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Autore: yoyo_whitehole    10/08/2014    2 recensioni
«Ha tradito. Ha ucciso. Ha torturato» Kevin diede le spalle al Pacificatore ammanettato, posizionandosi tra lui e la folla. «Ma non ha tradito me. Non ha torturato me, e direi che non mi ha ancora ucciso. I suoi crimini non sono contro me.»
Kevin ruotò la pistola tra le dita, allungò il braccio. Rivolse l’impugnatura alla folla.
Si chinò quel che bastava per poggiare l’arma a terra, con delicatezza. Si spostò, di lato, un solo passo; tra la folla e il Pacificatore rimase solo la pistola.
(...)
Imhor raccolse l’arma e tolse la sicura. Fissò Kevin un’ultima volta, non con l’aria di chi cercasse una conferma, o un tacito invito: con una pistola carica nella mano e un’imperscrutabile serietà nel volto.
«Uccidilo» sibilò il Pacificatore, la voce strozzata «Non avete mai avuto speranza, Capitol City vi sterminerà dal primo all’ultimo se non finite questa follia adesso. Se lo uccidete vi perdonerà…» guardò Kevin con odio disperato «Dimenticherà… Dimenticheremo tutto…»
Il gigante spostò lo sguardo sul Pacificatore, che si azzittì. Il silenzio strisciò ancora per qualche attimo, qualche attimo ancora, poi Imhor puntò la pistola.
«Io non dimentico» disse, e premette il grilletto.
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Caesar Flickerman, Presidente Snow, Sorpresa, Tributi di Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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  L'unica verità.

 
 Essere morti significa svegliarsi dalla parte sbagliata dei propri sogni.
 




Alyson aveva sempre desiderato vedere una montagna, prima di morire. Fece roteare la margherita bianca che aveva colto, respirandone il profumo. Sapeva di casa.
Alla Mietitura aveva una margherita, in mano. Era stato il suo portafortuna, prima che appassisse lentamente.
Accarezzò appena i petali del fiore, lasciò che una singola lacrima vi cadesse. Si divise in due minuscole gocce, e due brillii tenui sfiorarono il buio. Un istante. Poi scivolarono dolcemente lungo il petalo e caddero a terra senza un suono.
Alyson sorrise, sciolse le dita e restò a guardare la margherita volare via, perdendosi nel buio. Si sedette a terra e aspettò. Cosa, non lo sapeva. Che il tempo le scivolasse addosso come la lacrima sul petalo, e tutto finisse.
Alyson aveva sempre desiderato vedere il cielo nevicare, prima di morire. Perciò aspettava.
 
 
Sapphire deglutì, e un dolore bruciante le scese giù per la gola.
Fortuna. Ne aveva sempre avuta tanta, sia buona che cattiva.
Sbuffò un accenno di risata che si trasformò in una smorfia per il dolore. Non avrei mai pensato di dover ringraziare la mia stilista.
Si guardò le unghie, lunghe e affilate, pensando a quanto sarebbe stato bello se fosse riuscita a cavare gli occhi al Favorito. Magari avrebbe avuto ancora la sua falce.
Poi i suoi occhi passarono dalla mano a un mucchietto di neve. Perché il mucchietto di neve si era appena mosso.
Trattenne il respiro mentre tentava un passo cauto verso la lepre bianca, che alzò la testa e annusò l’aria, circospetta. Poi tuffò via con un balzo.
Sapphire si gettò all’inseguimento, senza la più pallida idea di come avrebbe fatto a raggiungerla, né di come ucciderla, né di come scuoiarla. L’unica cosa che sapeva era che non aveva mai desiderato la sua falce come in quel momento.
Corse tra gli alberi, per poco non scivolò su una roccia innevata, saltò un tronco abbattuto, girò freneticamente su sé stessa e fu a quel punto che si accorse di averla persa.
Continuò disperatamente a guardare le tenebre, soffocando un'improvvisa vertigine. Poi si appoggiò a un tronco, aspirando lunghe boccate d’aria fredda che le laceravano la gola come artigli.
Si passò lentamente le dita tremanti sul collo, lì dove la falce aveva dipinto una collana di lividi. Sperando in uno sponsor, un miracolo, qualsiasi cosa. La morsa delle tenebre minacciava di soffocarla.
Poi, un fruscio tra le felci. Sapphire si immobilizzò, e il respiro ansante le raspò dolorosamente in gola nel tentativo di trattenerlo. Poteva essere un ibrido, un tributo, un Favorito, Coral, o solo vento.
La lepre saettò davanti a lei, balzò e scomparve dietro un salice.
Sapphire fissò scossa il punto dov’era svanita. Avanzò a passi lenti, scostò le foglie.
Liscio, silenzioso e immobile, il lago scintillava freddo.
Sapphire si lasciò cadere sulla sponda, guardando incredula la lepre che beveva poco distante. E sorrise.
Fortuna. Ne aveva sempre avuta tanta, sia buona che cattiva.
Bevve tra le mani a coppa finché non si sentì di nuovo sul punto di vomitare, poi sfregò tra di loro le dita insensibili e si alzò. Dormire lì sarebbe stata una pazzia, chiunque avrebbe potuto seguire un animale e trovare il lago.
Quando fu abbastanza lontana si raggomitolò su sé stessa, le mani strette a sfiorare le labbra. Doveva solo sperare che il suo fiato le proteggesse dall’assideramento, che nessuno la trovasse e che l’alba prima o poi sorgesse a sciogliere il freddo. Sperare. Niente di più facile.
Nel frattempo, però, la prigione del buio continuava a stringersi attorno a lei.
 
 
Gli occhi scuri di Honoré. La sua voce, impastata dall'erba.
"Ronnie, tu sei sprecato per questo mondo"
Il fiume scorre lento tra le volute di fumo della canna. Il sole crea riverberi d'oro nel verde scuro dell'acqua, il cielo limpido è solcato da brandelli di nuvole. L'aria sa di rugiada e sogni.
"Tu sei sprecato per questo mondo" dice Honoré. Gli occhi di Ronnie guizzano nei suoi. "Possiamo sempre cambiarlo"
Honoré sorride.
 
I suoi occhi si aprirono sul nero. Una foschia malsana a nascondere il mondo. Il buio. Il ronzio assordante nelle sue orecchie.
Poi la vertigine tornò a inghiottirlo.
 
C'è una donna, sulla riva del fiume. Ha tra le braccia un bambino. Lo culla con gli occhi cerchiati di rosso. Non sorride.
"Non puoi vivere nel mio mondo" singhiozza. Il suo labbro trema. "Non... Non puoi vivere nel mio mondo!" urla, le lacrime che le solcano il viso.
Il vento soffia gelido, il tempo passa. Sua madre lascia scivolare il bambino, forse senza neanche accorgersene. Nel fiume.
Ronnie sente l'acqua gorgogliare. Il fiume ribolle di schiuma, sibila nelle sue orecchie. Il sole è un disco infuocato e deforme attraverso il velo blu. Poi diventa più lontano, sempre più lontano.
L'acqua è tutto quello che rimane del mondo, entra nella bocca aperta, nei polmoni, negli occhi. Ronnie si abbandona al suo abbraccio gelido, mentre catene gli imprigionano il respiro, lo trascinano a fondo. Bolle nere sfrecciano attorno al suo viso, ridono nelle sue orecchie. Poi tutto scompare, e cade, e cade, con languida lentezza, verso la fredda oscurità...
 
Ronnie spalancò gli occhi. Una vaga macchia bianca stagliata sul nero. Parole, labbra che si muovono, echi indistinti, stridenti contro il silenzio.
-La freccia-
Un fiotto di dolore lancinante. Non sapeva da dove veniva, forse dalla sua testa. Un urlo. Il suo. Poi tutto precipitò di nuovo nel nulla.
 
Gli occhi scuri di Honoré. La sua voce, impastata dall'erba.
"Ronnie, tu sei sprecato per questo mondo"
Il fiume scorre lento tra i ribollii della lava. Un sole rosso come l'occhio di un orbo scocca scintille color sangue nell'arancio rovente dell'acqua, il cielo scuro è spazzato di venti neri. L'aria sa di freddo e di furore.
"Tu sei sprecato per questo mondo" dice Honoré. Gli occhi di Ronnie guizzano sui suoi. "Possiamo sempre cambiarlo"
Honoré sorride, un sorriso che si allarga, diventa un ghigno che non è il suo. Ride, una risata cattiva. Dietro di lei, strisce di nero e di rosso artigliano il buio.
"È più facile cambiare sé stessi"
 
Un respiro spezzato gli raschiò nei polmoni. Ronnie chiuse le dita, tra le mani la consistenza umida della terra. Sentì i denti serrati stridere e si costrinse a rilassare la mandibola.
Batté per qualche istante le palpebre, cercando di spazzare via la nebbia dalla sua mente. Gli occhi neri di Ester fuggirono i suoi appena riuscì a mettere a fuoco. -Oh- disse. Parve accorgersi solo in quel momento della freccia completamente rossa che teneva in mano. La gettò via come se l'avesse scottata.
I ricordi si riallinearono lentamente. Il Favorito a terra. La voce di Ester. Il momento di scegliere - la frase che sembrava volergli spaccargli la testa. Scegliere tra un male e un male minore è sempre qualcosa di ripugnante. La freccia. Il Favorito morto. 
Ronnie cercò di parlare, ma gli uscì solo un farfuglio confuso. -Morti?-
-Non sono ancora apparsi i volti.- Fu la voce di Liam a rispondere. -Per quanto ne sappiamo, nessuno dei nostri. Tu ci stai provando-
Ronnie cercò di tirarsi su, poi giudicò che stava bene anche sdraiato. -Non.. vi preoccupate. Ho intenzione di restare vivo.- E chissà se sarebbe bastato.
Qualcosa gli bagnava il braccio destro. Sangue. Deglutì, e il mondo riprese a vorticare.
Una mano scattò involontariamente verso le bende, cercando di trovare il punto dove la ferita aveva squarciato la tuta.
-No- sussurrò.
-Ho macerato la lavanda in una borraccia, arrivata dagli sponsor un'ora fa- continuò Ester, con una voce troppo flebile per essere la sua. -Ho messo l'impacco e le bende ma...-
Ronnie esalò un sospiro spezzato. La mano si allontanò dal fianco e ricadde a terra inerte.
La freccia aveva preso l'intestino.
-Devo ricucirlo- disse Ester in un soffio. -Domani, con il sole. Io non... -
Ronnie capiva benissimo quello che non riusciva a dirgli. Le ferite all'intestino si infettavano facilmente anche con i farmaci, senza non c'erano speranze. Gli rimanevano forse due, forse tre giorni. Due, tre giorni.
Era troppo esausto per l'enormità di quel pensiero. Lo rimandò. -Cos'è successo, dopo..?-
-Sei svenuto. Parecchie volte- rispose Liam -Siamo scappati fino al margine del primo bosco, sarà stato due ore fa. Stiamo facendo turni di guardia, Alex e Momo dormono, Amber è dispersa.-
-Hai la febbre- aggiunse Ester.
La foresta aveva cominciato a oscillare in macchie di ombra, dandogli un senso di nausea crescente. -Sì, lo so- biascicò.
-Potrei fare un infuso con la lavanda. I miei fratelli lo usano spesso come calmante-
-Fratelli?- chiese Liam.
-Ho...- Ester tacque. -Avevo due fratelli guaritori.-
Le tempie gli pulsavano, mentre scariche di brividi gelidi gli attraversavano la parte sinistra del corpo. Non che il dolore fosse un brutto segno; perdere sensibilità avrebbe significato dire perdere ogni possibilità di guarire.
-Ho la borraccia e posso farlo bollire vicino al canale di lava, ma abbiamo finito l'acqua.-
-Neve- propose Liam.
-C'è il rischio che gli strateghi la abbiano avvelenata, come nell'edizione di due anni fa. Quando...-
-Rischio?- Ronnie aspirò l'aria tra i denti, sentendo l'ennesima fitta togliergli il fiato. -Ho qualcosa da rischiare?-
Non avrebbe potuto vedere il suo piano attuarsi né fallire. Aveva lottato anni per un mondo che non avrebbe visto sorgere. Sarebbe finito tutto in quella foresta, con la mente annebbiata da qualche infuso di lavanda.
L'ultima cosa che si aspettava di provare, in quel momento, era la rabbia. Eppure la sentiva, calda in fondo allo stomaco.
Dopotutto, la disperazione non ce farei a sopportarla, quindi cos'altro mi rimane?
Ronnie chiuse gli occhi, mentre la risposta si formulava lentamente. Un compito. Aveva ancora un compito.
-Vado- disse Ester, interrompendo il silenzio. Aveva un tono spaventosamente vuoto, ed era la prima cosa che Ronnie non poteva permettersi. La afferrò per il polso prima che si alzasse. -Non è stata colpa tua- disse.
Ester non rispose, ma per un attimo incrociò il suo sguardo. Poi la lasciò andare e sentì l'eco dei suoi passi perdersi nel silenzio. Sospirò a fondo.
L'alleanza aveva bisogno di un capo, una guida. Qualcuno che sapesse scegliere a freddo la cosa giusta da fare, per quanto tremenda fosse. Il suo sguardo cadde su Liam, ma lo escluse subito. Non lo conosceva bene, non aveva motivi particolari per odiare Capitol City e non sapeva ancora se fosse ragionevole o solo crudele. Lì, a dire il vero, il confine tra crudeltà e ragione era molto sottile.
-Alex- decise Ronnie, schiarendosi la voce. I miasmi dolciastri del sangue riempivano l'aria. -Se morirò, la guida passerà ad Alex-
Gli occhi di Liam scintillarono appena, nella notte. -Afferrato-
Ronnie lo guardò più a fondo, la vista offuscata dalla febbre. -Perché?-
-Perché cosa?-
-Perché in tutta la mia vita non ho visto uno straccio di lieto fine e continuo ancora a sperarci? Perché sono così... Così...-
-Idiota?-
-Ottimista. Volevo dire ottimista-
Lo vide scrollare le spalle. -Suppongo sia meglio che piangersi addosso-
Ronnie chiuse gli occhi. -Forse. Ma fa male, ogni volta di più-
Finché non si arrivava al punto in cui non si era più capaci di sopportarlo. Il punto oltre il quale montava la rabbia.
E Ronnie aveva la sinistra impressione di aver appena superato la soglia.
 
 
Diana si appoggiò a un albero, esalando un sospiro che poteva essere di sollievo come di sconforto. Più di sconforto, forse.
Aveva attraversato la piccola foresta che circondava il cratere, camminato per almeno un’ora allo scoperto e finalmente raggiunto quel bosco. Forse era sufficientemente lontano dalla Cornucopia da essere sicuro.
Dei suoi alleati, nessuna traccia. Anzi, della sua alleata, nessuna traccia. Diana a volte si dimenticava che Alek era tra i Favoriti. Da tre erano diventati due.
Attese accigliata qualche istante, poi si rassegnò a correggere di nuovo il pensiero. Da tre, sono sola.
Chissà se Abigail era ancora sua alleata. Sapeva com’era morto suo fratello, aveva visto quell’edizione: immaginava quanto potessero andare a genio le alleanze a una come lei. E forse è più saggia di me. Perlomeno lei non è in una foresta senza zaini e senza armi.
Era stata Abigail a convincerla a scappare. “Andrò io a prendere equipaggiamento alla Cornucopia, poi ci ritroveremo” aveva detto. Magari voleva solo disfarsi di lei e continuare i giochi da sola. Magari era morta. Comunque, non poteva fidarsi più di tanto.
Diana prese un profondo respiro, chiedendosi se riposare o continuare la marcia. La risposta era ovvia. Non sarebbe mai riuscita a dormire.
Le serviva solo una direzione, per non rischiare di girare in tondo. Diede un’occhiata agli alberi. Di solito il muschio cresceva a sud, ma in quei tronchi ce ne erano chiazze ovunque, su ogni lato. Sorrise senza l’ombra di allegria. Bene, non mi posso fidare neanche del muschio.
Alzò lo sguardo. Il cielo, frammentato dalle chiome nere degli abeti, era a malapena visibile. Sospirò di nuovo, poi individuò l’albero giusto e cominciò ad arrampicarsi.
Gli abeti erano un intreccio inestricabile di rami. Quando Diana riuscì a issarsi sufficientemente in alto, era contusa e stanca, con i muscoli allo stremo, piena di graffi e abbondantemente pentita di aver cominciato l’impresa.
Si sedette tra due rami, appoggiò la schiena al tronco e soffiò delicatamente sulle mani. Erano doloranti per la corteccia dura, arrossate per l’attrito, tremanti per... un sacco di motivi, immagino. Se le poggiò calde sul viso e rimase immobile per un po'. Una calma fredda gravava sul bosco sotto di lei. Non c’era un filo di vento. Non un rumore.
Alzò gli occhi al cielo. Non aveva mai visto tante stelle e tanto luminose, e forse qualche settimana prima sarebbe rimasta senza fiato. Non quel giorno, però.
Ritrovò subito il carro, e da lì la stella polare e il Nord. Non aveva avuto bisogno di studiare le costellazioni all’addestramento; non riusciva a contare le serate che aveva passato, sdraiata sul tetto di casa sua, a osservare il cielo con Nathan.
Era stato lui a insegnarle come capire l’ora basandosi sulla posizione del carro. Ci mise un po’ a fare i calcoli necessari, ma alla fine ottenne che dovevano essere circa le due. C’era ancora tempo per marciare prima dell’alba. A quel punto l’idea sarebbe stata di scendere, ma di colpo non le sembrava più tanto entusiasmante.
Le stelle la fissavano vuote dall’alto, e Diana ricambiava lo sguardo altrettanto inespressiva. Con la sola compagnia del proprio respiro, di sé stessa e di una cupa disperazione. Almeno, la paura era più eccitante.
Restò a lì, con un ginocchio stretto a petto e l’altro piede che dondolava nel nulla, sotto uno sterminio di stelle. Per la prima volta, non riuscì a trovarci niente di poetico; nessun brivido, nessuna vertigine, nessun incanto. Non lo proverò mai più. Anche se uscissi di qui, avrebbe già perso qualsiasi significato.
Diana distolse gli occhi, nauseata. Dopotutto, il cielo sarebbe rimasto a guardare. Come sempre.
 
 
Il buio scintillava.
Il nero, scintillava.
Tutto tremava, vibrante di vita, pregno di sussurri di morte.
Perché sussurrava, la morte. Parole che solo lei capiva - che lei ripeteva, le labbra che si muovevano mute, mosse da una lentezza estatica.
Flebile, ma più nitido e vero dell'inconsistenza della vita. La melodia che portava all'abisso, la vertigine ancestrale della notte.
Lo seguì, lo rincorse tra le ombre, quel sottile richiamo che si affievoliva in un fruscio di vento e poi rideva lieve, fuggendo in geometrie invisibili, reclamandola a sé. E aumentava d'intensità, si dilatava nell'aria, martellava l'aria, disegnando scie infuocate nel gelo.
Poi scomparve, e il silenzio si distese come un sudario sulle chiome degli alberi. Soffocarono i suoni, soffocarono le luci, finché rimasero soltanto due ombre.
 
Era arrivata.
 
 
Nell'arena non ci sono modi per risparmiare vite. Essere realisti non è motivo per sentirsi in colpa.
Liam continuava a ripetersi quelle parole nella mente come un mantra.
Si pensa che nell'uccidere una persona succeda qualcosa, il cuore si fermi, tutto cambi consistenza, il cielo crolli a inghiottire la terra.
Invece era tutto fin troppo semplice. Una lama che affondava, un po' di macchie di sangue sui vestiti, e il mondo che smetteva di fingere.
Essere realisti non è motivo per sentirsi in colpa... Liam esalò un sospiro di vapore bianco. Tanto valeva che la smettesse di dirselo, perché la verità la sapeva. A volte ci provava, a mentire a sé stesso, ma con lui non funzionava più da tempo.
E la verità era che Liam non si sentiva affatto in colpa.
Anzi.
C'era una sorta di macabro sollievo nel potersi finalmente considerare un assassino. Anch'io ho smesso di fingere. Fece un sorriso amaro, ascoltando il silenzio. Forse è una fortuna aver rinunciato a credermi una persona decente anni fa.
Per alcuni uomini far pace con sé stessi significava vincere, per altri semplicemente smettere di lottare.
-C'è qualcuno- a malapena un sussurro, ma infranse la quiete sottile come un pugno sul vetro.
-C'è qualcuno!- ripeté Ester, balzando in piedi con il giavellotto in mano. Liam socchiuse gli occhi, liberandosi da qualsiasi pensiero. Non sentiva niente.
-Dove?- la voce di Momo, del tutto sveglia.
-Ci sono...- gli occhi di Ester rincorsero gli alberi tetri della foresta, confusi. -Ombre- soffiò, con un filo di voce.
Liam si sollevò su un ginocchio, guardandosi attorno. La foresta dormiva placida.
-Cosa...- mugugnò Alex.
Ester si girò di scatto, come se avesse sentito qualcosa. -Lì!-
-Non c'è niente- replicò Momo, le sopracciglia aggrottate.
-Niente- concordò Liam.
-C'è qualcosa, vi dico- sibilò lei.
Liam seguì il guizzare del suo sguardo. -Sono ovunque- disse Ester, arretrando. Era pallida. -Dei riflessi neri. Non li vedete? Non li sentite?-
-Cosa dovremmo sentire?- chiese Liam.
-Passi- rabbrividì, voltandosi di nuovo. -Una risata...-
Momo le strappò il giavellotto dalla mano. -Non c'è nessuna risata- sentenziò. -Farò io la guardia-
-È dietro di te!- strillò Ester, gli occhi sgranati. Passarono istanti folli. Non successe niente.
-È tutto a posto?- domandò Liam, squadrandola. Con lo sguardo assente e gli occhi iniettati di sangue, non aveva l'aria di una persona all'apice della tranquillità mentale.
-È scomparso- bisbigliò Ester.
-Cosa?- anche nella voce di Alex c'era una punta di diffidenza.
-Non lo so.. bene- la ragazza si accasciò lentamente a terra, poi affondò la faccia tra le mani. Le nocche le diventarono bianche per la pressione. -Sento delle.. fitte.. alla testa- disse, la voce rotta.
La cappa della notte si era fatta improvvisamente più pesante. Liam distolse gli occhi da Ester, cogliendo il luccichio di qualcosa nel buio. Ma non era un riflesso nero, né un'allucinazione. -Sull'albero!- il richiamo incredulo di Momo. Liam impiegò qualche istante a mettere a fuoco, qualcun altro a crederci, poi ogni dubbio svanì.
Lì, nell'incavo dei rami, c'erano due paracaduti argentati.
 
 
Hazel si chiese se accendere un fuoco. Alla fin fine, se doveva morire, preferiva non farlo con le dita blu.
D’altra parte si diceva che la morte per assideramento fosse tra le migliori. Scivoli nel sonno, non ti svegli più…
Hazel scosse la testa, liberandosi da quei pensieri stupidi e inutili. O meglio, sono intelligenti e razionali, ma non mi illudo di essere abbastanza intelligente e razionale da attuarli.
Crollò contro un tronco, cercando nella tasca del mantello la manciata di mirtilli che aveva trovato.
Alla fin fine, se doveva morire, preferiva non farlo con lo stomaco vuoto.
Attese qualche istante, guardando le bacche invitanti sul suo palmo, poi le rimise al loro posto e si avvolse nel mantello.
L’inno di Capitol City esplose in tutta la sua potenza. Hazel alzò lo sguardo, incontrando gli occhi del Favorito dell’1 che la guardavano dal cielo.  I caduti si susseguirono, uno dopo l’altro. Arcturus era tra di essi.
Hazel appoggiò la testa al tronco. Chiuse gli occhi. Immobile, ascoltò l’inno affievolirsi e spegnersi nel nulla, mentre il freddo penetrava lentamente dalla stoffa fino alle sue ossa.
 

Il mondo non aveva senso.
Amina lo sapeva.
La vita non aveva senso.
Fissava il cielo nero, da dove il volto di Nathaniel la scrutava sorridente.
Poi scomparve anche quello.
Koko, Nathaniel, il circo, Dray, suo padre. Erano tutto quello che aveva, e ora non aveva niente. Solo sé stessa e il suo caos.
Né rabbia, né dolore. Irrequietudine, pericolo, stanchezza, confusione, incertezza, solitudine, vaga vertigine; un miscuglio tale da spossarla senza che neanche sapesse perché.
Amina voleva che qualcuno la liberasse da quel veleno che sembrava scorrerle al posto del sangue. Ma nessuno poteva, perché era lei la prigione.
Lacrime le bruciavano in gola. Si lasciò cadere a terra, le braccia avvolte su sé stessa in un abbraccio silenzioso, come a voler tenere insieme i pezzi.
Poi successe. Non seppe perché. Un dolore diverso si fece strada in lei, appena distinguibile nella matassa confusa che erano i suoi pensieri.
Stanca, inaspettata e quieta, Amina sentì la nostalgia. Erano anni che non la provava, ma erano anche anni che non si sentiva così sola.
Nostalgia di qualcosa che le sfuggiva, ma era certa di aver provato una vita prima. Nell'ultimo abbraccio in cui si fosse davvero abbandonata - quando ancora riusciva a crederli veri. Quello di Dray, la notte del rapimento.
Non riusciva più a ricordarla, la sensazione di calore soffuso, fermo, calmo, che avrebbe imposto note morbide e lievi nelle pennellate nette, sfolgoranti e furiose della sua vita.
Ma in quel momento, la tela era vuota.
Bianca.
Amina doveva riempirla, e Nathaniel non c'era per farlo, Dray nemmeno. La tenerezza era morta da tempo, l'aveva sotterrata lei stessa.
Voleva piangere. Urlare fino a farsi male. Bruciare. Attaccarsi a una bottiglia di vino e bere, bere, sentire il fuoco liquido dilaniarle la gola, annientare quel vuoto. O annientare sé stessa, chissà.
Chissà dov'era la differenza.
Strinse il pezzo di corteccia tra le mani, lo sentì penetrare nel palmo. Dolore. Dolce, familiare. Si sentì di nuovo viva.
Amina sorrise. Strinse le ginocchia al petto e vi poggiò sopra il mento, sentendo piccole gocce di sangue riscaldarle le mani chiuse a coppa.
Era nell'arena.
Per quanto non volesse crederci.
Era nell'arena, senza zaino, senza cibo, senza armi, senza nessuno.
Poi, un rumore tra le fronde.
Amina alzò gli occhi, lasciandoli vagare per qualche istante nella notte. Lì dove incontrarono quelli di Harvey Cadwalader.

 
Scarlett sentì la schiena di Samuel dietro di sé. Nessuno fiatava, mentre osservavano la radura intorno a loro, alla ricerca di un guizzo tra le foglie, di un rumore qualsiasi, un attacco o qualcosa da attaccare.
Perché c’era, quel qualcosa. Scarlett l’aveva visto, un secondo prima che si dissolvesse.
-Sei sicura?-
-Sam, l’ho visto anch’io- rispose Stephen al suo posto. –Era…- sollevò il tridente, indicando un albero.
Scarlett sentì le dita formicolare mentre afferrava gli artigli, indossandoli senza staccare gli occhi dal tronco. L’acciaio brillò freddo.
-Lì!- Scarlett si girò di scatto, e per un istante fu certa di averlo visto. Una sagoma appena più sbiadita sul ramo dov’era appena balzato; poi l'ibrido sfumò nelle venature del legno, o del buio.
-C’è ne è un altro- disse Samuel, piano. Scarlett si avvicinò a passi lenti verso il punto dove era scomparso, divorando la corteccia con lo sguardo.
Poi una seconda ombra la costrinse a voltarsi di nuovo.
-Scarlett, dietro di me. Dobbiamo proteggerci le spalle a vicenda- non aveva mai sentito la voce di Samuel tanto seria. Obbedì, senza smettere di guardarsi intorno. L'ombra era scomparsa.
-Li vedete?- sussurrò Stephen.
-Sono troppo veloci- disse lei.
Un altro guizzo tra le fronde. Scarlett cercò di controllare il respiro, mentre la tensione si faceva via via più opprimente. E pensare che un tempo l'aveva amata, la tensione.
Qualcosa si muoveva attorno a loro, ma appena Scarlett ci posava sopra lo sguardo vedeva solo buio.
-Vogliono farci impazzire- disse Stephen.
-Vogliono ucciderci- disse secco Samuel.
-Tacete- disse Scarlett, concentrandosi. Ad animare il silenzio, solo il verso cupo di un gufo.
-Non fanno alcun rumore- rilevò Stephen.
Qualcosa saltò tra gli alberi. Scarlett incoccò la freccia, mentre il cuore accelerava. -L'avete visto?-
-Cosa?-
-Grande, con una coda attorcigliata.- rispose Stephen. -Sì, io sì. Ma non è l'unico-
Scarlett strinse i denti con uno scricchiolio, poi si voltò di scatto.
-Ho come l'impressione che ci stiano circondando- fece Stephen.
-Siamo già circondati- corresse Scarlett. -Ora stanno... Stringendo il cerchio-
Scagliò via l'arco, con una certa riluttanza. Non c'era spazio per usarlo.
-Solo un prestito- Samuel le sfilò una freccia dalla faretra, brandendola insieme alla spada.
Anche Stephen lasciò cadere la rete, estraendo il loro unico pugnale, il tridente stretto nell'altra mano.
Restarono lì, spalla contro spalla, ad ascoltare il suono del loro respiro.
-Sono scomparsi- osò sussurrare Stephen. E fu in quel momento che l'ibrido attaccò.
Uno scatto fulmineo dell'artiglio destro, ma Scarlett fendé solo l'aria.
-Era un...- Scarlett cercò freneticamente di ricordarsi il nome, ma non ci riuscì.
-Non l'hai preso?- chiese Samuel.
Era quello il problema. -Non ne ho la più pallida idea- sussurrò.
Poi, fu l'inferno.
Scarlett sferrò un colpo alla cieca, l'artiglio sinistro ripiegato a proteggerle il viso. Gli ibridi saltavano ovunque in un assalto di ombre confuse.
-Sono camaleonti- ringhiò Samuel. Era quello il nome, quindi.
Quando Scarlett si era offerta, sperava in combattimenti, adrenalina, nervi a fior di pelle. Forse erano i sogni ad essere illusori, o forse era lei ad essere cambiata. Perché tutto quello a cui riusciva a pensare, in quel momento, era a come rimanere viva.
Gli ibridi si susseguivano ondata dopo ondata, troppo veloci, numerosi e sfuggenti per mettere a fuoco altro che il pericolo. Il combattimento si protraeva sempre più a lungo, e lei si stancava sempre di più, ma ogni sforzo, ogni attacco, non incontrava altro che l'aria.
Scarlett ringhiò quando l'ennesimo pugno andò a vuoto. Si sentiva ridicola, ed era il sentirsi ridicola a farle crescere una rabbia sordida.
Fece un passo in avanti, roteò su sé stessa e affondò entrambi gli artigli. Nelle tenebre. La parte ragionevole di lei cercava di imporle lucidità, ma ormai era una parte piccola e senza senso.
I suoi colpi stavano diventando veloci, furiosi e scoordinati, guidati solo dall'odio. Odiava il buio, odiava quella dannata arena, odiava sé stessa. E quella sensazione bruciante annientava qualunque altra cosa.
Scarlett non se ne accorse.
La schiena di Samuel non era più dietro la sua. L'attimo in cui lo capì fu lo stesso in cui si rese conto di essere circondata. La rabbia lasciò spazio a una frenetica disperazione - perché non riusciva, neanche in quel momento, a chiamarla paura - mentre si voltava di scatto per ritrovare la sua posizione. Ma era troppo tardi.
Non ebbe neanche il tempo di capire, di pensare a niente. Due gigantesche iridi gialle, poi il camaleonte piombò sul suo viso.
La notte continuò a scorrere. Il dolore non arrivò. Dimentica del turbinio di ibridi attorno a lei, Scarlett posò la mano sulla guancia, facendo attenzione a non tranciarsi il collo. La sua pelle era liscia e intatta.
-Fermatevi!- gridò. -Maledizione, state fermi-
-Che stai dicendo?- Samuel affondò la freccia davanti a sé, colpendone un altro con il pomolo della spada.
Alcuni ibridi cominciarono a svanire, confondendosi nella notte.
Scarlett staccò dagli altri Favoriti, con un sorriso incredulo e il respiro ancora affannato. -Non sono reali. Stephen! Samuel! Non sono reali-
Si piegò su sé stessa, quasi stordita dal sollievo.
-Illusioni- constatò Stephen, esterrefatto. Qualche altro salto, poi tutti si furono dissolti nel buio.
-Ologrammi?- Samuel girò lentamente su sé stesso, forse cercandone ancora qualcuno tra le ombre.
-Sembrava impossibile che cercassero di farci fuori la prima notte- Scarlett si tirò via la frangia di capelli rossi dalla fronte, aspirando una boccata d'aria dolce come nettare. Era viva. Era ancora viva.
Eppure, nessuno dei tre sembrava ansioso di riporre le armi.
-Ma perché...- Samuel non finì la frase. Un boato secco e deciso percosse l'aria.
-Altri ibridi?- chiese Stephen, la voce non troppo entusiasta.
-Se è così sono lontani- Scarlett scattò verso il suo arco, mentre il sollievo svaniva. Il suono si ripeté.
-Fin troppo vicini per i miei gusti- Samuel raccolse due zaini in un colpo solo. -Andiamocene di qui-
Un fragore sordo, terrificante. Poi come un fruscio sommesso e il suono di qualcosa che si sgretolava. Scarlett non aveva alcuna voglia di scoprire cosa.
-Andiamocene di qui- confermò, strappando via la freccia dalla mano di Samuel. Concesse un ultimo sguardo alla radura, prima di immergersi nelle tenebre.
Si era offerta. Era ora che affrontasse il peso delle sue scelte, e solo i deboli potevano permettersi di guardarsi indietro.

 
Alek si deterse il sudore dalla fronte e sorrise. Avrebbe fischiettato, se fosse stato solo un gradino più in alto nella scala della pazzia. Ah, ma ci arriverò, prima o poi. Un passo per volta.
Caricò, poi sferrò un altro colpo al tronco steso di fronte a lui. L’ascia colossale si piantò nel legno con il solito schiocco, diffondendo nell’aria l’odore pungente di resina. Odore di casa.
Pensò all’espressione che doveva avere suo padre in quel momento mentre lo guardava, e per poco non si mise a ridere. Un ultimo colpo, poi gettò a terra l’ascia. Flettere la schiena gli dava solo un leggero fastidio, la sua ferita da freccia era poco più di un graffio.
Si sedette a cavalcioni sull’albero abbattuto, adesso spaccato in due, e sollevò davanti a sé la sezione circolare di tronco che aveva tagliato. Oltre all’indubbio fascino tattico, aveva la bellezza geometrica di centinaia di anelli concentrici che partivano dal centro e si allargavano fino ai margini, facendosi strada tra le venature del legno.
Prese l’accetta dalla cintura e riprese a tagliare il suo cerchio, cercando di dargli una forma più adatta a uno scudo. Riuscì appena ad abbozzarla, ma non si era aspettato niente di più. Aveva sempre amato la falegnameria, solo che non si era rivelato mestiere per lui. L’unica cosa che suo fratello era riuscito a insegnargli come intagliare era il flauto.
Sono sempre stato più bravo a distruggere che a costruire. E lì, dove distruggere era l’unica cosa che contava, stava riprovando. Era certo che ci dovesse essere dell’ironia, da qualche parte.
Alek rimise a posto l’accetta e prese il coltello. Quattro fori in tutto, due a destra e due a sinistra, uno sopra l’alto. Poi si tagliò due lunghe strisce elastiche dalle maniche della tuta e annodò le cinghie. Trepidante, ci infilò dentro il braccio sinistro e impugnò la sua ascia con entrambe le mani.
Provò a proteggersi il petto con lo scudo, sferrare un fendente, alzarlo sopra la testa, tentare un colpo dall’alto in basso e tornare in difesa. Sorrise alla notte.
Non intralciava la lama e la presa era abbastanza salda. Non sapeva quanti colpi avrebbe potuto reggere, ma era sempre stato un'ottimista.  Mollò l’ascia e si sedette di nuovo, il respiro appena affannato, poi passò una mano tra i capelli. I trucioli di legno caddero a terra con un ticchettio gentile, familiare, rassicurante.
Alek passò le dita sulla corteccia dello scudo, sentendo una lieve fierezza riempirlo. Poi staccò un ramo dal tronco e cominciò piano ad intagliare.
Mancavano ore di veglia prima dell’alba, e lui voleva un flauto.

 
Le due pietre brillavano, artigliando il nero di scaglie argentate. Le prese, lisce e fredde contro il palmo. Il suo sguardo scivolò più in là, dov'era la sagoma scura, e un sorriso bianco le si disegnò sul viso.
Tlin. Le pietre cozzarono l'una contro l'altra in un'esplosione di scintille. Si attorcigliarono in spirali invisibili, che bruciarono per un solo istante prima che il buio le reclamasse a sé.
Tlin. Le pietre cozzarono l'una contro l'altra. L'aria fremeva, ribolliva e pulsava, di diafane trame e invisibili promesse.
Tlin. Le pietre cozzarono l'una contro l'altra. Stridente ed empia - l'attesa.
Tlin. Le pietre si affilarono l'una sull'altra. Sibilo inafferrabile di una carezza letale.
Tlin. L'attesa. Il sottile equilibrio sul filo di una lama, liscio e incorruttibile, limpido e fragile, come l'increspatura invisibile in una pozza d'acqua calma.
Tlin. L'attesa. Inevitabile - irrinunciabile. Perchè a volte la sofferenza finisce troppo in fretta.
Tlin. La sagoma scura dormiva. Gehenna la osservava, tanto vicina da sentire il suo respiro.
Tlin. La prima cosa ad arrivare era la confusione. L'illusione di non capire, l'ultima difesa; lo spazio interminabile di un respiro, poi si infrangeva come ghiaccio sottile. E il viso rimaneva scoperto, vulnerabile - pronto a infrangersi anch'esso.
Tlin. Era allora che arrivava la paura. Il risveglio, dilagante, corrosivo.
E poi c'era l'istante. Quel bellissimo, interminabile istante che si illude di ingannare il tempo, l'istante che passa tra il taglio e il dolore.
Tlin. Un sussulto. L'incredulità, troppo veloce anche solo per percepirla. Crollava. Crollava,  e il sasso cadeva nella pozza d'acqua calma.
Tlin. Allora arrivava, inesorabile come il divampare di un incendio. Il bacio del dolore.
Tlin. E si scioglievano i lineamenti, le espressioni, i pensieri. Si scioglievano le persone, nell'ardere di un fuoco insaziabile. Verace e imperscrutabile, puro e purificatore.
Tlin. Infine, le ali si aprivano a coprire il cielo. L'oblio arrivava lentamente, silente come il volo della cenere al vento.
Tlin. Il lamento del ferro torturato, il canto dell'inevitabile.
Tlin. Le ali si chiudevano. La sofferenza finiva, la pozza tornava calma. L'aria scintillava un ultimo istante, poi, come il respiro straziante dopo il soffocamento, si quietava.
Tlin. Oblio. Perchè la notte dimenticava in fretta.
Gehenna sollevò il sasso. Un singolo riflesso nero scivolò lungo il filo, viscido e sottile come un serpente, e cadde nel buio.
 
Era stata bella, l'attesa. Ma come tutto ciò che è bello, era destinata a una fine.
 

Axe cercava Diana.
Erano quattro ore che Axe cercava Diana.
Erano quattro ore che Axe cercava Diana con il suo arco in mano.
-A saperlo avrei preso uno zaino- sibilò. Aveva deviato lungo il cratere per incrociarla, dato che doveva essere scappata - gliel'aveva detto lei stessa.
Axe scostò con la mano un ramo che le intralciava il cammino, sentendo il nevischio crollare giù a bagnarle la tuta. Sapeva che avrebbe dovuto essere contenta di quell'Arena; dopotutto, era per abituarsi al freddo della tundra che aveva sempre indossato anni i pantaloncini corti anche d'inverno. Per prepararsi.
L'arco rimbalzava contro la sua gamba, un tenue e regolare struscio che non la aiutava a pensare. No, non era affatto contenta di quell'arena. Perché ogni passo le ricordava quella di Marcus, la neve che cadeva candida nel sangue, che beveva il suo sangue.
Axe si bloccò. Ho visto male. Devo aver visto male.
Però era lì, un mucchietto nero rannicchiato su sé stesso.
Fece due passi indietro, descrivendo una silenziosa curva tra gli alberi, con un mano alzata a sfiorare il morbido impennaggio delle frecce.
Idiota. Perché diavolo si è fermata lì? Perché non si è allontanata prima di mettersi a dormire come se stesse facendo una gita in montagna? Perché...
Axe strinse l'arco, sentendo le nocche sbiancare per la forza. Grandioso. Neanche un giorno, e già gli Hunger Games le offrivano l'opportunità di rovinarsi la vita.
Era la ragazza del distretto nove, quella che aveva davanti. La dannatissima ragazza del distretto nove.
Axe imprecò tra i denti, trattenendosi dall'istinto di indietreggiare. Era lei quella con l'arco in mano, eppure non si era mai sentita tanto braccata. Lepre nella rete. Nessuna via di scampo.
Prese una freccia, senza distogliere gli occhi dal tributo. Una ragazza addormentata, disarmata, con niente per difendersi.
Una vigliaccata. Ecco cosa sarebbe stato quell'assassinio.
Axe scosse bruscamente la testa, affondando i denti nel labbro inferiore. Cosa vorrei fare, svegliarla, buttare via l'arco e proporre uno scontro leale? Al meglio su tre, magari?
Ai morti non importava di essere finiti a putrefarsi onorevolmente o meno.
Di possibilità sensate ne aveva solo due; fuggire, sperare che la uccidesse qualcun altro e bearsi della purezza della propria anima non era tra queste.
Abigail si accorse che le sue mani non tremavano mentre incoccava la freccia.
 
-Marcus, non lo fare, non lo fare...-
La voce sommessa di suo padre, con gli occhi fissi sullo schermo. Lì, dove suo figlio aveva un'ascia in mano e osservava un tributo addormentato, l'indecisione negli occhi.
Abigail non riusciva a respirare, né a distogliere lo sguardo. Le dita di Ezra incontrarono le sue e le strinsero.
Marcus fece un passo più pesante degli altri, un ramo scricchiolò. Il tributo aprì gli occhi e lo guardò. Era solo uno schermo piatto, opaco e graffiato, ma Abigail vide comunque il terrore. La disperazione. La rassegnazione.
Passarono istanti surreali.
Poi, il tintinnio di un'ascia che cadeva a terra. -Alleati?- chiese Marcus, tendendo la mano.
 
Abigail Jaime scoccò.
L'istante dopo, il sangue macchiò l'oscurità come un lampo nel cielo terso.
Axe abbassò l'arco, camminò verso il tributo, un silenzio frastornante nella mente. Non era del tutto cosciente di sé, mentre si chinava su di lei, forse per assicurarsi di non doverla finire. O forse solo perché sapeva che qualsiasi codardo sarebbe scappato.
La ragazza soffiò un urlo che risuonò più come un sospiro. Si portò le mani appena sotto la gola e rigagnoli rossi le ruscellarono tra le dita. Fu quel colore, vivido, vero, a spazzare ogni illusione. Era successo davvero.
Abigail le si sedette accanto. Non disse niente. Non fece niente. Semplicemente aspettò.
-Non... Pensavo...- poco più di un rantolo. La ragazza alzò una mano scossa tra i fremiti.
Senza sapere perché, Axe l'afferrò.
E per qualche altrettanto assurdo motivo, l'altra ricambiò la stretta.
Il tributo sputò un fiotto di sangue e arcuò spasmodicamente le dita, artigliandole il palmo. Axe non scappò, mentre il respiro della ragazza si faceva gorgogliante e straziato.
Axe non scappò. Neanche quando il colpo di cannone si dilatò nel nulla. Restò lì, tra le ombre, mentre le dita del tributo diventavano fredde e rigide tra le sue.
Fu un quieto scintillare di argento che gliela indicò. Conficcata in un albero, minuscola e silenziosa.
Abigail strinse l'erba sotto il suo palmo, poi fissò la telecamera. La fissò, e gli istanti passarono l'uno dopo l'altro. La fissò, l'abbraccio del silenzio saldo come quello della terra che custodisce i morti.
La fissò, con tutta la furia che un ragazza di quindici anni potesse contenere.
-Non sarò io a dannarmi l'anima per questo- sussurrò.
 
Tlin.
Sono solo animali al pascolo, pensa Clyph. Seduto sul tetto della sua casa, guarda in alto.
Tlin.
"Campane a lutto", sussurra una voce. Clyph si volta e vede sé stesso. "E sai per chi suonano" continua Whys.
Tlin.
"Non è vero. Mamma non è morta. È solo svenuta"
"Era malata, lo sai"
Tlin.
"No, è solo un sogno. Tu non esisti nemmeno."
"Pensi davvero di poter distinguere la realtà da un sogno?"
Clyph guarda le praterie perdersi in lontananza. Tlin. Sono solo animali al pascolo.
"La realtà è come la vogliamo vedere noi" dice Clyph.
"E se non fosse così?"
"Non lo sapremo mai. Quindi, se ci crediamo, lo diventa."
Il silenzio trema.
"Non sono animali al pascolo"
Tlin. Ora il suono sembra spaventosamente vicino.
"Se la verità non si può definire, non esiste il falso, né il vero. Li scegliamo noi" dice Clyph.
"Bugiardo"
Tlin.
Clyph alza gli occhi al cielo. Si sta scurendo. "Non sono campane"
"Lo sai per chi suonano?"
Clyph socchiude gli occhi. "Posso decidere io. È il mio sogno, la mia realtà"
"È vero. Ma non puoi decidere tutto". Whys si avvicina, un sorriso innaturale sulle labbra. "Non tutto. C'è una verità"
Clyph tacque. "Non suonano per mia madre"
"Non per lei"
Tlin. Quel tintinnio che sembrava divorare qualsiasi altro suono. Tlin. Tlin.
"C'è una verità" ripete Whys, quel suo ghigno demoniaco in viso. "Una sola."
Qualcosa vola nel cielo. Un cerchio nero di uccelli. Le loro ali oscurano il sole.
Tlin. "Non puoi fermarla. Non puoi ingannarla. Non puoi scegliere" dice Whys. Tlin. "È l'unica verità"
Le campane funebri. Clyph tace, guarda gli avvoltoi sopra di lui. Il cielo ora è nero.
"L'unica verità" dice Whys. Si avvicina, gli prende il mento tra le mani. Ha le dita gelide, le sente sul collo. I suoi occhi sono pozze fredde di divertimento. "L'unica verità" sussurra.
Gli avvoltoi gridano rauchi, un grido che gli penetra tra le orecchie fino a stordirlo. Le loro ombre sfrecciano sul mondo. Tlin, tlin, tlin, quel tintinnio che adesso è risata e adesso è ruggito, che stride dentro di lui, che echeggia fino a far tremare l'aria. Tlin. Tlin. Tlin. Tlin.
 
Clyph si svegliò di colpo, e sentì la consistenza gelida di una lama sul collo.
Aprì la bocca per urlare, e fu in quell'istante che la sua gola si aprì come un fiore rosso.
-Shh...- sussurrò Gehenna, un soffio quieto come alito di vento. -Dormi-
 
L’aurora sorse lenta.
Una foschia sottile e immobile velava il cielo di una cappa grigia, intorbidendo l’aria e trasformando il sole in una chiazza rosso cupo. Un singolo raggio color del sangue secco era cristallizzato lungo l’orizzonte.
Eppure, Xen non era mai stato tanto contento di vedere l’alba. Fece ancora qualche passo incerto nella foresta, un lungo giro su sé stesso per accertarsi di essere solo, poi si lasciò cadere sul terreno gelato.
Ansimò. I piedi sembravano andargli a fuoco nelle scarpe della tuta, unico punto caldo del suo corpo e unico vantaggio di aver marciato sei ore ininterrotte.
Aveva girato nel boschetto attorno al cratere fino a ritrovarsi dall’altro lato delle pedane, con il fiato dei Favoriti sul collo. A ripensarci, sentiva ancora il sangue ghiacciarsi nelle vene, ma era servito. Non solo a sapere che la Cornucopia era affondata in un lago di lava e che i Favoriti erano rimasti in tre: il cratere era il punto più alto dell’arena, il migliore per farsi un’idea di come fosse fatta.
Xen cominciò a disegnare un abbozzo di mappa su un velo di neve. Non che temesse di dimenticarsela, ma voleva che gli sponsor capissero quanto sapesse. L’arena aveva una forma rotonda, e dal cratere partiva un’interminabile discesa che finiva su un’ampia striscia blu, che poteva essere una cosa sola. Passò il dito lungo il contorno, dubbioso. Mare. Forse il nemico più pericoloso, forse il posto più di sicuro dove stare. In ogni caso, la sua meta. Tanto, di fortuna ne dovrò comunque avere tanta. E dare un nome alla speranza è più rincuorante di qualsiasi cosa.
Tracciò i profili dei boschi che si ricordava, segnando quelli più vicini alle pedane iniziali e quelli più vicini ai ponti d’uscita, dove probabilmente aveva puntato la maggior parte dei tributi. Una lunga linea, l’itinerario più sicuro che aveva trovato, e la sua posizione. Ci aveva messo meno del previsto ad arrivare a quel bosco, e si era fatto un’idea delle distanze; sarebbe arrivato al mare dopo un altro giorno di marcia. Ad occhio l’arena poteva essere sui dieci chilometri di raggio, o poco più.
Il suo dito curvò lungo un ampio cerchio attorno alla Cornucopia, e lo fissò mordendosi il labbro. L’area di caccia dei Favoriti. Avrebbe dovuto ingrandirla ogni giorno.
Divise l'arena in altri due centri concentrici, sezionati da quattro raggi che partivano dal cratere. Canali di lava, come quello che aveva fianco in quel momento. L'unica speranza di non morire assiderati.
Tanto, bisognava essere realisti. In qualsiasi scontro sarebbe morto, l’unica carta che poteva giocare era nascondersi e sopravvivere. Arrivato al mare sperava di poter trovare provviste, e forse avrebbe anche potuto costruirsi un rifugio; come, non lo sapeva ancora, ma era meglio avanzare un passo per volta.
Pensò ai suoi alleati, di cui uno era già morto, e rabbrividì. Nessuno avrebbe potuto seguirlo in quella marcia infinita. Sarebbe rimasto solo, da lì fino al duello finale – o almeno, così sperava.
Il duello finale. Xen scacciò via il pensiero in un istante, tornando a concentrarsi sull’immagine del mare che si perdeva all’orizzonte.
Perché non credersi spacciato era l’unico modo che aveva per non esserlo. O almeno, così sperava.



N.d.A.



 

Dicono che scrivere sia educativo.

 

Scaletta dei morti:

Clyph Earles, distretto 8

Sapphire Caterina Javenne, distretto 9

Scaletta di malati, feriti, bisognosi, morti di fame, senzatetto e tutto il resto:

Ronnie Dalton (già sponsorizzato e fuori pericolo), distretto 11

Alex Sunshine (idem sopra), distretto 9

Alek Snowden, in via di guarigione, distretto 7

 

Samuel non lo metto perché è praticamente guarito, aveva solo qualche graffio vicino agli occhi. 
Le direzioni dei tributi le ho scelte un po' dalle loro posizioni al Bagno di Sangue, un pò dai loro piani, un po' a sorte. Sapphire e Clyph hanno incontrato Axe e Gehenna per puro caso - loro non dovevano morire! Solo che le altre non erano della stessa opinione.

Clyph, caro Clyph, da bugiardo patologico ti ho trasformato in pseudo seguace della filosofia scetticista. Involontariamente, poi. Ho collegato solo ora.

Il POV non mi ha permesso di spiegarlo, ma Whys l'ho usato come proiezione del sé stesso felice, che vive nella realtà come la vuole vedere e plasmare lui. Quello che vince a dodici anni, quello il cui mondo è pieno di volontari ed eroismo, quello che ha un gatto non morto di fame. Il sogno è criptico, come un po' tutto questo capitolo, e non so se si capisce qual è l'unica verità; cioè, a me sembra scontato, ma tra le due cavie che ho usato solo una ci è arrivata. In ogni caso, mi scuso con la creatrice per la libera interpretazione che ho fatto della sua scheda.

Il POV di Gehenna mi ha traumatizzata definitamente, spero non sia stato lo stesso per voi.

Ah, e c'è una cosa che avevo dimenticato di dire alla sponsorizzazione. Avevo accennato, qualche capitolo fa, al fatto che i personaggi che più avrebbero fatto colpo su Capitol City avrebbero avuto qualche vantaggio.

È irrealistico che non siano più sponsorizzati degli altri, perciò mi sono concessa anch'io 7 soldi, che potrò usare, almeno per ora, esclusivamente su:

 

Samuel

Stephen

Scarlett

Alek (chi non ha scommesso su Alek?)

Gehenna (ovvi motivi)

 

E i restanti 3 punti per:

 

Harvey

Amina

Xen

 

Ovviamente i preferiti dei capitolini possono cambiare, vi avviserò.

Detto questo! Dell'arena non avrete capito niente, ma dal prossimo capitolo le cose si faranno più chiare. Forse.

Scusate il ritardo (ho un dejavu), se queste sono vacanze io vivo in Svizzera. A forza di amiche e viaggi la maggior parte del capitolo l'ho scritta dall'una alle tre di notte. Beh, se fossi un mio lettore avrei già smesso di sopportare aggiornamenti così, perciò se volete mandarmi a quel paese vi capisco.

In compenso ho pensato parecchio, e scritto pezzetti a caso del prossimo capitolo (la mia maledetta ispirazione fa come le pare) perdendo altro tempo. E perdendo ancora più tempo mi sono preparata pov e caratterizzazione di personaggi nuovi, che inizieranno una storia parallela a questa... Credo... Fra due capitoli.

Okay, lo ammetto. Sto provando a programmare una ribellione, ma la maggior parte delle ipotesi finisce con qualche distretto raso al suolo dopo tre o quattro giorni e il presidente Snow che ride. O che indica alla nipote dei deliziosi funghi atomici e fuochi d'artificio (?)

A proposito, io non sono una fan sfegatata di hunger games e quindi l'ultimo libro l'ho riletto una volta sola e non le quindici che penso essere la media. Su internet non ho trovato un niente, dunque, posso fare qualche domanda ai recensori per evitare di scrivere idiozie?

-Capitol City ha armamentario atomico? Sono quasi sicura di sì, ma chiedo conferma

-C'è scritto all'incirca quanti abitanti ci sono per ogni distretto? Io immagino sul milione, e un po' più nell'11.

 

La buona notizia è che pubblicherò tra poco, e questa volta credo di essere sincera, perchè le prossime tre settimane non avrò letteralmente niente da fare tutto il giorno. Oh sì.

Tenterò anche di accorciare i capitoli, almeno questa volta: 14 pov non sono veramente fattibili. Credo che nel prossimo ne metterò solo 8 e ignorerò chi non ha molto da fare o da pensare. Non vogliatemi male, sono stufa di aggiornare ogni mese e così annacquato il capitolo diventa noioso. Ho intenzione di pubblicare tra 7-10 giorni. Ma voi è meglio se non ci credete

Spero che leggere non vi sia dispiaciuto troppo. Grazie, lettori, recensori e non.


 
  
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