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Autore: mairileni    03/08/2014    2 recensioni
Contiamo alla rovescia.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Jesus, il penultimo capitolo! Ç_Ç


Sto male, lo giuro, questa storia è partita scritta di pancia e ancora adesso va avanti restando scritta di pancia. 

È l'ultimo capitolo degno di essere chiamato tale, dato che l'ultimo vero e proprio è già finito e corto come non mai. Ma non faccio il doppio aggiornamento perché io sono una che i cerotti se li leva usando tanta acqua calda e sapone. Aspetto di sapere che cosa ne pensate di questo “Coperte” e poi ecco, pubblicherò l'ultimo... si dovrà pur fare. Piango.


Ma bando alle ciance. Buona lettura a tutte, spero tanto che vi piaccia e vi mando un milione di baci!



pwo_









COPERTE




«Pronto? No, signora, non è il droghiere, ha già chiamato qualche tempo fa. Cosa? Ma no che non la prendo in giro, le assicuro che non... senta, senta facciamo così. Lei è di Londra? Ottimo. Ora le do il numero di quello da cui sono sempre andato io, d'accordo? Ha da segnare? Ecco, segni: due sei sette... quattro otto... sta segnando? Quattro nove...»







1




Stefan aveva cominciato a fare palestra. Di certo non si aspettava che Brian restasse zitto davanti agli abiti da allenamento di lui — battutine —, ma che la cosa restasse, invariabilmente, l'argomento di ogni conversazione non era nei programmi. Brian diede un colpetto alla Marlboro e la cenere cadde nel suo bicchiere di acqua frizzante. Sedeva sulla seggiola, a gambe accavallate, fissando con aria scettica la schiena dell'altro.

«Cosa fai, Stef?», chiese.

«Cucino.»

Soffocò una risata, tornò subito all'attacco.

«Se fai saltare la pasta nella padella per un po', magari ti vengono i muscoli», lo sferzò, sarcastico.

Finalmente ottenne che Stef si girasse verso di lui con l'espressione rassegnata di chi, ormai, a qualcosa ha fatto l'abitudine.

«Brian, per quanto ancora?»

«Per quanto ancora cosa?»

«Per quanto ancora mi prenderai per il culo con questa storia degli allenamenti?», sfiatò Stef.

Non che fosse arrabbiato; non era neanche lontanamente irritato. Forse però avrebbe preferito che i loro botta-e-risposta convergessero verso un'unica direzione — Stef parlava di calcio e Brian parlava degli allenamenti, Stef parlava di moda e Brian parlava degli allenamenti, Stef parlava di quanto si fosse rotto di sentir parlare degli allenamenti e Brian parlava degli allenamenti. Sembravano i vecchi sulle panchine dei porti, quelli che parlano tra loro usando ognuno la propria lingua, e, consequenzialmente, parlando ognuno di cose diverse dagli altri.  

«Almeno fino a quando ti ostinerai a voler fare degli allenamenti», gli fu risposto, ad ogni modo.

«Perché la cosa ti disturba tanto?»

Brian schiacciò il filtro della sigaretta contro il fondo del bicchiere stando attendo a non bagnarsi, e senza perdere il sorriso. 

«Non mi disturba, mi fa solo ridere.»

«Questo è abbastanza chiaro, ma perché ti fa ridere?»

Brian si era stufato di parlare; fissava la luce filtrare dalle tende con il sorriso sulle labbra. Risolse il tutto con una scrollata di spalle che fece desistere Stef da qualsiasi altro tentativo di conversazione. 

Brian era a casa sua da più di tre settimane.







2




«Stai usando il mio computer, Brian?»

«Sì.»

«Si può sapere perché non hai portato qui il tuo?»

«Pesava.»

«Mh.»

Brian scorse velocemente le foto della galleria, così, tanto per fare qualcosa. Vi trovò una cartella datata 2 ottobre. Dal 2 ottobre erano passati cinque giorni, si trattava di foto recenti. Aprì la cartella, gli piaceva non farsi i fatti suoi. Erano foto di un tizio che non poteva provenire da altro luogo che non fosse l'Irlanda, un ultra-trentenne di bell'aspetto inguainato in una tutina da ciclista. 

«Oh», mormorò con un mezzo sorriso Brian, «ecco perché ti è presa questa mania sportiva, Stef».







3




Aspettava Anna nello stesso caffè in cui soltanto poche settimane prima aveva aspettato Helena, gli occhi incollati allo schermo al plasma affisso al muro senza prestarci veramente attenzione. Per arrivare lì, Brian aveva dovuto prima fare i conti con la furia distruttiva di una manifestazione gay lungo The Mall, manifestazione che oltretutto lo aveva portato a scoperte piuttosto interessanti. Anzi, molto interessanti. Ma ora doveva aspettare Anna, e, comunque, per sfruttare tali scoperte avrebbe avuto tempo. 

Lei arrivò puntuale, lui alzò un braccio per farsi vedere non appena sentì la porta del locale colpire il campanello appeso al soffitto. Tra una cosa e l'altra, lui e Anna non si erano visti per quasi un mese.

La trovò stranamente in ordine, proprio come era stata prima che cominciassero a parlare seriamente di Matt nello studio ordinato di lei.

«È molto che aspetti?»

«Assolutamente no», mentì con un sorriso cordiale Brian, che si era seduto su quel divanetto con quasi mezz'ora di anticipo rispetto all'orario prestabilito.

Si fecero portare due caffè da una ragazzina tutta occhi e cappellino della divisa, un berretto blu che faceva piuttosto hostess. Per un po' parlarono tranquillamente del più e del meno, di come stavano girando le cose; Brian notò che Anna faceva fatica a prendere in mano la conversazione, forse per quella deformazione professionale che la portava a porre solamente molte domande. 

Le chiese ciò che intendeva chiederle da mesi quando ormai era arrivato anche il secondo caffè. 

«Cosa vuol dire: “C'è qualcosa che non va?”, Brian?», pronunciò cautamente lei.

«Non so, mi sembra che ultimamente tu sia un po' giù. Non vorrei impicciarmi troppo ma... ho visto i fiori in casa tua, c'entrano quelli, in qualche modo?»

Forse era stato invadente, ma ormai era entrato in argomento e non aveva intenzione di rinunciare. Pura curiosità. Lei gli rifilò un sorriso amaro e che diresse subito dopo verso una delle vetrate del bar. 

«È per un uomo, vero?», rincarò Brian, implacabile.

«Sì», capitolò lei.

«Ti ha portata a letto e poi non si è fatto più vedere?»

«Che cosa?!»

Ora sul viso di lei si era dipinta un'espressione di sincera sorpresa, sorrisino malcelato e sopracciglia sollevate. Sembrava che Brian le avesse detto qualcosa di assurdo, di difficile perfino da comprendere. Lui attese pazientemente la risposta che gli spettava (magari poi nemmeno gli spettava, ma ormai), e, contro ogni logica e aspettativa, Anna scoppiò a ridere. Forte, anche. Brian la osservò stranito per pochi secondi, poi si arrese a seguirla a ruota, anche se solo per l'imbarazzo di non sapere che cosa fare altrimenti.

«Brian! Ma no!», fece stridula lei, soffocando in partenza un'altra risata.

«E allora cosa?»

«... Si tratta di mio padre.»

«...»

«...»

«... Tuo... padre

«Sì», confermò lei. Prese ad armeggiare con il porta-fazzoletti, e Brian sospettò che lo facesse solamente per evitare il suo sguardo. «Da ragazza, quando decisi di venire a studiare qui a Londra, mio padre si oppose con tutte le forze. Lui lo vedeva come un segno di ingratitudine nei suoi confronti, perché mio padre è sempre stato molto legato a Edimburgo, e avrebbe avuto piacere che continuassi a studiare lì. Da quel momento in poi abbiamo tagliato ogni ponte, e... non ci eravamo più sentiti, per tutti questi anni. Poi, un giorno, mi sono arrivati a casa quei fiori assieme a una busta in cui era stato scritto di tutta fretta un invito a cena.»

«Era lui?»

La donna annuì. «Non avrei confuso il modo in cui arrotola l'occhiello delle “F” minuscole nemmeno se alla fine del biglietto non si fosse firmato: “Papà”.»

Alzò la testa su Brian, ma lui le rivolse solamente un sorriso intenerito, così tornò a fissare il porta-fazzoletti.

«Quella sera non si è presentato. Ero a pezzi, Brian, te lo giuro. Mi è crollato il mondo addosso; se solo avessi avuto il suo numero l'avrei chiamato fino a far sciogliere il cellulare.»

«Perché non era venuto?»

«Era stato male. Si era agitato troppo, la pressione alta gli aveva giocato un brutto tiro.»

Lasciarono entrambi che qualche attimo scorresse nel silenzio più assoluto, sorridevano rivolti agli oggetti inanimati sul tavolo.

«E ora lui dov'è?», chiese infine Brian.

Anna sollevò gli angoli delle labbra, gli occhi un po' lucidi.

«Mi sono affittata uno studio vicino al negozio di ferramenta di Trafalgar. Lo studio che conosci tu è ufficialmente diventato la camera da letto del mio papà.»













4




Brian si era offerto di fare la spesa, cosa che mai si era sognato di fare, solo perché avrebbe deciso che l'odierna sarebbe stata giornata di indagini e di umiliazioni. Nella propria testa la definì proprio così, una “Giornata di Indagini e di Umiliazioni”. Aveva scoperto, origliando al telefono quando Stef pensava che stesse dormendo, che tale Jonathan, il tipo in tutina da ciclista, lavorava al Tesco in Oxford Street, proprio dove ora Brian si stava dirigendo con piglio autoritario. Occhiali da sole inforcati, fece il suo ingresso trionfale nel supermercato gelido di aria condizionata e agguantò il primo cestello disponibile. 

Jonathan stava sistemando il latte di soia sul secondo scaffale dall'alto del corridoio tre. Molko si limitò a osservarlo, mentre una vecchietta di passaggio fissava a sua volta lui con aria scandalizzata, un maniaco in occhiali da sole dentro a un rispettabile supermercato londinese (perché Brian, con quegli occhiali, al chiuso, altro non poteva sembrare che un maniaco). Dopo qualche secondo, la signora si ritenne abbastanza soddisfatta e rinunciò allo spettacolo, spingendo il carrello in direzione del corridoio quattro per approfittare di qualche offerta sulle patate dolci. 

Jonathan si accorse di Brian soltanto mentre scendeva con cautela dalla scaletta in ferro. Da quello strano e inquietante uomo in occhiali da sole gli fu rivolto un sorriso enorme e falsissimo. 

«Buonasera», salutò Jonathan.

«Buonasera», rispose cordialmente Brian.

«Ha... ha bisogno di qualcosa?»

«No, e lei?»

«Ehm... non direi... è sicuro di non aver bisogno di nulla? Voleva il latte di soia? Se non ci arriva possa passarglielo io.»

L'insinuazione sulla sua statura non gli passò inosservata, ma incassò e incanalò l'irritazione in un innaturale allargamento ulteriore del suo sorriso.

«Nessun latte di soia, grazie.»

Jonathan annuì con aria scettica e gli riservò un'ultima occhiata confusa prima di imbracciare altri prodotti dal muletto blu del supermercato. Brian non si mosse, lui sospirò. Adagiò nuovamente le confezioni sulla superficie metallica e parlò stancamente.

«Signore, posso aiutarla in qualche modo?»

«Sei il fidanzato di Stefan?»

«... Come, prego?»

La domanda gli fu ripetuta.

«Senta, mi scusi, ma... lei chi è? Perché mi fa queste domande?»

«Sono quello che è venuto qui oggi per dirti che d'ora in poi Stefan, il MIO ragazzo» (urlò il: “Mio”), «non lo vedrai mai più nemmeno in fotografia. E ora con permesso.»

Jonathan dischiuse le labbra in una piccola “O” e strabuzzò gli occhi. Vide allontanarsi quello strano personaggio, che poi altri non era che Brian nelle vesti di un inquietante iettatore, con passo allegro e sicuro.







5




Era tornato a casa a mani vuote, ovviamente. Non aveva certo intenzione di farla davvero, la spesa, ma questo Stef non l'aveva capito — si era voluto illudere che Brian stesse finalmente iniziando a sentirsi in dovere di aiutare, ma, ovvio, si trattava di pura illusione. Ora lo fissava con sguardo truce mentre con una mano teneva aperta l'anta del frigo vuoto a scopo dimostrativo.

«Non noti nulla, Brian?», gli chiese, dopo almeno un minuto di pesantissimo silenzio.

«Il frigo è vuoto», si sentì rispondere.

«E lo sai perché è vuoto?»

«Perché abbiamo mangiato tutto quello che c'era dentro. Dovresti imparare a gestire meglio la roba da mangiare, Stef, non te l'hanno mai detto?»

Osdal sospirò. 

«Oggi dovevi fare la spesa», tagliò corto, sbrigativo. «Mi spieghi perché non l'hai fatto, o che cosa c'era di tanto più urgente da fare se non la spesa stessa?»

«Io al supermercato ci sono andato», puntualizzò Molko.

«E per quale ragione, se il frigo è ancora, sempre, eternamente vuoto?!»

«Ho lasciato il tuo ragazzo per te.»

A Stef servirono due o tre secondi per realizzare che Brian, aria soddisfatta e braccia conserte, non stava affatto scherzando.

«...»

«...»

«Tu... tu hai fatto COSA?!», gli urlò contro.

«Non serve che mi ringrazi.»

Mano tesa verso di lui, espressione modesta. 

«Ma che CAZZO TI SALTA IN MENTE, BRIAN?! Che cazzo vuol dire: “Ho lasciato il tuo ragazzo per te”? Ma sei impazzito?!»

«Assolutamente no», negò con calma Brian, e gli piazzò davanti al naso l'iPhone.

Una foto di Jonathan su una panchina di The Mall durante la manifestazione contro l'omofobia di due giorni prima, scattata da Brian sulla strada per arrivare al caffè in cui lui e Anna si erano poi incontrati. 

Jonathan baciava un tizio dai capelli rosso carota.

«...»

«... Dicevi, Stef?»

Quest'ultimo aveva preso il telefono e pizzicava lo schermo per ingrandire e rimpicciolire l'immagine, immagine che restava, invariabilmente, il ritratto di una romantica coppietta di gay che si baciavano in bocca in una giornata di sole.

«...»

«...»

«... Che cosa gli hai detto?»

«Che il tuo ragazzo sono io e che non ti rivedrà mai più.»

«...»

«...»

«... Non dovevi impicciarti», mormorò Stef, ma stranamente non risultava credibile.

«Volevo risparmiarti la figura da cornuto.»

«...»

«...»

«...»

«Stef, guarda che non è che più la guardi e più non si baciano. E comunque ce ne sono tantissime altre, sapessi quante ne ho fatte!», trillò Brian, un entusiasmo orrendamente fuori luogo.

«Come l'hai scoperto?»

«L'ho pedinato, ovviamente.»

Stefan annuì senza sapere bene a cosa fosse meglio pensare.

«Brian?»

«Sì?»

«Quanti altri, tra i miei ex ragazzi, hai pedinato?»

«Quasi tutti!», esclamò lui con un sorrisone da orecchio a orecchio. «Beh, no, non proprio tutti tutti. Direi tutti tranne Ronnie, lui era un po' grosso e mi faceva paura.»

Stefan annuì ancora in un novantacinque percento di confusione frammista a indignazione frammista al debole cinque percento di intenerimento per quanto era stato fatto per lui. Pigiò l'unico tasto del cellulare di Brian e chiuse la galleria. Le foto le aveva viste tutte, e si trattava inequivocabilmente della manifestazione di due giorni prima; la data compariva anche sulle foto stesse.

«Sto ancora aspettando il “Grazieee”», canticchiò Brian.

«...»

«Senti, Stef, mi... mi dispiace, sul serio. Ma non ti meriti uno così.»

«SÌ, MA TU DEVI FARTI I CAZZI TUOI, BRIAN!»

«...»

«...»

«... Ma se mi fossi fatto i cazzi miei non l'avresti mai scoperto, ho solo avuto tempismo. E se mi fossi fatto i cazzi miei ora avresti le corna.»

«Le ho comunque, le corna!»

«Stef, guarda che se le lucidi non ti stanno neanche mal...»

«BRIAN!»

«Sì, scusa, questa era di troppo.»

Stefan si prese qualche attimo per analizzare il ragionamento dell'altro (quello del tempismo, non certo quello delle corna), che effettivamente non faceva una piega; inspirò forte con il naso.

«Probabilmente hai ragione», capitolò infine.

Brian riservò al tavolo lo stesso sorriso modesto di poco prima e attese che Stef pronunciasse la sua prevedibile considerazione pratica. Arrivò più in fretta di quanto avesse stimato; Stef, del resto, odiava mostrare emozioni negative tanto quanto Brian.

«Abbiamo il frigo vuoto ed è ora di cena», fu il suo responso.

«Mh. Giapponese o Thailandese? Scegli tu, Osdal»

«...»

«...»

«... Giapponese, tutta la vita.»







6




Avrebbe ricambiato tutto l'aiuto che gli era stato dato. Brian se lo promise, mentre sistemava addosso a Stef due coperte perché non soffrisse troppo dell'aria condizionata che lui stesso gli aveva imposto di alzare al massimo. L'aveva fatto ubriacare alla grandissima; andato. Si accese una sigaretta e guardò fuori dalla finestra della sala, una mano mollemente appoggiata alla schiena dell'amico da sopra la lana. Il giorno successivo avrebbe gestito tutto; sia Stef che la sbronza di Stef che la delusione amorosa di Stef. Estrasse apposta il telefono dalla tasca per puntarsi la sveglia al mattino presto. Poi si voltò verso destra, e scorse sulla scrivania una penna e dei fogli bianchi che sembrava fossero stati messi lì soltanto per lui.







7




Giuro che questa è l'ultima, Matt. Lo giuro. Non posso più parlare con te attraverso delle lettere che tanto non leggerai mai — non è più così che va, adesso ho trovato il mio equilibrio.

Quindi, anche se fa male, ora basta, Matt.

Chiudiamola qui.




   
 
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