{ Grauman’s Chinese Theatre ~ File 0.5 }
Stark
Industries, Los Angeles.
Locale
Sotterraneo.
2013
Negli intenti –E nei
piani- di Pepper, il locale sotterraneo doveva essere un bugigattolo per
archiviare scartoffie. Il che era andato benissimo fino a quando Tony Stark non
era tornato dall’Afghanistan con un cerchio di luce nello sterno ed una protesi ad alta tecnologia addosso: da
quel momento in poi, visti anche gli inconvenienti
più o meno accidentali in cui al magnate era capitato di imbattersi, la parola
d’ordine era stata “allenarsi.”
Da allora, lo
pseudo-scantinato era stato trasformato in una succursale in piena regola della
palestra di casa Stark, più sobria e con meno attrezzature rispetto agli
inquantificabili metri quadri che davano sulle onde di Malibù.
Chiunque,
ovviamente, vi poteva avere accesso e sfogare ogni frustrazione possibile alla
luce ovattata che proveniva dalla strada e filtrava dalle finestre ad altezza
del marciapiede. Di fatto, il solo ad utilizzarla era Tony, durante i periodi
di magra tra –E durante, quando si
scordava- una riunione e l’altra.
Ora che l’incidente
di Virginia l’aveva costretto a tornare stabilmente dietro la scrivania, Stark
ne aveva approfittato per togliere un po’ di polvere dal ring e dai guantoni.
Era stato lontano troppo a lungo, risucchiato dal buco nero di Manhattan, e la
palestra delle Industries aveva assunto un aspetto squallido ed un unto, con
muffa agli angoli del soffitto, boccoli di lerciume sul pavimento e un odore
parecchio sgradevole, in grado di annodare lo stomaco di chi si fosse
avvicinato a meno di due metri.
Hogan, Tony ne era
consapevole, aveva accettato con gioia di riprendere l’incarico di personal
trainer. Forse con veemenza eccessiva, considerato come scricchiolavano le
articolazioni del magnate alla fine della sessione quotidiana. O da come si
attorcigliavano i polmoni e la bocca si macchiava di nausea –Sebbene, era
inutile girarci attorno, gli ultimi due sintomi, uniti al mal di testa
lancinante, erano un’ovvia conseguenze delle sbronze giornaliere.
Era anche per quello
che Stark aveva deciso di riaprire il fu-archivio e distruggersi muscoli e
ossa: il sudore e la fatica costituivano un valido contro bilanciamento al
cervello di spugna, alla lingua gonfia e pesante, al vomito e a tutti gli altri
vani tentativi di calmare gli attacchi di panico attaccandosi alla prima
bottiglia di liquore che gli capitava in mano.
Non che i suddetti
attacchi fossero scomparsi, sia chiaro, ma se a stento riusciva a stare sulle
gambe inzuppate di acido lattico, come poteva concentrarsi sul fiato conficcato
nella gabbia toracica? Stordirsi senza per forza condannare a morte il fegato,
era un’alternativa cui aveva cominciato a pensare prima dell’affare Avengers e
su cui era ritornato a ragionare dopo la morte di Fury e la comparsa del
Mandarino.
«Il nome viene da un
antico mantello cinese che significava Consigliere
del Re» disse, tirando un gancio e spostandosi di lato «Riprende le
tattiche di insurrezione sud-americane» chinò di scatto la testa per evitare il
colpo di risposta di Happy «Parla come un predicatore battista…C’è molta
ostentazione qui.» commentò «Molto teatro.»
Aveva guardato il
videomessaggio del Mandarino fino a poterlo recitare a memoria, aveva ascoltato
e registrato ogni intonazione della voce, ogni frase, ogni parola, aveva
mandato a mente ogni suo gesto, nella speranza di comprendere la folle armonia
di immagini e propositi celati dietro la figura magniloquente del terrorista.
Tony scansò un
dritto di Happy, incassò la testa nelle spalle e caricò un pugno.
«Niente male.» lo canzonò una voce
divertita alle loro spalle, giunta tanto all’improvviso che Stark perse ogni
briciolo di concentrazione e quasi capitombolò sulle corde del ring «Per essere
un soggetto da scrivania, è in forma sorprendentemente buona.»
Mentre Hogan se la rideva sotto i
baffi, Stark raddrizzò la schiena, si schiarì la gola e si girò a gelare
Hendrick con un’occhiata da manuale. Colin rispose chinando la fronte in un
cenno di scuse, quindi scese i due gradini che alzavano la porta dal pavimento
vero e proprio; teneva le braccia incrociate al petto, una cartelletta di fascicolami
ben pressata alla camicia verde mela e alle bretelle color muschio –Alla
cravatta della medesima tonalità e puntinata di minuscole clessidre rosse, Tony
ebbe un moto a metà tra la stizza ed il travaso di bile.
Il figlio di Howard aveva supposto che,
dopo la morte di Fury, Hendrick sarebbe stato richiamato immediatamente a
Washington per una indagine preliminare o comunque come testimone od altro.
Invece, l’Agente non aveva ricevuto istanza alcuna ed era rimasto fedele al
proprio ruolo di segretario, elevandola platealmente ad ancora di salvezza
nella confusione generale.
Per quanto tentasse di sembrare
tranquillo e operoso come prima della scomparsa del Direttore, infatti, Tony
non era riuscito a non notare i cambiamenti avvenuti in Colin in seguito al
fattaccio: se sul lavoro non perdeva comunque un colpo, era efficiente e mai in
ritardo, rideva assai di meno, aveva le sopracciglia costantemente aggrottate e
la mandibola contratta. Pareva percorso da continui brividi sottopelle,
impercettibili ad un primo sguardo, che facevano vibrare la sua persona da capo
a piedi e rendevano palpabile la tensione dei muscoli al di sotto degli abiti.
Dalle iridi cupe, quasi incolori, affiorava ora una striatura sottile e
pericolosa, la stessa che Stark aveva visto più di una volta palesarsi negli
occhi di Barton e della Romanoff.
«Che hai per me?» gli domandò Stark,
ingollando quelle elucubrazioni con una sorsata d’acqua dalla borraccia
all’angolo del ring «Spero siano inviti ad un party o qualcosa del genere.»
«Temo di no» si scusò Colin,
sorridendo appena, nell’avvicinarsi alle corde «Sono richieste ed e-mail ed
esortazioni per lei da parte della signorina Justine Hammer.» gli passò gli
incartamenti «La quale, se posso permettermi, credo soffra di una forma particolarmente
grave di grafomania.»
«Non mi piace che mi si porgano le
cose, credevo l’avessi capito» fu la replica secca del magnate, ma un eloquente
colpetto alla nuca da parte di Happy gli fece andare di traverso l’acido e
roteare gli occhi al cielo.
Sistemò la borraccia, sfilò i
guantoni, invitò cordialmente Colin a
spostarsi mentre scendeva dal ring passando in mezzo alle corde, e infine,
sbuffando e rimbrottando qualcosa tra i denti, afferrò i fogli e cominciò a scartabellarli
con noncuranza.
Hendrick intanto gli si era
affiancato e stava per parlargli, probabilmente per spiegare le motivazioni
dietro lo stalkeraggio di Justine, quando un’idea balzana cinguettò
mefistofelica nel cervello di Stark. Tolse qualsiasi attenzione –Se mai ne
aveva accordata anche solo un frammento- alla Hammer e sollevò la bocca in un
ghigno ferino.
Si mise a lato del ring e alzò le
corde con una mano, lasciando intendere a Colin di salire. L’Agente spostò gli
occhi da lui a Happy –Che si era portato una mano alla fronte-, schiuse la
bocca e cercò di replicare. Cosa impossibile, visto che Tony lo prevenne
egregiamente.
«Happy è stato atterrato dalla
Romanoff. Sta’ tranquillo, il suo orgoglio da Boxista Alfa non potrà risentirne
ulteriormente.»
Non molto rassicurato, né convinto da
quelle parole, Colin s’umettò il labbro superiore con un guizzo della lingua e
si succhiò veloce la bocca; strofinò i polpastrelli, diede un breve colpo di
tosse e, arresosi, sbottonò i polsini della camicia, arrotolando le maniche
sopra i gomiti. S’appese alle corde con una mano e si issò agile sul ring: il
gesto, seppur semplice, aveva provocato uno scossone ai muscoli
dell’avambraccio e lo svettare improvviso di una vena arzigogolata.
Il che fu di monito a Tony: per
quanto goffo e gentile fino alla carie, disponibile ed ingenuo, Colin era un Agente
debitamente addestrato di un metro e ottanta per cento kili di peso. Un suo
schiaffo senza armatura a proteggerlo, e Stark era sicuro si sarebbe ritrovato
a far da sostituto alla tappezzeria.
Il magnate si accomodò su una
seggiola sgangherata poco lontano, gettò via la scartoffie ed agguantò lo
StarkPadd debitamente a riposo nella sacca da allenamento.
Dall’alto del ring, Colin lo fissò
con perplessità nel frattempo che Happy si ficcava un paradenti in bocca. Tony
rispose allo sguardo del segretario sollevando le sopracciglia e accennando ad
iniziare con un gesto veloce del polso.
Hendrick indietreggiò fino all’angolo
delle corde e si mise tentennando in posizione. Non capiva cosa stesse
succedendo, né cosa Tony volesse da lui e questo riempiva il figlio di Howard
di ferina soddisfazione. Arrivò addirittura ad accavallare le gambe, per
sottolineare il proprio divertimento da gatto ben pasciuto in procinto di
appendersi alle tende.
«Quando ho googlato l’Agente
Romanoff, è risultata essere una modella di intimo che parlava latino.»
«Nessuno parla il latino: è una
lingua morta.»
Stark schioccò la lingua contro il
palato e roteò gli occhi al cielo.
«Già sentito.» commentò «Comunque.
Cosa succederebbe se io inserissi il tuo nome
nel campo di ricerca?»
Colin fece per rispondere, ma un
dritto di Happy lo costrinse a scostarsi e controbattere immediatamente con un
gancio allo zigomo.
Il magnate si sarebbe aspettato di
vedere la mandibola della guardia del corpo staccarsi di netto e finire sul
pavimento, invece Hogan rimase in piedi con dignità impareggiabile, ciondolò un
poco sulle gambe per la sorpresa, quindi si riassettò in guardia.
Hendrick fece lo stesso e la bocca si
affilò, gli occhi divennero fessure.
«Probabilmente troverebbe le mie foto
dell’annuario, signor Stark.» rispose, tirando un pugno al guantone destro di
Happy e poi sferrandone un secondo all’addome –Hogan sfiatò per la perdita
improvvisa d’ossigeno, il colore gli sfuggì dalle guance «Non gliele consiglio,
avevo i brufoli.»
«Oppure quelle da impiegato del mese
al market indiano.» replicò Tony, indeciso se trovare inquietante o meno il
fatto che il proprietario del suddetto market tenesse una pagina Facebook e
alternasse immagini della merce e delle offerte a procaci donne dell’Est Europa
dai seni faraonici.
«Naturalmente.» Colin scartò di lato,
abbassò la testa «Credo sia stato quello a far colpo sui talent scout dello
S.H.I.E.L.D., fino a quando non hanno scoperto che ero l’unico impiegato.»
Tony abbozzò una risata
accondiscendente, continuando a scorrere i vari risultati che aveva ottenuto
sul giovane: non erano molti e non erano niente di eclatante, la storia comune
di un comune cittadino del Queens. L’esperienza avuta con miss Romanoff la
diceva lunga, però, e Stark era ben conscio di non possedere sicurezza alcuna
sulla validità di quei dati.
Per quel che ne sapeva, Colin
Hendrick poteva anche avere una doppia vita da Drag Queen e la notte, finito il
turno da segretario, fuggire sulla Gay Street per cantare I Will Survive, vestito di rosa e con parrucca bionda in allegato.
Per quel che ne sapeva, appunto.
Un travaso di bile gli inacidì lo
stomaco al pensiero che, come suo solito, Fury aveva agito in sordina e
lasciando trasparire in superficie nulla più di uno sfumacchiare di onde,
celando abile il ribollio mastodontico delle correnti.
E Fury era morto, poi. Dettaglio non
trascurabile.
«Ha trovato qualcosa di interessante
su di me, signor Stark?»
Dalla piega che prese la situazione,
forse Hendrick avrebbe fatto meglio a concentrarsi sull’incontro: Happy,
difatti, tentò di richiamare l’attenzione del giovane con due pugnetti
scherzosi al retro della testa e Stark tutto si era immaginato, fuorché il modo
in cui l’Agente reagì.
Il magnate ebbe appena il tempo di
cogliere gli occhi dell’altro mutare in vetro ed ossidiana, che già Colin si
era girato di scatto e mandato a sbattere Hogan contro le corde del ring con un
calcio piazzato dritto dritto al plesso solare. Happy spolmonò, mugugnò
qualcosa di incomprensibile e scivoloso, sbiascicante, si abbracciò lo stomaco
e scivolò bocconi, continuando a sciorinare fonemi ingarbugliati.
Il tempo si sospese per una manciata
di secondi, quindi Colin si gettò accanto all’ex pugile dando il via ad un
rosario di scuse e richiami, la voce preoccupata, intirizzita di paura.
«Signor Hogan! Signor Hogan!»
«Happy!» esclamò Tony, saltato in
piedi non appena la guardia del corpo era crollata in ginocchio «Cristo Santo,
Hendrick, sei venuto qui a farmi da segretario, non ad ammazzarmi lo
chauffeur!»
«Guardia del corpo…!» precisò a
fatica Happy, armeggiando alla cieca per aggrapparsi a qualcosa e rialzarsi.
«Fa lo stesso.» Stark gli afferrò un
braccio e Colin l’altro, lo issarono con un grugnito e lo trascinarono a viva
forza fuori dal ring, fino alla seggiola su cui il magnate era rimasto ad
osservare la scena qualche istante prima.
«Signor Hogan» ripetè Colin e il
labbro superiore era coperto da goccioline di sudore «Signor Hogan, mi dispiace.
Davvero, davvero, non volevo. Mi dispiace, signor Hogan…»
Happy agitò il guantone come a dire
che non c’era niente di cui scusarsi, nonostante il colorito livido ed il collo
rubizzo.
Il figlio di Howard osservò di
sottecchi sia lui che Colin. Quando fu sicuro del regolarizzarsi del respiro di
Happy e del tranquillizzarsi di Hendrick, prese questi da parte e gli fece
cenno di uscire con lui dalla palestra. Ci volle più di un invito, ormai
divenuto ordine perentorio, perché
l’Agente staccasse gli occhi pallidi dalla figura di Hogan e si decidesse a
seguirlo.
Prima di lasciarlo, quasi del tutto
ristabilito, Tony diede una pacca sulla spalla di Happy e l’uomo si girò a
ricambiare il suo sguardo con espressione stanca, ma divertita, le mani a
scivolare e strofinare lo stomaco.
Fu solo davanti ad un caffè preso al
bar subito di fronte alla sede delle Industries che Stark decretò fosse giunto
il momento di rompere il ghiaccio tra lui e l’Agente.
«Allora, ti sei finalmente sfogato a
dovere?»
Colin, intento a seguire i bordi
della tazzina a punta di dita, alzò la testa e sbatté le palpebre, tra il
confuso e l’ingenuo.
«Come…?»
Tony accartocciò la bocca in una
smorfia.
«Andiamo, Hendrick, non prendermi in
giro. È da quando è morto Fury che sei una bomba in procinto di esplodere:
contento che tu sia venuto a patti con te stesso e risolto ogni conflitto
interiore, ma preferirei evitassi di prendertela coi miei…collaboratori.» a
disagio, battè due volte l’indice contro il lobo dell’orecchio sinistro «Ho già
Pepper in ospedale, mi faresti un favore se non ci spedissi anche il mio
chauffeur.»
«Credevo fosse la sua guardia del
corpo.»
«Di Iron Man? Seriamente…?»
Hendrick aggrottò le sopracciglia,
sollevò piano le labbra in un accenno di sorriso.
«Non posso darle torto.» si passò una
mano dietro al collo «Davvero, signor Stark, mi dispiace. Sono desolato, ho
reagito di istinto.»
«Vedi di tenerlo a bada, la prossima
volta, o sarò costretto a licenziarti.»
«Preferirei di no: sfigurerebbe sul
mio curriculum.»
Questa volta, la risata che abbandonò
la bocca di Stark fu più leggera e genuina. Non durò molto, tuttavia rimase
accanto a loro, un impalpabile bagliore catturato dagli occhi sinceri di Colin.
Sembrava addirittura più giovane, con quell’espressione rilassata e serena sul
volto.
Accortosi della stranezza dei propri
pensieri, Tony deviò il discorso su qualcosa di molto meno felice, molto meno
lieve, qualcosa in grado di sostituirsi col rombo di un terremoto al torcersi
bollente delle viscere e al tremito sottopelle che come una scossa gli aveva
attraversato le braccia.
«Eri a Manhattan durante la battaglia
contro i Chitauri?»
Colin, ovviamente stupito dalla
domanda bruciapelo e dal brusco cambiamento di tono avvenuto nella
conversazione, emise un suono roco, a tratti ansioso, per poi agitarsi un poco
sulla sedia e sfregare la nocca dell’indice contro la punta del naso.
«Ero a bordo dell’Helicarrier.»
rispose, guardando altrove «Davanti ad uno degli schermi. Tenevo sottocontrollo
la zona del Queens. Volevo assicurarmi che la mia famiglia fosse al sicuro.»
uno sbuffo scevro di gioia, venato di ironia e autocommiserazione «Molto
egoistico da parte mia, lo ammetto.»
«Cosa hai pensato, quel giorno?»
Tony già sentiva la schiena tendersi,
le vertebre praticamente scricchiolare. I polmoni guairono, il sangue cominciò
ad irrancidire nelle vene.
«Ho pensato che era la fine.»
Hendrick appoggiò gli avambracci sul tavolo di linoleum bianco «La fine di
tutto. Di ogni cosa. Del mondo. Di noi. Di me. Della razza umana. Ho pensato a
mio padre e al fatto che non lo avrei mai potuto accompagnare al MET per il suo
compleanno, perché non ci sarebbe stato più nessun MET da visitare, nessun
compleanno.» prese un profondo respiro, serrando le palpebre «Niente di niente.
Non sarebbe rimasto nulla di noi, soltanto cenere e storia. Assoggettati ad un
potere dispotico, avremmo perso finanche il nome di Essere umani, troppo stanchi e sfibrati e dilaniati per tentare una
qualsiasi ribellione. Poi…»
«Poi…?» lo incalzò Stark e nemmeno si
era accorto di essersi teso in avanti e del calore al torace, del respiro
regolare, dei nervi tesi, sì, ma non per paura, non per terrore, non per
soffocamento, bensì in attesa di un proseguo, di un continuo, della verità.
Colin riaprì lentamente gli occhi e
il chiarore delle iridi era tanto violento da far male.
«Poi sono apparsi i Vendicatori.»
sussurrò «E Iron Man era il loro leader.»
Era meglio per tutti, pensò Tony, se
si lasciava sfumare la conversazione e si tornava al lavoro, ognuno ai propri
posti, ognuno al proprio silenzio, ai propri demoni e fantasmi. Il magnate li
odiava, dal primo all’ultimo, ma odiava ancora di più la nauseante debolezza
che l’aveva portato a svicolare il resto del discorso, le conseguenze di esso,
piuttosto che affrontare faccia a faccia non tanto l’interlocutore –Che gli
importava di Hendrick? Del MET o del compleanno del padre?- quanto un ricordo
indelebile, sangue e lamiere, il vuoto dello spazio, il peso della testata
nucleare sopra la spalla, in mezzo alle scapole, dentro al cuore.
«Pausa finita.» dichiarò allora, la
voce appena più gonfia e goffa, ostruita di fumo e dall’olezzo acidulo dei
Chitauri.
Colin tirò indietro la sedia e
sorrise, una mano già alla tasca dei pantaloni.
«Lasci, signor Stark, offro io.»
«Mi sembra il minimo.»
E mentre la risata dell’altro gli
vibrava attorno come un’aura, il magnate delle Industries sbatté le palpebre e
deglutì, il fiato una spilla incandescente attraverso le costole.
La cosa che lo sorprese –Ed inquietò-
fu che in quel breve lasso di tempo non aveva avuto alcun attacco di panico.
Località
Sconosciuta.
Cella
Di Sicurezza.
2011
Gail Runciter era abituata alle
missioni in isolamento e sapeva esattamente cosa aspettarsi da sè e da coloro
con cui si sarebbe trovata a convivere.
Non appena dalle alte sfere le avevano
comunicato di essere appena entrata a far parte del corpo di sicurezza, era
stata conscia delle conseguenze, sopportabili o meno, cui avrebbe dovuto far
fronte. Le aveva elencate mentalmente mentre stilava la lista di utili da
portare e li aveva pigiati nella coscienza alla stregua di vestiti dentro una
valigia.
Dapprima ci sarebbe stato il senso di
spaesamento causato dalla situazione in generale. Poi avrebbe cominciato a
stabilirsi una autonomia di movimenti e pensieri, un ciclo di abitudini e norme
di comportamento non scritte, turni e aiuti, pause e svaghi. Poi l’equilibrio
avrebbe cominciato a traballare e pendere, sarebbe arrivato il nervosismo, la
pelle d’oca, l’accettazione ed il rifiuto, la claustrofobia, i gruppi, i
ribelli e gli asserviti, la gerarchia e le sommosse, girandole e ghironde fino
a quando tutto non si fosse assestato per venire scombussolato di nuovo, più
avanti, in maniera più profonda, per arrivare all’autodistruzione più completa
e devastante.
Per coi continui calcoli e le
supposizioni e l’esperienza, Gail non si sarebbe mai aspettata un effetto così
destabilizzante quanto quello prodotto da un membro della squadra medica. In
particolar modo, dopo i flirt più o meno palesi e caldi, le battute, i
sottintesi, non si sarebbe mai aspettata di trovare l’uomo con la testa
affondata tra le cosce di uno dei propri Agenti.
Forse aveva sottovalutato il problema
della solitudine o il proprio sottoposto non scherzava quando diceva di
preferire un cocktail con Richard Gere, invece di un dopo cena in compagnia di
Rihanna.
Dopo lo smacco subito per colpa del
soggetto –I sette Agenti mandati knock out erano colleghi, dannazione!, ed il
non richiesto arrivo della Task Force, la scoperta di due uomini in
atteggiamento intimo nella dispensa era stata la goccia che aveva fatto
traboccare il vaso –E tanti saluti all’igiene, comunque.
L’immagine dell’Agente che reclinava
la nuca ed esalava un ansimo da pornodivo e affondava le dita nei capelli del
medico e tendeva i muscoli e sudava e gemeva non sarebbe scomparsa così presto
come Runciter sperava.
Come se non bastasse, poi, il
soggetto aveva deciso di dare il suo contributo alla giornata già storta e in
procinto di peggiorare ancora: fuori dalla porta del suo alloggio, oltre a non
esserci nessuno a montare la guardia, c’era il piatto intonso del pranzo, col
purea flaccido e la carne più dura di una suola da scarpe. Secondo i calcoli di
Gail, il cibo era intoccato da almeno un paio d’ore.
Non erano affari suoi, maledizione,
non lo erano –Nemmeno sarebbe dovuta passare per quel corridoio, ma aveva il
bisogno di sbollire la rabbia e camminare era l’unica valvola di sfogo
permessa. Legale, almeno- eppure la vista di quel piatto abbandonato e
dell’assenza dell’Agente di guardia –Guarda a caso, proprio lo stesso che aveva
scoperto nel mezzo di una visita invasiva
a domicilio!, la fecero salire il sangue al cervello.
Al diavolo gli ordini, al diavolo il
non dover avere per nessun motivo, in nessun caso, contatto col soggetto, la
donna entrò di violenza nella sua stanza, il corpo vibrante di rabbia, gli
occhi che mandavano lampi e il petto che s’alzava e s’abbassava con violenza.
Si aspettava di trovare il soggetto
disteso sulla branda, addormentato come sapeva trascorrere le giornate anche
quando Marlowe non era insieme a lui per…Qualunque fosse la terapia o le sedute
cui il dottore lo sottoponeva. Al contrario, il soggetto era intento a prendere
a pugni l’aria, lo sguardo concentrato e duro, il un rivolo di sudore che
scendendo dalle tempie andava ad imbiondirgli l’attaccatura dei capelli
all’orecchio destro.
Gail si bloccò sulla soglia, il
respiro ratto in gola. Il cuore perse un battito.
Intorno a lui l’aria vibrava e cantava.
Ad ogni guizzo di braccia e muscoli, pulviscolo dorato sbuffava, ridacchiava e
s’annodava alle striature di luce che gli tagliavano in obliquo fronte e
ciglia. Emanava vigore e sicurezza, era un ritaglio eclatante ed eccezionale,
un frammento abbagliante e fuori dal tempo, struggente e bello.
Il soggetto rizzò la testa e si
sistemò in posizione di difesa, gli occhi guardinghi e sospettosi, sebbene più
pronti alla fiducia di quanto Runciter avrebbe mai potuto pensare da parte di
un uomo rinchiuso in gabbia a confronto con uno dei suoi carcerieri.
«Io…» esordì la donna e deglutì, la
bocca secca, la trachea un nodulo di cartilagini e pesante sorpresa «Ho visto
il piatto e…Non mangi? Non ti fa bene. Devi sottoporti ai test e…»
«Con tutto il rispetto, ma’am, ma
sono dell’idea che i test si tengano comunque, con la mia salute o meno.
Soprattutto, con la mia approvazione o meno.» la interruppe il soggetto e la
voce di lui era così calda, che il torpore alle guance e al seno le fece
immediatamente dimenticare il fatto di aver appena trasgredito alla regola
numero uno: non parlare col soggetto, non avere contatto alcuno col soggetto,
non permettere all’ambiente esterno di penetrare nelle difese e nella persona
del soggetto.
Al diavolo, al diavolo tutto, persino
al battito del cuore, al tremore ai polsi.
«Non…» tentò di riacquistare un
minimo di dignità con un colpetto di tosse «Non dovresti lo stesso saltare i
pasti.»
Un sorriso di accondiscendenza
sbocciò all’angolo della bocca del soggetto e non raggiunse mai gli occhi, che
rimasero immoti e malinconici, indispettiti e tristi.
«Posso chiederle il suo nome, ma’am?»
Gail aggrottò le sopracciglia.
«Prego?»
Il soggetto, cortese, annuì e con
garbo ripetè la domanda.
«Gail» mormorò allora la donna,
ignorando le proteste della ragione –In che caos si stava andando a gettare,
per l’amor di Dio? «Gail Runciter.»
«Grazie mille, miss Runciter» disse
lui, allora, chinando il capo in segno di saluto «Posso chiederle, allora,
visto che è l’unica persona qui presente ad avermi rivolto la parola, dove mi
trovo?»
«Mi dispiace. Sono informazioni
riservate.»
«Comprendo.» e a Gail non sfuggì il
lampo più scuro delle iridi, l’affilarsi delle pupille ed il contrarsi della
mandibola «Posso però azzardarmi a chiederle un ultimo favore, prima che
l’Agente preposto alla mia guardia la trovi qui e le faccia rapporto?»
Non un tremito attraversò la voce
della donna, per quanto la gravità di ciò che aveva fatto le appariva ora in
tutta la propria, mostruosa intensità –Per quegli occhi, però, per quegli occhi
e quella voce pensò stupidamente che nessuna regola e nessun ordine poteva, né
doveva esistere. Se ne sentiva avvolta, placata e sconvolta all’insieme, una
commistione di emozioni da cui, in diverse circostanze, era sicura si sarebbe
tenuta ben lontana.
«Dimmi.»
«Un libro.»
Gail sollevò le sopracciglia,
allibita da una richiesta tanto semplice e curiosa. Si era immaginata un piano
di fuga o che altro, ma un libro…Sì, certo, ne aveva più di un paio nel proprio
alloggio –Quando si trattava di missioni in isolamento, la donna passava la
settimana prima a fare incetta di letture, di qualsiasi lunghezza e genere.
Tuttavia non sapeva se era il caso. Se
lo avessero scoperto? Come giustificare la cosa?
L’avrebbe nascosto e avrebbe
mantenuto il segreto, la rassicurò il soggetto e il tono era così caldo che la
donna sentì il cuore stringersi al pensiero di dirgli di no.
Era un libro, in fondo. Qualcosa con
cui tenersi occupato, niente di più. Non violava alcuna regola, non andava
contro nessun ordine. Era un libro. Carta stampata e caratteri ad inchiostro.
Un libro. Niente di più che un libro…
Di soppiatto, allora, tornò in camera
e, assicuratasi che l’Agente fosse ancora trattenuto da ben diverse e piacevoli
attività, sgattaiolò all’alloggio del soggetto e gli consegnò il prezioso
regalo: Il Grande Gatsby.
Gail l’aveva riletto più di una volta
e forse anche in virtù le venne in mente un passaggio particolare, non appena
le mani del soggetto presero il volume con uno sfiorarsi involontario di dita e
pelle, ed egli, letto il titolo, sorrise –Sorrise davvero.
In
Gatsby c’era stato un cambiamento semplicemente sconcertante: splendeva, né più
né meno: senza una parola, né un gesto di trionfo, un benessere nuovo emanava
da lui riempiendo la stanza.
Stark Industries, Los Angeles.
Atrio.
2013
Escludendo l’Agente Romanoff, Happy
non riceveva una batosta del genere dai tempi di Battlin’ Jack. L’esplosione
improvvisa all’altezza dei polmoni, la bombarda che gli aveva scosso cassa
toracica e cranio, l’attimo di stordimento ed il respiro tranciato a metà…Il
disorientamento era stato tale da indurlo a credere di essere ancora sul ring,
parecchi anni prima.
Finanche il sapore metallico del
sangue gli era parso mescolato alla polvere dei locali di bassa lega e gli
occhi improvvisamente opachi aveva restituito al cervello il bagliore umido,
scatarrante della folla e del marciume, dell’illuminazione fosca e dello
sbrillio untuoso del sudore.
Passata la confusione e ripreso un
contatto più produttivo con la realtà circostante, Happy non aveva potuto non
chiedersi cosa avrebbe pensato il Diavolo Rosso di quel colpo al plesso solare.
Nel silenzio della palestra vuota –Hogan aveva un ricordo sbiadito di Stark che
trascinava via Colin di peso.- il ricordo di Jack Murdock gli provocò una
dolorosa fitta alle tempie.
Ripensare al vecchio pugile –Al
vecchio amico- gli faceva ancora male, nonostante il tempo trascorso. L’unico
modo per lenire in parte la malinconia e la tristezza era intrattenersi nello
studio di suo figlio, appena entrambi avevano una mezz’ora di ritagliarsi.
Happy aveva visto il piccolo Matt
aprirsi la strada nel mondo e nel buio a dispetto degli ostacoli, delle
sfortune che la vita gli aveva buttato addosso e ne era fiero. E forse perché
lo conosceva, forse perché sapeva quanto valesse, quanto coraggio avesse e di
che stoffa fosse, Happy non aveva dubbi sulla veridicità delle voci che
circolavano riguardo lui e Devil.
Ovvio, si sarebbe tagliato le mani o
reciso altre parti anatomiche di una certa rilevanza piuttosto che dirlo ad
alta voce, o vendere la storia ai giornali. Persino a Stark aveva nascosto la
cosa e non si sentiva in colpa. Gli bastava che entrambi uscissero vivi e
vegeti dai loro giochi da “Guardia e Ladri”, col minor numero di ferite
possibili e nei posti meno improbabili, e avrebbe continuato a convivere
tranquillo con quella scompaginata dicotomia essere umano-costume –O scafandro,
datosi l’alias di Tony.
Adesso che ci pensava, la storiella
di Colin poteva raccontarla anche a Matt e a Foggy. Matt, ne era sicuro, avrebbe
riso di quella risata piena che ad Happy ricordava il bimbetto segaligno e
tutt’ossa che passava le giornate chino sui libri invece di correre e
sbucciarsi le ginocchia con gli altri mocciosi di Hell’s Kitchen, pesti urlanti
che non valevano neanche la metà del ragazzo.
Un pensiero improvviso e scardinato
dal precedente, mentre rassettava la cravatta e faceva una compita entrata
nell’atrio, fu che anche Virginia avrebbe riso di gusto a quell’aneddoto.
Per Hogan non fu difficile disegnare
il profilo della donna, le belle labbra che si sollevavano e gli occhi che
rilucevano tra le ciglia sottili. Immaginò la linea della spalla e le braccia
eleganti in contrasto con l’azzurro smunto del lenzuolo, i capelli rossi sul
guanciale bianco e il petto minuto una riga sinuosa che s’abbassava a seguire
l’andamento del ventre e delle gambe appena flesse.
Il sorriso affiorò alla bocca di
Hogan e questi s’affrettò immediatamente a nasconderlo quando vide arrivare
Hendrick, la mano alzata in segno di saluto e la figura frettolosa di Stark che
sgattaiolava via, lungo le scale e poi nei corridoi che portavano al suo
ufficio.
«Signor Hogan!» lo salutò Colin e gli
si piazzò di fronte, il viso affranto «Signor Hogan, volevo scusarmi per
l’increscioso incidente avvenuto in palestra.»
Happy alzò una mano, come a dirgli
che era tutto dimenticato.
«Mi offrirai qualcosa.» lo rassicurò
«Piuttosto, chi ti ha insegnato a boxare? Vecchia scuola? Sembri uscito
direttamente dalla Stillman Gym.»
L’Agente sviò l’argomento con un sorriso
imbarazzato, borbottando qualcosa sull’aver avuto più di un maestro e di
essersi in parte formato menando calci e pugni ai ragazzotti che volevano
rapinare il supermarket indiano.
«Va a fare visita a Miss Potts?» si
informò Colin, grattandosi il setto nasale e affiancandoglisi «Che fiori le
porterà questa volta?»
Happy gli concesse bonariamente quel
cambio di discorso e sbuffò.
«Nessun fiore. Le infermerie si sono
lamentate e mi hanno accusato di star trasformando l’ospedale in un vivaio.»
L’altro rispose con qualcosa di
probabilmente arguto o magari solo accondiscendente, ma Hogan già non lo
ascoltava più: ogni attenzione era adesso rivolta ad un tipo losco e per nulla
raccomandabile stravaccato a in una delle poltroncine di pelle color crema. Era
ambiguo e Happy aveva fiuto per certe cose –Non per niente, oltre ad essere, od
essere stato, la guardia del corpo di
Iron Man, aveva assunto il ruolo di Capo della Sicurezza delle Industries.
Lavoro che svolgeva in maniera egregia,
tra parentesi.
Capelli cortissimi, tagliati quasi a
zero, cranio ovale e fronte appena bombata, occhi allungati e ravvicinati tra
loro, divisi da un naso sgraziato e sormontato da sopracciglia aguzze. Completo
antracite, bello, di marca, e camicia bianca e stropicciata, cravatta
allentata, arrotolata alla bell’e meglio sul torace ampio, tutto in lui gridava
strafottenza al limite dell’irritante. La gamba destra era mollemente a
dondolare sul bracciolo, le spalle di traverso e sfogliava una rivista con la
grazia di uno scimmione maleducato, c’era altro da aggiungere? Ah, sì. Non
indossava il badge.
Ambiguo. Ambiguo e pericoloso come lo
sguardo che il tizio gli rivolse. Un’occhiata penetrante, divertita e ferina,
in grado di fargli salire i brividi lungo la schiena.
«Signor Hogan…?»
Happy si sentì toccare una spalla e
se non sussultò fu unicamente grazie al magistrale autocontrollo che aveva
allenato in compagnia di Stark.
«Sì, Hendrick?»
«Il Rocky Mountain Chocolate Factory.»
«Come…?»
Una striatura cremisi attraversò
l’orecchio di Colin, che si schiarì la gola e sfregò il pollice destro sul
palmo dell’altra mano.
«Dicevo, visto che le infermiere si
sono lamentate dei fiori, potrebbe portare a Miss Potts del cioccolato.»
«Del cioccolato.» Hogan aggrottò la
fronte «Sei serio?»
«Lo sono…?» e Happy si morse la
lingua e si trattenne dal ridere alla sfumatura interrogativa che aveva assunto
l’affermazione dell’altro.
«Fiori e cioccolatini, come ai bei
tempi andati.» commentò «Come hai detto che si chiama, il posto?»
«Rocky Mountain Chocolate Factory»
ripeté Hendrick, diligente e molto più rilassato «E’ vicino al Grauman’s
Chinese Theatre.»
Eric Savin attese che il grassone e l’allampanato
uscissero dall’atrio chiacchierando e cianciando come vecchie comari. Quindi
spinse la lingua nell’incavo della guancia, sogghignò e trasse il cellulare
dalla tasca: compose un numero, guardando i tasti una volta sì e l’altra no,
gli occhi che roteavano eloquenti alle impiegate rigide ed impettite, fresche
di parrucchiere e adorabilmente zuccherose nei tailleur organza.
Dall’altra parte della cornetta
rispose una vocettina smangiata, stridula, irrequieta.
«Savin…?»
«Taggert.» sibilò Eric, socchiudendo
malevolo le palpebre «Sei mai stato al Grauman’s Chinese Theatre?»
Los
Angeles Mercy Hospital.
Stanza
Di Virginia “Pepper” Potts.
2013.
Virginia stava fingendo di non
pensare al fatto che Happy fosse in ritardo e la cosa le stava riuscendo pure
abbastanza bene. Vero, di tanto in tanto le capitava di bloccarsi a metà di una
frase, alzare la testa dal libro e voltarsi in direzione della porta, però mano
a mano che Pierre Bezuchov sciorinava le sue teorie sulla Bestia e il destino
di Napoleone, quegli strappi alla lettura di Guerra E Pace andavano diradandosi.
Che poi non fosse comunque in grado
di prestare attenzione allo svolgersi degli eventi e fosse costretta a
rileggere sempre la stessa frase per cogliervi un senso, bhè, era un dettaglio
trascurabile.
Happy non era mai stato in ritardo,
al contrario, l’aveva sentito piuttosto spesso discutere con le Infermiere
perché era arrivato in anticipo rispetto all’orario di visite e voleva entrare
comunque, perché, in fondo, cosa cambiavano cinque o dieci minuti? Era la
guardia del corpo di Tony Stark, era una persona di fiducia e di certo non
nascondeva cibi, né medicinali di contrabbando nella giacca del completo o
dentro al mazzo di fiori.
Pepper si succhiò le labbra per
nascondere il lieve sorriso, dicendosi che Pierre Bezuchov aveva le sue ragioni
per ritenersi il messo della profezia apocalittica e che sarebbe stata buona
norma prestargli le dovute attenzioni.
Ma il sole che si dibatteva tra le
nuvole infiocchettate di pioggia latente creava graziosi ed aggraziati giochi
di luce sui petali dei narcisi, e lei si ritrovò per l’ennesima volta a
contemplare i fiori che Happy le aveva portato il giorno prima e a sorridere al
ricordo. Tese l’indice all’interno del libro per tenere il segno e reclinò la
nuca sul cuscino, girando appena il volto per avere una visione migliore delle
corolle bianche e del cuore giallo, tanto acceso e violento da far male agli
occhi e piangere il cuore.
Si abbandonò ad un lungo sospiro,
mentre la dolcezza lasciava il posto alla malinconia e la bocca ancora pallida
si contraeva un poco.
Pepper non era una bambina ed era più
che consapevole di come le gentilezze di Happy andassero oltre la cortesia ed
il garbo.
Virginia lo aveva conosciuto il
giorno del colloquio per il posto di segretaria alle Stark Industries e non
aveva scordato le parole che Tony le aveva rivolto il primo giorno di lavoro.
Sembra
che lei abbia fatto un’ottima impressione alla mia guardia del corpo, miss
Potts. Le
labbra si erano piegate in un ghigno di strafottenza Mi dimostri che non è stato solo grazie al tailleur di Chanel.
Era bastata quella frecciatina
impudente perché ogni traccia di lusinga finisse in pezzi e la figura fiduciosa
di Hapy mutasse in quella in quella irriverente di Stark.
Ed era proprio per questo, in virtù
del magnate che Virginia avvertiva un fastidioso senso di angoscia torcerle la
gola al l pensiero di come i fiori, i sorrisi, le visite la facevano sentire.
Sebbene la storia tra lei e Tony
fosse finita da mesi, sussisteva tra loro una certa complicità, una tenerezza
scevra di sentimentalismo, ancora in grado di legarli saldamente a filo doppio.
Ammettere a se stessa l’interesse per
Happy e permettere ad esso di sciogliere uno dopo l’altro i nodi che la
tenevano stretta a Tony, era un rischio che non si sentiva pronta, né disposta
a correre.
All’imbarazzato tamburellare contro
lo stipite, Virginia sobbalzò. Sollevò la testa e torse il collo; il sorriso
che, nonostante le elucubrazioni di cui si era resa protagonista, le era nato
sulle labbra si oscurò.
«Disturbo?»
«Assolutamente no, Colin. Entra pure.»
L’altro annuì, rassettò il cardigan
beige e, afferrata una seggiola vicina alla porta, si accomodò vicino a lei.
Pepper intrecciò le dita in grembo.
«Tony ha messo mano al tuo armadio?»
domandò, scherzosa, accennando alla camicia azzurro pallido e alla cravatta
scura solcata in obliquo da sottili linee bianche.
La punta delle orecchie di Hendrick
pizzicò di rosso e dalla risata balbettante che le diede in risposta scaturì un
naturale senso di simpatia.
«No» disse l’Agente, la fronte un
poco china e la mano a sfiorare la base della nuca «Ma il signor Stark ha
voluto che boxassi col signor Hogan e non mi pareva adatto venire a farle
visita in simili condizioni, miss Potts.»
«Virginia» lo corresse lei «E non ti
preoccupare, boxare con Happy è un rito di passaggio per ogni segretario
mandato dallo S.H.I.E.L.D. Chiedi pure a Natasha per conferma.»
Colin annuì, o meglio, compì un
movimento con la testa che poteva assumere molteplici significati e al tempo
stesso non dire nulla.
Pepper attese una manciata di secondi
che l’altro continuasse la conversazione: tuttavia, Hendrick si limitava a
schiarirsi la gola, palesemente a disagio, a stringere le ginocchia tra le dita
e a guardarsi intorno alla ricerca di un qualcosa indefinito.
«Devi dirmi nulla?» tentò di dargli
l’imbeccata lei, sollevando le sopracciglia e sporgendosi impercettibilmente
nella sua direzione.
«Ahm.» Colin sfregò i palmi sui
pantaloni neri e deviò lo sguardo «Io non…Sono sicuro che abbia senso, ma…»
«Ma…?»
«Ma sono preoccupato per il signor
Stark.»
Virginia aggrottò la fronte ed un
campanello d’allarme le risuonò nel petto, sconquassando costole e spina
dorsale. Si adagiò con la schiena contro il guanciale, prese un respiro, serrò
la bocca e le labbra sbiancarono.
«Perché lo pensi?»
«Le occhiaie.» rispose, passandosi
più volte l’indice sul sopracciglio destro «Le bottiglie in ufficio che cerco
in tutti i modi di far sparire la mattina, ma che riesce a far apparire –Mezze,
se non completamente- finite il pomeriggio. Lo sguardo allucinato, a volte mi
sembra quasi faccia fatica a respirare o a rimanere lucido. Come se si
perdesse» scrollò il capo «Temo soffra di insonnia e in molte occasioni l’ho
trovato addormentato sulla scrivania. Inoltre, devia il discorso non appena si
va a toccare la battaglia contro i Chitauri. E…»
«Niente è stato più lo stesso, dopo
New York.» lo interruppe Pepper e le parole scricchiolavano come vetro crepato,
in procinto di rompersi «Vivi esperienze al limite e poi tutto finisce senza
una spiegazione. Dei, alieni, altre dimensioni…Tony» emise un rapido colpo di
tosse, girò la testa perché Colin non vedesse le ciglia inumidirsi, le iridi
farsi liquide «E’ Iron Man, d’accordo. Ma è soltanto un’armatura: sotto di
essa, è semplicemente un uomo. Un uomo brillante, un uomo cui tengo e per cui
darei la vita. Però sempre un uomo. E gli uomini crollano, Colin.» preso
coraggio, tornò a rivolgere l’attenzione su di lui «E Tony è in tensione da
troppo tempo, sta arrivando al limite. Mi aveva chiesto di andare a vivere insieme
e…Io ho rifiutato. Non perché non lo amassi» chiarì «Tuttavia, avevo capito che
nella sua esistenza non c’era posto per me, così come non c’era posto per se
stesso. Unicamente Iron Man contava, non c’era spazio per altro, né per altri.»
A punta di dita, Virginia disegnò le
grinze del lenzuolo ed evitò accuratamente gli occhi pietosi di Hendrick, la
bocca compassionevole, l’espressione abbattuta.
«Il Laboratorio di Malibù è stato
smantellato, ogni cosa portata alla Tower di Manhattan.»
«Alla Tower?» intervenne Colin «E’
ancora distrutta…!»
«In parte.» replicò Pepper «Agente
Hendrick, per quale missione pensi di essere stato chiamato?»
L’uomo corrugò la fronte e balbettò,
smozzicò lettere prive di senso, confuse e perplesse, masticò risposte secche e
incompiute, fece spallucce, torse il collo, si grattò il polso.
«Per proteggere il signor Stark.»
«Il signor Stark o Iron Man?»
Pepper lo osservò in silenzio mentre
assorbiva l’entità intrinseca della domanda, mentre ne coglieva le sfumature e
la reale portata.
«Iron Man ha molti nemici ed
un’armatura per combatterli.» disse lei «Ma Tony Stark ne ha solo uno, contro
cui non ha difese.»
«…Lui stesso.»
Virginia non commentò oltre e distese
le dita affusolate sul tessuto spiegazzato della coperta, le dita equidistanti
tra loro. Anche Hendrick rimase in silenzio, forse per rispetto, forse per
ragionare o pensare a quanto aveva appena scoperto, a lei non importava: le
interessava il silenzio ed il flebile, sottile profumo dei fiori che
s’arricciolava impalpabile nella stanza.
«Che strano.» sussurrò, rivolgendo
gli occhi alla finestra e alla luce giallastra dei lampioni che s’arrampicava
sul vetro «Happy è in ritardo stasera.»
10880 Malibù Point, 90265.
Casa di Anthony Edward “Tony” Stark.
2013.
Aveva
bevuto, questo lo ricordava.
Quanti
bicchieri, non lo sapeva.
Si era
ritrovato per terra e non aveva idea di come, il pavimento era freddo sotto le
gambe e la sola fonte di illuminazione ero lo schermo rettangolare piazzato al
centro di quello che una volta era il Laboratorio di Malibù. Era vuoto, adesso,
niente più macchine, niente più armature. Teche di vetro, polvere, ricordi.
Chissà se a Dummy mancava Malibù, Tony non glielo aveva mai chiesto. Anche perché
Dummy non era dotato di un sintetizzatore vocale e questo rendeva i dialoghi un
po’ difficoltosi.
Ci avrebbe
lavorato, una volta tornato a Manhattan.
Alla Tower,
nel Laboratorio sotterraneo. Dove non c’era nessuno, dove era in compagnia di
se stesso e di una, due, tre bottiglie di liquore e Dummy e le lamiere e lo
sfrigolio eccitante della fiamma ossidrica. In compagnia di demoni e mostri che
l’insonnia debellava e rendeva più vividi a seconda della quantità di caffè, a
seconda della stanchezza, a seconda della frustrazione. Diavoli ed incubi,
incrostati allo spirito, marcescenti, putrefatti, frutto della mente, scherzi
del cervello.
Non erano
tangibili, non ci si poteva affezionare loro. Non erano come le persone e Tony
li odiava, odiava loro e odiava le persone, perché alle persone si finisce per
attaccarsi, ad affidarsi, ad usarli come sostegno quando il mondo intorno è
buio e non ci sono stelle e sei sul baratro e la sponda su cui cammini si
riduce davanti e dietro e intorno e il gorgo mormora ruggisce e latra e cadere
non è un’ipotesi, cadere è una soluzione, cadere è la sola alternativa.
Stark
grugnì e soffocò un singhiozzo, piantò la mano contro la fronte e avvertì
appiccicume e sangue impiastricciargli la pelle sudata. Aveva disegnato schemi
e linee e calcoli sui palmi e sul dorso, con un vecchio cacciavite trovato per
caso mentre colpiva il vuoto e urlava e abbaiava e strillava come un bambino e
l’eco restituiva pianti e memorie e le pareti si dilatavano e si comprimevano,
respiravano simili a polmoni di giganti, altrettanto paurosi e umidi.
Il metallo
era freddo dentro la carne e Tony si era stupito di trovarla calda, quando
dentro di sé non avvertiva che gelo ed orrore. Gelo, orrore, rabbia, vendetta,
viscere bollenti, vene in fiamme, fiato elettrico, nervi avviluppati alle ossa,
tentacoli di furia e ira e abbandono e ingiurie e bestemmie e lacrime acide,
che scavavano solchi lungo le guance e intaccavano, distruggevano la trachea e
l’esofago e lo stomaco.
«Fallo
ripartire, J.A.R.V.I.S.» smoccolò, vomitando a stento suoni comprensibili e vermi
di bile «Fallo ripartire.»
Signore tentò l’AI,
conciliante Nelle sue condizioni non mi
sembra il cas—
«Fallo ripartire!»
latrò e allo stridere delle corde vocali si sostituì il frusciare mellifluo,
accattivante del Mandarino.
Il tono
aveva la cadenza di un sermone, la medesima magia, la stessa illusione di
intrecci melodici e verità assolute, di padre che spiega la morale di una fiaba
al bambino che lo osservava ad occhi sgranati e s’abbeverava di qualunque cosa
gli pende dalla bocca ghignante.
Potere
assoluto, assoluta distruzione.
I miei discepoli hanno appena distrutto un’altra imitazione
americana mediocre e c’era fuoco e cenere e corpi divelti sbranati
stracciati strappati disarticolati e fumo e il cielo era nero, era nero anche
il dolore, come era anche il lutto Il
Chinese Theatre.