutto per non dormire; per non provare dolore al mio risveglio. Così acconsentii e passai la notte a imparare, con un uomo che avrebbe potuto essere mio padre se mamma non avesse scelto papà.
 


*    *
 



Ci sono tanti modi per superare una perdita, e ognuno lo fa a modo suo. C’è chi si rifugia in se stesso, chi grida, chi si nasconde e chi rifiuta di credere che la persona che amava se ne sia andata. C’è chi trasforma il dolore in rabbia, chi piange fino ad addormentarsi nel buio della sua stanza, chi aggredisce gli altri perché non vuole credere a quello che è successo, chi conforta gli altri tentando di dimenticare se stesso, chi non mostra alcuna emozione e finge che non sia successo niente per poi crollare dentro.
Legolas ancora non ci poteva credere. Se ne stava seduto sopra il suo letto matrimoniale con lo sguardo perso nel vuoto, in quella che era stata la loro stanza per venticinque anni. Ora, che la luce grigia del cielo entrava dalla porta-finestra aperta e le tende di velluto volteggiavano nell’aria, l’elfo non riusciva a sentire niente. Non sentiva freddo, caldo, amarezza, solitudine. Solo tanto, tanto dolore. Un dolore così grande che sembrava aprirgli il petto, squarciarlo a metà e torturarlo con tutti i ricordi che gli venivano in mente.
Rimase seduto su quel materasso, mentre qualcuno bussava alla porta e tentava di fargliela aprire. I suoni rimbombavano fra le mura pallide per poi disperdersi e ricominciare. Si immaginò la sua compagna che gridava qualcosa come « Arrivo! Dannazione arrivo, calmate i bollori. Lo so che sono richiesta ma, cavolo, anche io ho una vita! » e ingoiò un fiotto di saliva a vuoto.
Aveva perso El molte volte nel corso degli anni, in svariati modi, ma poi l’aveva sempre ritrovata. Lei l’aveva sempre ritrovato. Nonostante tutto. Ma adesso, adesso non si sarebbero più rivisti e l’ultima cosa che gli aveva promesso era stata che l’amava nonostante non fossero sposati. Solo ora si accorgeva di quanto aveva rimandato quel momento. Di quanto, in tutti gli anni passati assieme, lei si fosse sentita in dubbio, preoccupata, impaurita del fatto che lui avrebbe potuto lasciarla come se niente fosse –anche se sapevano entrambi che Legolas non l’avrebbe mai fatto.
« Ora mi hai stufato Legolas! Io entro! » La voce ruggente di Fanie si percosse contro la porta che, dopo un violento strattone e una serie di spallate si staccò dai cardini e ricadde a terra ai piedi dell’elfa.
Gli occhi cercarono Legolas, sebbene lui sapesse che solo uno era funzionante. La ragazza aveva stretto i lunghi capelli in una treccia che le ricadeva sulla schiena, e che lasciava più libero il viso cereo e contornato da pesanti occhiaie nere e occhi rossi di un pianto passato. Tutta via, Fanie manteneva quel suo portamento eretto che nemmeno il dolore era riuscito a scalfire.
Si parò davanti al principe e poggiò le mani sui fianchi, incrociando i suoi occhi. Tutti e due li avevano azzurri, lei più tendenti al grigio, ed entrambi potevano leggervi milioni di sentimenti contrastanti all’interno. Nessuno parlò per qualche minuto. Poi, a un tratto, Fanie si abbassò e prese dalle mani dell’elfo una catenella di fine argento. Se la rigirò fra le dita e accarezzò con un polpastrello il ciondolo rotondo che vi era appeso. In basso rilievo, aggirato da quelle che sembravano fiamme, stava una semplice frase: la discesa all’inferno è semplice, la risalita è più difficile.
La ragazza ingoiò un fiotto di saliva e porse nuovamente la catenella al suo principe, prima di tirarsi in piedi e passarsi una mano sulla cicatrice dell’occhio. L’aveva fatto d’istinto, senza pensarci minimamente. Era una cosa naturale.
« Era sua », disse Legolas, con la voce roca causata da un recente pianto. Fanie avrebbe voluto dirgli che lo sapeva, perché gliel’aveva regalata lei anni prima quando se n’era andata da Bosco Atro. Che quello era il motto che usava lei stessa per darsi forza, che l’aveva usato anche quando le era stata fatta la cicatrice. Ma non lo fece. Rimase immobile, mentre osservava le dita aggraziate di un uomo che correvano sull’ultimo ricordo dell’amata. « La tirava fuori dalla cassettiera ogni notte, quando pensava che non la vedessi oppure che dormissi. Ogni tanto ci piangeva sopra, per poi rimetterla a posto. Non le ho mai chiesto il perché, ma immagino che ora non abbia importanza. Non credi anche tu? »
« Non piangerti addosso, principe. Tutti soffriamo Legolas, non solo tu. El era amica mia, e non credere che persino Haldir non abbia versato qualche lacrime. Certo, è più forte di te e dei suoi fratelli, ma le ha versate. » Si sforzò di dire Fanie. Perché comunque, in un certo senso, sebbene sapesse che poteva rispondere alla sua domanda lui non l’avrebbe accettata perché non aveva la voce di El, non aveva le sue sfumature, o il modo in cui si muovevano le labbra quando parlava. Non l’avrebbe accettata perché non era lei. Semplice. « Avrai tempo per farlo questa notte, adesso devi alzarti e andare dai tuoi figli. Perché anche loro meritano le tue attenzioni, e non perché siano deboli ma perché, come te, hanno perso una madre. Un punto di riferimento. » Le costava essere così realmente cruda con lui in un momento come questo, ma senza la dura verità di El non rimaneva che la sua. Non avrebbe permesso a Legolas di lasciarsi andare al dolore, di morire piano piano. Non gli avrebbe permesso neppure di diventare come Thranduil. Avrebbe provato a riportarlo a quello che era stato, sebbene sapesse che una parte di lui era irrecuperabile. « Ora devi diventare tu il loro punto di riferimento, mi hai capito? » Alzò leggermente il tono, richiamando all’ordine l’elfo biondo.
« Si. » La voce roca di Legolas suonò come un sibilo, affogato ancora in quel mare di dolore che lo tormentava.
Vedendo che l’elfo non attingeva ad alzarsi, Fanie sospirò e si sedette accanto a lui sul materasso. « Non odiarmi per come mi pongo a te oggi, Legolas. Sto solo facendo quello che ritengo giusto per i tuoi figli e per te. » Si voltò a osservare il principe, che se ne stava con quella catenella fra le mani e l’accarezzava avidamente. Cercò di ignorarla, e si schiarì la voce prima di riprendere.« Anche io ho subito una brutta perdita e, nonostante tutto, ho cercato di andare avanti. El è morta da una settimana, e tu hai deciso di rintanarti qui dentro e sparire dalla circolazione. Come se non esistessero altro che il dolore e la solitudine che ti circondano. Ma non è così. » La catenina tintinnò quando il biondo la fece passare fra le dita.Ancora una volta, Fanie la ignorò. « Io e tuo padre siamo preoccupati. I tuoi figli stanno annegando nel dolore, Haldir più di tutti, anche se non vuole ammetterlo. Perché è per lui che sua madre è morta. Perché voleva salvarlo. Non lasciare che s’incolpi ancora. Si sta distruggendo a poco a poco, da solo, senza nessuno che lo fermi. »
L’ennesimo ticchettio.
Fanie digrignò i denti e strappò di mano la catenella a Legolas. Si alzò, la congelò con i suoi poteri finché non fu inglobata da una sfera di ghiaccio solido e trasparente e freddo al tatto, si avvicinò alla finestra e la lanciò lontana. Osservò la piccola palla brillare dei grigi raggi trasmessi dalle nubi e sparire nella foresta. Scomparve fra i rami neri e morti di Bosco Atro. Si pentì subito di quel gesto, guidato dalla rabbia, dal dolore della perdita di un'amica e il ramamrico del ricordo di quel momento in cui gliel'aveva consegnato; dall’istinto di conservare intatto il ricordo di un vecchio amico forte e sicuro di se invece di qualcuno amorfo e distrutto seduto su un letto. Quando di voltò, Legolas era in piedi difronte alla porta e gli occhi erano più taglienti di schegge di ghiaccio affilato. Strinse il pomello della porta con forza, tanto che il pallore della pelle sembrò fluire via dalle nocche diventate rosse di sangue.
« E’ già qualcosa. » Commentò glaciale Fanie, mentre lui apriva l’uscio e l’aspettava per dirigersi assieme nella sala da pranzo.  
 



*    *
 
 


Quando entrai nella sala da pranzo notai subito qualcosa di diverso. Non era nelle pareti ancora addobbate di trofei di caccia, o nel camino col fuoco che ardeva di fiamme rosse, verdi e azzurre. Lo percepii subito come una qualche minaccia.
Avanzai cauta fino al tavolo, dove i miei famigliari erano già radunati. Quando mi sedetti e puntai gli occhi sul posto di mia madre lo trovai occupato. C’era una donna al suo posto, a quello che era stato almeno. Aveva lunghi capelli mossi, quasi neri, e occhi lucenti color ossidiana. Indossava una specie di blusa marrone corta, che non le copriva neppure l’ombelico. Al collo le pendeva un ciondolo d’avorio lungo e ricurvo. Probabilmente l’artiglio di qualche animale. Strinsi le mani ai braccioli della mia sedia, mentre i nostri sguardi si incontravano.
« Ma guardati, sei la sua copia sputata. » La donna si sporse un poco in avanti, poggiando il mento su un pugno. Aveva quella strana luce negli occhi che mi spaventava, ma non mi sarei tirata indietro. « Tranne gli occhi. Quelli sono un regalo di papà, non è così? » Sorrise mostrandomi i canini affilati.
Rabbrividii, prima di allungare una mano e prendere a giocare con il coltello. Se avessi provato a tirarglielo, l’avrebbe preso al volo o le si sarebbe conficcato in un occhio? Perché non tentare? Strinsi l’impugnatura della posata fra le dita, l’alzai leggermente dal tavolo e una mano fredda mi costrinse a rimetterla a posto.
Alzai lo sguardo colta alla sprovvista, mentre mio padre non si degnò neppure di guardarmi. I suoi occhi azzurri rimasero bloccati sulla donna, che si alzò dal suo posto rivelandomi il resto del vestiario: dei pantaloni di pelle verde e un paio di stivali alti dell’ennesimo colore. Sentivo qualcosa di più nella stretta che mio padre teneva sulla mia mano: tensione. Evidentemente non ero l’unica che non voleva che quella donna sedesse al posto di mia madre, o che respirasse sul posto di mia madre o che si aggirasse con quell’aria di superiorità che sembrava aggirarsi attorno alla sua figura.
 « Ah, ecco qui il donatore degli occhi di questa splendida fanciulla. » La donna aveva una voce così fragile e tagliente che sembrava calcolata. E forse lo era, ma sembrava troppo naturale. Quasi che lei stessa fosse tagliente e pericolosa come il vetro.
« Ben arrivata Ringil » si limitò a dire mio padre. La sua mano si spostò sulla mia spalla e li rimase, sempre tesa ma più calda.
« E’ un peccato che tu non mi accolga più come un tempo, o che tuo padre non si faccia vivo per ricevermi. Con gli anni avete perso le buone maniere? » Le dita di Ringil ticchettarono sul tavolo di legno, mentre osservava i commensali seduti al tavolo: i miei tre fratelli, la cerva e me.
« Evidentemente la tua presenza non è gradita » le dissi, guardandola negli occhi senza mai abbassare i miei.
Lei non soffocò la risata che le uscì dalle labbra sottili e si portò una mano al cuore, come se fosse stata colpita da una freccia. « E’ identica alla madre. Questo vorrà dire che mi toccherà metterla in riga. » Fece una smorfia e aggirò il tavolo, senza smettere di ridere sommessamente.
« Cosa vuol dire? Padre, che intende? » Rìnon saltò sull’attenti, ora il coltello che aveva stretto nella mano destra sembrava un pugnale, lucente nel grigio delle nubi.
« Non ne ho idea. » Sussurrò Legolas, stringendo di poco la presa sulla mia spalla. Ingoiai un fiotto di saliva e mi alzai, abbandonando il coltello sul tavolo per poggiare le mani sulla mia camicia da notte.  Non mi ero cambiata quella mattina, non me n’ero ricordata persa com’ero dal mio stato confusionale dovuto al poco sonno, alle lezioni di Sauron e il dolore causato dalla perdita di mia madre.
Haldir mi scoccò un’occhiata di traverso, prima di pulirsi gli angoli della bocca con un tovagliolo e incrociare le braccia al petto. Alzò le spalle quando vide che non distoglievo lo sguardo. Feci una smorfia.
« El l’aveva invitata a palazzo, Legolas, e io avevo approvato. » Fanie si affiancò a Ringil, strappandole di mano la lettere di pergamena che aveva appena estratto da quella strana tenuta che le copriva il petto. Gli occhi azzurri dell’elfa esaminarono la carta, prima che le sue dita riducessero il tutto a una palla che volò nel centro del camino. « I Lupi del Nord sono validi alleati, forti e veloci e senza pietà. E in più, El sapeva delle doti d’allenatrice di Ringil e così l’ha convocata qui perché insegnasse ai tuoi figli come si combatte senza troppi fronzoli. »
 « I miei figli non combatteranno! Non li metterò in pericolo! » Ruggì mio padre, spingendomi dietro di lui con fare protettivo. Ci mise talmente tanta forza che per poco non caddi se il braccio di Leron non mi avesse afferrato in tempo. Lo guardai e sorrisi in modo che capisse che stavo bene, poi mi lasciò andare sgusciando fuori dalla sua postazione.
« Li metti in pericolo non consentendogli di imparare a difendersi! » La mano di Fanie ebbe un guizzo, ma lei strinse le dita contro il palmo impedendo alle schegge di ghiaccio di uscire dai polpastrelli. Mi chiesi se anche io, se mai un giorno mi sarei arrabbiata, sarei stata costretta a fare così per non ferire le persone che amavo.
« Io darei ascolto a lei, fossi in te principe. » Ringil indicò Fanie con un cenno della testa, senza mai abbandonare il sorrisetto poggiato sulle sue labbra.
Giurai di aver visto una vena del collo di mio padre pulsare, prima che Turion facesse il suo ingresso in un trionfo di seta azzurra e argentea. « Ascolta Fanie, mio signore. » Aveva un tono di voce pacato, che lo faceva sembrare meno pericoloso di quello che in realtà era. Perché l’avevo visto in azione, quel giorno quando mi aveva salvata, ed era stato come vedere un predatore che uccide la sua preda. Il drago era più grosso di lui, ma l’ha abbattuto  come se non fosse altro che una grande oca.
La gamba in via di guarigione mi formicolò un poco quando il ragazzo mi passò davanti, forse a causa del ricordo appena evocato. Mi appoggiai allo schienale della sedia di mio fratello, sorreggendomi finché il formicolio passò.
« La guerra ha già causato troppi morti. Non lasciare che i tuoi figli non siano in grado di difendersi, mio signore. Ringil è un’ottima insegnante e guerriera, i Valar me l’hanno fatta osservare dall’alto per molti anni dopo che era salita al potere come suo padre Magnus. Possiamo fidarci di lei. » Tentò ancora Turion, stringendo di nascosto la mano – solo allora mi accorsi essere sanguinante- di Fanie.
« Padre, trovo che abbiano tutti ragione. Io stessa mi sono trovata in pericolo perché non sapevo difendermi. Mi sono salvata solo perché Turion è accorso in mio aiuto. » Questa volta fui io ad appoggiare la mano sulla spalla dell’elfo. I nostri occhi si incontrarono e, per una frazione di secondo, colsi la mia immagine riflessa nelle sue pupille: una giovane donna in vestaglia, dai capelli ora sciolti sulle spalle e la pelle tanto pallida. Ero uguale a lei, mi convinsi, se non fosse stato per i miei occhi.
« Elanor » la sua voce cadde leggermente sulle ultime lettere. Quanto gli costava esporre i suoi figli così? Non volevo saperlo. E in quel momento, decisi, non l’avrei mai saputo perché non avrei mai avuto figli. Non avrei lasciato che altri provassero il mio stesso dolore, il dolore di mio padre.
« Abbiamo bisogno di imparare, e se la mamma aveva deciso di  convocare il capo Clan dei Lupi del Nord perché ci insegnasse, evidentemente, la riteneva adeguata. » Lanciai uno sguardo a Ringil, che adesso aveva stretto le braccia al petto. La pelle abbronzata splendeva di linee nere e punti che davano vita a tatuaggi elaborati e, per lei, sicuramente significativi. « Anche se a me non piace » ci guardammo per qualche secondo, tenebra e luce che si scontravano nel nostro scambio di sguardi, « non dubito che non ci allenerebbe a dovere. »



N.d.a

Ciao ragazze,

allora vi è piaciuto il capitolo? Che ne pensate di El, della reazione di Legolas a Ringil e di quella di Fanie con la collana? E' un capitolo un pò andante, questo, dove ho introdotto il primo di alcuni nuovi personaggi, e che spero vi sia piaciuto ^-^ (devo ancora finire la sua FF, ma ci arriverò presto). 
Ora corro, recensite è :3

Baci,

Isil.

 
  
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