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Autore: outofdream    11/08/2014    2 recensioni
Rivisitazione di "Twilight", di S. Meyer.
Dal 17 Capitolo:
Rimasi immobile in quel modo, rossa in viso, coi piedi scalzi e i capelli arruffati, lo sguardo fisso su di lui.
Non ero spaventata, ma non sapevo nemmeno cosa fosse giusto fare.
Le sue mani delicate sfiorarono i contorni rigidi della finestra e ne spostarono con leggerezza le ante, facendo entrare nella stanza un’aria pungente, fredda e morbida. Provò a sorridermi, ma sapevo che in quel momento la sua tristezza non conosceva confini e quando lo capii, non potei resistere: corsi verso di lui, gettandogli le braccia al collo e stringendolo a me.
Oh, Edward.
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Bella/Edward
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Twilight
Capitoli:
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                                                                                                                  Scintilla


Il cielo era terso, così limpido, privo di imperfezioni e il sole sopra di me scintillava benevolo, talmente raggiante da essere circondato da un’aureola violacea striata d’oro e d’argento. Sentivo il mare, in lontananza, il suo respiro profondo, increspato. Dove ero?
Non mi muovevo, continuavo a fissare il sole, la cui luce oscillava, dinnanzi ai miei occhi, come una lenta vibrazione, dal bianco al giallo intenso. Non mi muovevo, ma non ce n’era bisogno – non volevo.
Volevo rimanere così, al caldo.
Qualcuno chiamava il mio nome, o almeno così mi sembrava, ma poteva essere qualsiasi altra cosa – il fischio del vento, gli schiamazzi di un paio di ragazzini sguaiati, il tintinnio dei braccialetti di una ragazza poco distante – non potevo dirlo con certezza. Chiusi gli occhi sotto il sole, pensai a qualcosa di poco complicato, una congettura che sfumò immediatamente e mi abbandonò – non ricordavo nulla. C’erano così tante parole, immagini, suoni nella mia testa, e la cosa più sorprendente era che nessuno di quelli sembrava reale. Vedevo una stanza, se chiudevo gli occhi, un paio di chiavi anche, vedevo una maglietta nera, sfocata, distante – era come crollare, di tanto in tanto, in un dormiveglia. Incosciente, ecco come mi sentivo. Confusa. Non capivo.
Di nuovo quel suono, lontano, pesante, non riuscivo a distinguerlo bene.
Il calore del sole andava via via intensificandosi – maledizione, pensai, mi sta spaccando la faccia.
Provai a voltarmi di lato, per proteggere la mia gota sinistra da quel bruciore, ma non serviva a nulla – in qualunque posizione mi spostassi, quel bruciore continuava a far pulsare la mia carne.
«Bella!». Mamma?, pensai.
Mamma?
No, era un timbro più profondo, grottesco quasi, non assomigliava per nulla alla voce di mia madre, non c’erano quelle note, in quel suono, così simili ai temporali primaverili, a un maggio particolarmente sereno, all’odore di caffè. Assomigliava più che altro a.. Alla voce di un uomo. Un ragazzo.
«Joshua?», parlai a fatica, piegando le mie labbra secche, attaccate le une alle altre.
Era lì con me? Che giorno era? Che anno era? Avrei voluto stringere forte la sua mano, ma quando mi voltai per cercarlo accanto a me, Joshua non c’era. Solo chilometri e chilometri di sabbia, una spiaggia, il mare, altre figure indistinte e quel sole, Cristo santissimo, me ne dovevo andare di lì, mi sembrava di andare a fuoco. Per un momento provai a muovermi, senza riuscirci. Cosa mi tratteneva?
Oh, certo.
Forse si trattava di quella tristezza, di quella solitudine così marcata che provavo nel mio cuore ogni volta che realizzavo che Joshua era morto e non sarebbe mai più tornato da me. Ecco perché non potevo muovermi, il dolore mi schiacciava, mi rendeva impotente. Cosa farò senza di te?, piangevo senza versare una lacrima. Perché mi hai lasciata da sola? Perché non sei restato?
Io non ho più nessuno, da quando non ho più te, singhiozzò una vocina, rintanata negli angoli più remoti del mio cuore. Poi, di nuovo, chiusi gli occhi e l’immagine di quella maglietta mi sventolò di nuovo davanti, nera, dei Black Sabbath, larga e sgualcita. Mi venne voglia di ridere.
No, non sono sola, contestò divertita un’altra voce, nascosta nella mia testa, C’è Edward con me. È proprio scemo, però. Sbarrai gli occhi, di scatto: Edward! Dovevo andarmene di lì! Dov’era Edward?
«Dio.. Sembra in stato catatonico», disse una voce.
«Ha gli occhi aperti, però..», obbiettò l’altra.
«Ma non ci vede. Guarda. Non vede nulla, nessuno. È come se non ci fosse».
Non capivo. Cosa stava succedendo? Provai a muovermi. Provai a scappare da dove ero e, oh quel sole! Mi sembrava che la faccia andasse a fuoco! Quella luce bluastra mi accecava. Dovevo andare via di lì.
«Morirò..», mugolai, «Il sole.. Mi brucia».
«Bella? Bella! Siamo qui!», gridò quella stessa voce, così tenera, dolce.
«Brucia dappertutto», piagnucolai, «Brucia tutto..».
Mi strofinai gli occhi – era reale tutto quello? Dio, le mie braccia sembravano di piombo, a stento riuscivo a muoverle, sembravano anchilosate. Rivolsi un’ultima occhiata al sole coronato dai suoi splendidi raggi guardarmi come un Dio guarda una sua creatura malforme e poco riuscita e poi, prim’ancora che potessi accorgermene, il dolore andò mano a mano a scemare, adesso solo alcuni punti del mio corpo pulsavano e dolevano così intensamente, come se un fuoco primitivo, antico bruciasse proprio al di sotto della mia pelle. La sabbia svanì, il mare si ritirò, il cielo scomparve.
I miei occhi erano sempre stati aperti per tutto quel tempo, ma solo adesso vedevo.
Alice e Jasper erano chini su di me e mi fissavano con aria inesperta, come se avessero avuto di fronte un bambino, un cerbiatto, una creatura con il cui corpo non avevano alcuna dimestichezza e quando sbattei le palpebre, assistei al più strano degli eventi: Alice sorrise.
«Eccola qua», strinse le labbra sottili in una curva delicata.
«Ciao, Bella», Jasper tirò come un sospiro di sollievo.
Provai a tirarmi su, ma un dolore acutissimo si sprigionò all’altezza del mio collo, del mio gomito destro, ogni parte del mio corpo si spezzava e si riattaccava, a scatti, sotto il peso immenso dei miei lenti movimenti. «Stai giù», si affrettò a spingermi sul letto Jasper, «devi restare qui. Alice rimarrà con te, non sei più da sola». «No, no», brontolai stordita.
«Riesci a muoverti?», chiese lui.
Cos’avevano? Li guardavo e nei loro occhi c’era una sorta di ansia, di impazienza. Lo vedevo nei loro occhi, vedevo ogni cosa; vedevo anche il modo in cui tentavano di escludermi, di trattarmi con condiscendenza e provare a nascondermi qualcosa. Ripensai a cos’era successo prima che James scomparisse.. Un rombo, un tuono, boato violentissimo e il vetro dell’enorme finestra che andava in frantumi, scoppiava come si scoppia a ridere o a piangere, schegge brillanti e lucenti erano volate dappertutto, seguendo la traiettoria precisa dell’aria. Un ruggito, ricordavo anche quello.
E il resto? Era come se qualcuno avesse intinto un dito nel più nero degli inchiostri e avesse tracciato una striscia lungo tutta la mia memoria – vedevo alcune cose, molto chiaramente, ma il resto era oscurato.
Cosa mi nascondevano?
«Dov’è Edward?», provai di nuovo a alzarmi. La testa mi scoppiava, e il mio collo.. Al solo pensiero mi tornarono in mente le mani di James, strette intorno a me. Alice rivolse un’occhiata rapida a Jasper, il quale annuì impercettibilmente e si defilò, sgattaiolando via, più rapido di una saetta, al di là della finestra sfondata. «Vieni, ti porto in bagno», Alice provò a toccarmi, ma io fui rapida a scostarmi.
Provai a alzarmi, traballante. Era la prima volta che rimanevo sola con Alice e questa era una ragione sufficiente per farmi dubitare di ogni cosa: non era normale, il suo sguardo non era normale, leggermente forzato, ostentava dolcezza ma sapevo che c’era qualcosa che non andava. Dov’era finito tutto il suo risentimento, il disgusto che provava nei soli confronti della mia mera esistenza?
La squadrai un momento, scegliendo con cura le parole da usare – non ero di certo in grado di sopportare un altro attacco da parte di un alto vampiro. «Ti fa male?», domandò, improvvisamente preoccupata, accennando al mio viso. Scrollai le spalle, «Ti interessa?».
Non la capivo, sul serio e quell’attesa era snervante. Cosa c’era che non voleva dirmi?
Le sue labbra si strinsero leggermente e io fui sinceramente convinta, almeno in un primo momento, che il sentimento che le si era dipinto in volto fosse soltanto il riflesso di una leggera stizza, ma guardando più attentamente mi resi conto di come gli angoli della sua bocca fossero amaramente piegati verso il basso, il volto contratto in una smorfia di.. Rimorso? Si passò una ciocca dei suoi cortissimi capelli dietro l’orecchio e distolse lo sguardo, «Dovrei curarti quel taglio».
«Quale taglio?», lanciai istintivamente un’occhiata al mio ginocchio e Alice schioccò la lingua in segno di disappunto. «Il taglio che hai qui», portò l’indice sulla sua gota nivea.
Sfiorai lievemente i contorni del mio viso umido, sudato, sporco – potevo sentire sulla mia pelle giovane una traccia di quella che era stata una parte della mia vita, sulla quale si annidavano nodi di sangue raggrumato, piccole lacrime vermiglie che mi rigavano la gota: secche, anche loro.
«Oh..», mormorai.
Doveva essere successo quando James mi aveva tirato quello schiaffo, doveva avermi involontariamente graffiata con le sue unghie. «È.. È profondo?», borbottai spaesata, «Si vedrà la cicatrice, che dici?».
Lei scosse la testa, «È un graffio superficiale».
«Mh. Forse dovrei almeno levarmi il sangue», le parole mi uscirono fuori masticate e come incollate le une alle altre, «o mettermi del ghiaccio», carezzai la gota che James aveva schiacciato con al suola della sua scarpa. «Hai avuto paura?», chiese.
«All’inizio sì», mi passai una mano sulla nuca.
Le lanciai una rapida occhiata: la sua espressione era incerta, interrogativa. In un primo momento credetti di non aver semplicemente desiderio di parlarle, di spiegarmi, perché in sua presenza solo ricordi dolorosi mi tornavano in mente, nient’altro – a lei collegavo la scomparsa di Edward, una realtà più difficile da accettare di quanto potessi immaginare e la mia miserabile natura umana che rendeva così difficile la convivenza con quelle creature così potenti e di una bellezza sfacciata – ma la verità era che vedere James aveva fatto nascere in me nuovi sentimenti, pesanti come piombo che lentamente affondavano nella mia anima, forandomi la pelle del cuore: io provavo una pena sincera per loro, per quelli come lui, anche se più simili a Edward. Provavo pena per delle creature simili, legate a un passato indelebile e continuamente rimarcato dallo stesso mondo in cui vivevano. Quanto doveva essere faticoso per loro vivere fra noi.. Umani?
Non volevo dire a Alice quelle cose, non volevo che si dimenticasse di non essere più viva.
Non volevo causare ulteriore sofferenza.
«Ma alla fine, ciò che conta è che sono ancora viva, no?», sorrisi, cambiando argomento, «Anche se forse non era ciò che tu o Rosalie avreste voluto..».
«Mi dispiace, sai? Farò il possibile per non ferirvi di nuovo. Non è semplice per nessuno. E quando Edward.. Mh.. Voi tutti, ecco, quando ve ne andrete, non farò storie. Mi ricorderò di voi, comunque». Sembrava essere sul punto di dire qualcosa ma poi, nella sua mente, qualcosa in lei trillò come un campanello.
Sbarrò gli occhi in uno slancio di terrore, «Edward!», un sospiro doloroso proruppe dalle labbra di rosa.
«Che c’è? Che c’è?!», esclamai di nuovo tesa.
Mi guardava, ma non mi vedeva realmente – la sua attenzione pareva interamente rivolta a un mostro rannicchiato alle mie spalle, più simile al presagio di una tragedia che a un vero e proprio umanoide; in quei momenti non potevo far altro che immaginare quali scenari prendessero luogo nelle lande sconfinate della sua mente, pregando soltanto che non si trattasse di qualcosa di tremendo.
Sgranò ancora di più gli occhi e la pupilla sembrò annegare nell’oro della sua iride tanto era diventata piccola – un minuscolo punto in mezzo a un oceano di maledizioni – non sembrava davvero nemmeno più essere in sé, no, era altrove, con la mente veloce, indistruttibile, fortissima, sempre protesa verso un futuro dalle inimmaginabili sfumature: la chiave degli eventi dell’universo pareva esserle caduta fra le mani, quasi come se un Dio benevolo avesse voluto farle un favore, un regalo, ma solo temporaneo, nella speranza che quello bastasse a portare un po’ di luce in quei pensieri intricati.
«Edward», sospirò impercettibilmente, sempre fissa davanti a me.

«Sta per morire».


«Che cosa significa? Sta succedendo adesso? Succederà? Dov’è adesso Edward?», strillai, cercando di attirare la sua attenzione, ma lei era distante, era altrove, si muoveva a scatti – la mente, invece, viaggiava per vie privilegiate, sulle quali i pensieri sfrecciavano più veloce di quanto lei avrebbe mai potuto e lì dentro c’era il suo mondo, in quel momento, i suoi ragionamenti e segretissimi stratagemmi, le soluzioni che tirava fuori una dietro l’altra senza mai darsi pace, con in viso quello sguardo fermo, fisso, eppure corrucciato in un’espressione d’inquietante tristezza. «Alice! GUARDAMI!», urlai a pieni polmoni e questo la scosse dal suo torpore. Perfino le pupille tornarono di grandezza normale.
«Devo andare», fece per uscire dalla stanza.
«No!», gridai, tentando di fermarla, ma fu decisamente inutile, «Vengo anche io!».
«Non se ne parla. Devi restare qui. Non saresti di nessun aiuto, la verità è che non lo sei mai stata, anzi! È solo colpa tua! Stai qui finché non torniamo», ruggì, gli occhi striati da un nero velenoso.
La sua incertezza, quei silenziosi momenti in cui la sua rabbia nei miei confronti si fosse placata erano svaniti del tutto, nello stesso modo in cui cominciava a svanire nel mio cuore la speranza di poter rivedere Edward. Oh, ero così.. Disperata. Il mio corpo era spezzato, sembrava staccato in tocchetti, le mie articolazioni dolevano e in me non esisteva più nessun appiglio, nessuna certezza, eppure non avevo la minima intenzione di lasciarla andare. Non così.
La vidi balzare giù dalla rampa di scale.
«Se te ne vai lo dirò a tutti, hai capito?», strillai a pugni serrati.
Alice si bloccò, quasi pietrificata. «Come?», mormorò con disgusto.
«Lo dirò a tutti», ribattei, «Tu vattene e io lo dirò a tutti. Mi farò ancora più male, mi taglierò con i vetri, mi lascerò cadere dalle scale e dirò che siete stati voi. Dirò cose tremende sulla vostra famiglia, vi costringerò ad andarvene, non vi darò più pace fino al giorno in cui morirò! Ne farò la mia ragione di vita, te lo giuro, te lo giuro!».
«Ma portami con te, portami da Edward, posso aiutarvi. Portami da lui e io,.. Vi lascerò stare. Non parlerò nemmeno più con Edward, lo prometto. Ma portami con te, portami da lui».
Ero talmente sofferente, mi vergognavo a tal punto di quelle parole, di tutte le promesse che in quelle frasi minacciavo di infrangere,.. Cosa avrebbe detto Edward se mi avesse sentita? Oh, non si sarebbe mai, mai più fidato di me, ma che altro modo c’era di raggiungere Alice? Lei che era così distante da me, che non aveva nessun punto in comune con l’anima che ero, che non mi degnava nemmeno di uno sguardo, che m’incolpava di tutto, come potevo trovarla nel luogo dove era? Come potevo farle vedere cosa c’era nel mio cuore, affinché capisse che non potevo più sopportare la mia vita senza lui?
Alle sue parole io mi ero come accartocciata su me stessa («Sta per morire», aveva detto lei e sapevo che sforzo le era costato. Oh, se avesse subito potuto correre da lui, senza curarsi di me, dell’intralcio che ero, forse sarebbe stata più felice), non potevo restare lì, non in quella casa. Non sapevo nemmeno cosa stava succedendo, maledizione! «Va bene», disse lei e nel suo tono udii come una nota di compassione.
Non ne compresi il motivo finché, dopo averla raggiunta in fondo alle scale, lei mi lanciò un’occhiata rapida: «Asciugati le lacrime», disse porgendomi un fazzoletto ricamato.
Avevo iniziato a piangere e non me n’ero nemmeno accorta, talmente ero assorbita dai miei terribili pensieri – piangevo per Edward, per le mie parole, per le bugie, per il dolore, per la mancanza. Per quella vita che non capivo e mi confondeva a tal punto da portarmi sull’orlo del precipizio, farmi cadere e poi tirarmi di nuovo su. «Cosa sta succedendo?», chiesi tirando su col naso.
«Un casino dietro l'altro, ecco cosa succede. Edward è stato il primo a sentire James», cominciammo a avviarci a passo di carica verso il garage della casa, «so che forse tu credi di conoscere mio fratello, e forse in parte hai ragione, ma non hai idea del suo potenziale. In realtà, nessuno ce l’ha. Edward è il solo padrone dei suoi misteri. Quando eravamo fuori dalla casa, quando si è accorto che eri in pericolo, per una pura associazione di pensieri, nati grazie a una lieve scia d’odore lasciata dal segugio, Edward è come.. Non so nemmeno dirlo. Non definirei “follia” il sentimento che pareva animarlo, anzi. Era fin troppo lucido – non l’ho nemmeno visto muoversi, è semplicemente sparito, come se fosse stato risucchiato dalla terra, dall’aria intorno a noi. Correva a una velocità sconvolgente, non ho nemmeno fatto in tempo a arrivare a casa che era già sparito con James. Quello che voglio dire è che.. Edward potrebbe essere più forte di qualsiasi altro vampiro, invincibile oserei dire, ma poiché ha scelto questo stile di vita non è allenato. E l’allenamento è indispensabile: a lui manca completamente. James, al contrario, è più debole, ma molto resistente. E furbo. E Dio sa solo cosa. Sono abbastanza certa, inoltre, che anche Victoria e Laurent siano usciti allo scoperto per dare man forte al compagno. Jasper e gli altri sono là, stanno cercando di contrastarli ma.. Sono forti. Davvero forti. Perciò», si rivolse a me, «cerchiamo solo di sbrigarci, siamo ancora in tempo».
Annuii. Alice aprì in fretta l’armadietto di metallo scintillante che era nel garage: la quantità di armi che mi si parò davanti agli occhi fu impressionante.
«Armi? Ma.. Perché? A che vi servono?», domandai sbigottita.
«A nulla. Jasper è un collezionista sui generis», ghignò. «Sai lui, quando ancora era vivo..», cominciò ma si interruppe immediatamente, forse imbarazzata dalla confidenza che mi stava dando in quegli attimi.
«Avanti, prendine uno», mosse la testa in direzione dell’armadietto spalancato davanti a noi.
«Come sai che so usarlo?».
«Si scoprono un sacco di cose semplicemente ascoltando», mormorò e io fui abbastanza certa che avesse origliato qualche mia conversazione. E anche più di una volta.
La mia mano si mosse velocemente e senza pensarci verso il sovrapposto al centro dell’immensa griglia di armi da fuoco che si trovavano, perfettamente allineate le une vicine alle altre, su quegli scaffali: lo stesso che usava Charlie. Sorrisi, sovrappensiero.
«Andiamo», Alice mi caricò in spalla senza che io potessi nemmeno accorgermene, «reggiti forte, questa non è una passeggiata».
Annuii decisa, «Sono pronta».


Alice correva più veloce di quanto mi aspettassi, ma era di certo meno cauta di Edward: quasi con una sottile noncuranza e, ne ero certa, una punta di piacere nel sentirmi mentre mi aggrappavo spasmodicamente alle sue spalle, nel tentativo di non cadere o di perdere il fucile per la strada, saltava letteralmente da un punto all’altro. Non osavo nemmeno aprire gli occhi, tanta era la paura di cadere di nuovo in trance o di essere di nuovo stordita da tutta quella velocità. Non avevo nemmeno idea di dove fossimo dirette, né come stesse Edward. Che cosa stava succedendo? Alice non mi aveva mai realmente detto, in quei pochi momenti, cosa avesse realmente visto – non avevo altro che i pochi dati che mi aveva fornito, ma speravo nelle sue parole. Speravo così tanto che Edward non fosse solo, che non patisse il dolore di sparire nel più totale e misero degli abbandoni. Non volevo che i suoi occhi si chiudessero per l’ultima volta riflessi in quelli sanguinei e ardenti di James. Volevo che vedesse il buono di questo mondo, volevo per lui qualcosa di migliore e,..
Ebbi un sussulto.
Strinsi ancora più forte il sovrapposto – non volevo che se ne andasse. Non anche lui.
Alice rallentò gradualmente e quando finalmente si fermò, tutti e cinque i miei sensi cominciarono di nuovo a lavorare a pieno regime. Ma per dirla tutta, avrei preferito diversamente.
Potevo sentire l’odore delle cortecce degli alberi divelsi, delle grandi zolle di terra che, una dietro l’altra, saltavano in aria come mine, quello era nitido, preciso perché conosciuto e poi eccone un altro, acre, più debole, strisciante, assomigliava a saliva, sudore, sale. Udivo i grugniti di sforzo e i ruggiti feroci di Rosalie, la voce di Carlisle. Grida, strilli. Ruggiti. Sulla mia pelle, di tanto in tanto, piccole schegge di legno, fili d’erba mi si depositavano addosso. Avrei voluto annullare tutti quei dati che, man mano, il mio cervello recepiva: semplicemente non volevo muovermi di lì, alzare il viso dalla spalla di Alice per confrontarmi con la realtà. Cosa avrei fatto se avessi capito che non c’erano più speranze? Cosa avrei fatto di fronte all’inevitabile?
Provai a concentrarmi su me stessa, ma l’unica cosa a cui riuscivo a dare retta, quando facevo in me un po’ di ordine mentale era il sapore che avevo in bocca, un sapore inesistente, creato solo dalla paura, dall’angoscia del momento, dai miei sensi obnubilati: simile a sangue, mi impastava la bocca e mi inondava la gola. Strinsi Alice, più forte di quanto avrei dovuto, ma lei mi lasciò subito andare e corse via.
Caddi in ginocchio, sorretta soltanto dal fucile.
Riprenditi maledizione! Riprenditi! Ora!, gridava una voce nella mia testa.
Alzati e combatti!
Quando aprii gli occhi, davanti a me prendeva luogo il più terribile degli scenari.
Sporco. Era il viso di Carlisle quando si piegava sotto i colpi di Laurent, mentre provava a difendere Esme.
Lucenti. I capelli di Rosalie e di Jasper, intrecciati in un valzer di fuoco e violenza contro la bellissima Victoria, che si dimostrava più che all’altezza di tenere testa ai due, anche da sola.
Devastante. Il colpo a sorpresa che Alice sferrò in quel momento, colpendo in pieno viso Laurent.
Profondo. Lo scricchiolio delle ossa di quel ragazzo dai denti brillanti e i rasta nerissimi che parve riposizionare tutte le vertebre della sua possente spina dorsale.
Teso. Il corpo di Edward mentre si protendeva verso James.

Infuriato. Il cielo straziato dalle nuvole sopra di noi.

La battaglia si faceva cruenta, devastante, pezzi di terra volavano in aria insieme alle grida che parevano nascere dalle viscere del mondo stesso e io ero lì, in mezzo a loro che si battevano, che non avevano tempo né soluzione, che si muovevano fra le ferite e le pieghe dei loro visi contratti in smorfie di acuta sofferenza e sforzo. Ero lì ma non c’ero davvero. Continuavo a fissare Edward, a guardarlo sperando che lui non guardasse me, che non si distraesse, ma davvero altro non potevo fare. I miei pensieri si intensificavano intorno alle parole di Alice, come un dolore acceso che pulsa intorno a una ferita fresca.
Sta per morire.
Sta per morire.
Sta per morire.
Seguivo la lotta fra i due con un’attenzione che avrei definito avida, se non ossessiva, provavo a non perdermi un colpo, non una mossa, ma era tutti così veloce, troppo veloce. Cristo! Strizzai gli occhi, ma questo non servì a nulla. E nemmeno la mia presenza servì – James sferrò un calcio a Edward, il quale accusò il colpo e fu a terra in un momento. L’altro gli si avventò addosso con una tale eccitazione negli occhi che sembrava quasi di vedere un fuoco ardere nel profondo delle sue viscere.
Sta per morire!
James spalancò le sue fauci fameliche, un lupo pronto a sfoderare l’ultimo colpo, asso nella manica, era pronto. Sta per morire!, urlò ancora quella voce.
Impugnai il sovrapposto, provando a annullare il tremore che mi pervadeva tutta.
I denti di James brillarono sotto il grigiore brillante delle nuvole, crudeli. Nessuno l’avrebbe aiutato, in quel momento, nessuno degli altri Cullen sembrava nemmeno accorgersi della tragedia che si stava per consumare, proprio lì, davanti ai miei stessi occhi.
Punta alla faccia!
Sta per morire! Morirà!, ormai l’angoscia mi stava strozzando.
«Edward!», gridai, con tutta la forza che avevo in me.
E per un attimo, tutto cominciò a rallentare – si voltò verso di me e così pure James. Intorno a me venti punti brillanti, rossi, neri e d’oro si rivolsero al mio viso tumefatto: ero l’attrice sul punto di salutare il pubblico davanti a me, prima di calare il sipario sul gran finale.
Lanciai un’occhiata a James e premetti il grilletto.
E in quel momento capii.
Per chi stavo lottando veramente? Per chi facevo tutto questo?
Guardai Edward, trattenendo le lacrime.

Per lui.

Il colpo fu secco, assordante, ma a me parve come di aver scoccato una leggerissima freccia che piano piano diventava più sottile, ancora più sottile, fino quasi a perdersi fra i contorni della fitta boscaglia.
Edward si tese ancora di più, tratteneva James nella sua presa d’acciaio e di cemento e intanto la freccia si faceva più vicina, finché non toccò la mascella del segugio, una carezza che divenne rapida esplosione, boato frastagliato da grida laceranti. La freccia non era più una freccia ma un proiettile e il viso di James non era più un viso. Con la lingua ciondoloni, ormai privato della sua mascella, il segugio provò a divincolarsi dalla presa di Edward, a scappare, a salvare almeno quell’ultima parte di sé, ma l’altro, implacabile, lo spinse a terra, in un attimo gli fu sopra e gli staccò la testa. Di netto.
Fu in quel momento che fui certa che né in cielo né in terra potesse esistere dolore più accecante di quello di Victoria – era lì per James, come io ero lì per Edward, e anche lei si era accorta di quello che stava succedendo, proprio come Alice, Jasper e gli altri; la lotta doveva essere scoppiata in pochi momenti.
Urlava, con le lacrime agli occhi alla visione di quel terribile sfregio che si apriva lungo tutto il collo di James proprio come in quel momento si apriva nel suo cuore. Vidi Laurent provare a portarla via, ormai conscio che non ci sarebbero state comunque possibilità per loro due – il suo viso si piegò in un’espressione talmente terrorizzata alla vista di James, così, rotto, immobile, ormai solo un fantoccio e in quel momento compresi che Laurent stesso, proprio come Victoria, era talmente certo della superiorità di James rispetto a Edward da non porsi realmente nessun tipo di problema. Fino a quel punto quei due si fidavano di lui e questo mi dette subito una misura di quanto dovesse essere stato forte James. E di quanto lo fosse Edward.
Ci misero poco a sparire, ma quelle urla, il volto di Victoria, il modo in cui mi guardò, a metà strada fra l’odio più feroce e velenoso e il più completo smarrimento, quasi avesse voluto prendermi a schiaffi piangendo, chiedendomi come avessi potuto farle una cosa simile, si impressero nel mio cuore per sempre.
Quando perfino quelle grida strazianti si fecero via via più flebili e distanti, lasciai cadere il fucile a terra, esausta come lo erano tutti. Lanciai un’occhiata a Edward, in ginocchio in mezzo alla radura di fronte a me.
Per un tempo che io percepii come eterno nessuno parlò, nessuno si mosse, tutti cercavano di riprendere le forze e la calma. Chiusi gli occhi.
Volevo chiedere scusa a Alice in un modo talmente sentito, talmente sincero da farmi venir voglia di piangere, di ridere, di tremare, di gridare per la rabbia e qualsiasi altra ragione possibile. Sì, volevo scusarmi, scusarmi per quello che stavo per fare, ma non c’era altra soluzione.
Le avevo promesso che, se mi avesse portato con lei, se mi avesse portato da lui, io sarei sparita per sempre, che non avrei più parlato con Edward o lo avrei toccato, o lo avrei sognato. E chissà, magari lei ci aveva creduto, magari l’aveva fatto anche senza sapere che ero una donna di parola, magari ci avrebbe creduto anche se fossi stata una bugiarda, perché se lo fossi stata quella sarebbe stata la prima promessa sincera che avrei detto.
«Ma portami con te, portami da Edward, posso aiutarvi. Portami da lui e io,.. Vi lascerò stare. Non parlerò nemmeno più con Edward, lo prometto. Ma portami con te, portami da lui», così avevo detto, vero? Vero?
E ero sincera, così sincera! Pur di vederlo avrei sacrificato qualunque cosa.
Per questo, in quel momento avrei voluto scusarmi.
Stavo per infrangere la mia promessa.
Scusa Alice, scusa tanto, avrei voluto dire. Scusa per sempre.
Aprii gli occhi e corsi verso Edward, raccogliendo le ultime forze che mi restavano e caddi in ginocchio, vicino a lui, gli lanciai le braccia al collo, stringendolo a me.
Era vivo.
Era lì con me.
Non se n’era andato.
Potevo ancora toccarlo, potevo sentirlo, potevo sentire anche il suo cuore.
Era lì con me e al solo pensiero scoppiai a piangere.
Non avevo più paura per me, ma quanta ne avevo avuta per lui! E non combattevo più per me stessa, ma per lui! Per lui! Non mi importava cosa diceva Alice, quanto forte poteva arrivare a diventare Edward, non mi interessava nulla perché ogni volta che lo guardavo davanti ai miei occhi c’era sol un ragazzino di diciassette anni, spaventato proprio come me, solo, proprio come lo ero io, e io non potevo lasciarlo davanti alle avversità senza stringergli la mano, senza fargli capire che non m’importava nulla di tutto il male che c’era nel mondo, se potevo combattere al suo fianco.
Perché con lui, io ero pronta.
E non avevo più paura.
Sì, volevo scusarmi, scusarmi mille volte con Alice, perché sapevo che era lì, che mi guardava e forse con che odio!, scusa per tutto, e anche per quello che stavo per fare.
Mi sciolsi dall’abbraccio, guardai Edward in viso
e
lo baciai.
In quel singolo bacio tutta la realtà che ci circondava cominciò, piano piano, ad avere sempre più senso, come un foglio di carta accartocciato che uno prendeva per caso e rimetteva a posto, spianando bene anche gli angoli. Adesso capivo così tanti sentimenti, la rabbia tenue costellata di piccoli punti accesi di gelosia, la felicità nel vederlo arrivare, la serenità che provavo sentendolo vicino a me, di mattina appena sveglia, il tumulto che i suoi sorrisi creavano in me, il batticuore quando mi abbracciava, la tristezza, l’amarezza, tutto, ogni cosa. Strinsi la sua faccia fra le mie mani e cominciai a dargli così tanti baci che quasi mi girava la testa e mi veniva da piangere, perché nulla in me assomigliava alla certezza, alla sicurezza, nulla in me sapeva se lui avrebbe mai ricambiato ciò che io nutrivo per lui, eppure era come se non avessi scelta: riuscivo solo a baciarlo. Piano piano, insieme ai baci, spuntarono come fiori dai miei occhi altre lacrime e poi furono solo baci e risate e alla fine baci e piccole parole come «Ciao», «Scusa», «Sono qui», «Non mi lasciare». E speravo che tutte queste, da sole, bastassero perché lui sentisse l’unica parola, frase che ormai da giorni volevo dirgli. «Baciami».
Lo sentii sorridere fra un bacio e l’altro e mi strinse a sé più forte che poté.
«Ciao», sussurrò anche lui, commosso.
Fronte contro fronte, non riuscivo nemmeno a aprire gli occhi e guardarlo, tale era l’emozione.
«Grazie», mi baciò, «mi hai salvato la vita».
«Tu a me. Siamo pari», sorrisi.
Rimanemmo così e a me sembrò per sempre, per tutto il tempo del mondo, della galassia, dell’universo intero. Non volevo lasciarlo andare, non volevo mai più. Mai, mai più.
Per la prima volta dopo tutto quel tempo, avevo ritrovato casa mia.
Era successo per davvero.
  
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